Piccolo requiem per l’Occidente sbagliato
di Giuseppe Genna
Questa è una guerra.
Piccola, interiore.
L’edificio è svuotato, è corroso, è abbattuto. La necrosi avanza. Schieramenti di folle disumane senza colore assaltano, distruggono. Si mangiano tra loro. Boati immensi, smottamenti. Sono come bacilli impazziti, si vedono gruppi, colonie intere dissociarsi e riunirsi, esodi impensabili, folle che puntano al nervo che pulsa. Vogliono nutrirsi della vita altrui.
E’ guerra e pestilenza e sta accadendo ora, qui. Come miriadi, come eserciti impazziti, falangi danno l’assalto al palazzo bianco, lo devastano, lo riducono a polvere morta e nera. L’edificio immenso è cariato. Sta per crollare.
Il dolore è altissimo.
All’improvviso ondate di liquido acqueo scompaginano i campi. E’ un’inondazione. E’ un’onda anomala, le sue dimensioni sconcertano.
L’esercito degli assedianti, stolido, riprende l’opera di demolizione. Sono esseri spietati, agiscono meccanicamente. Non sentono nulla. Attaccano, intaccano. Il loro verbo è attaccare, è sopravvivere.
Ancora un’inondazione. Sono sbaragliati. Nuotano nel liquido vitreo, si attaccano l’un l’altro.
Sembrano anguille, sono mostri.
Sono batteri.
L’infezione è altissima.
E di colpo tutto è rosso.
E’ la tracimazione del sangue, del liquido primario. Tracima ovunque, invade i canali, i nervi fibrillano. E’ una cosmogonia, questa; o la sua fine.
L’universo implode.
Il sangue collassa ovunque, fuoriesce.
Lo sguardo fuoriesce e si allontana: fuori dal dente cariato e invaso dal sangue. Era la guerra batteriologica, questa. Stavano demolendo il dente bianco, lo cariavano, le pareti erose diventavano polvere nera, un puzzo chimico di decomposizione era il fumo, il fumo batterico che lede i nervi e li uccide. Le larve sono state travolte dal sangue ovunque. Adesso tutto è invaso dal sangue.
Da dove viene?
Lo sguardo fuoriesce dal dente. Percorre in verticale il canale marcescente. E’ un risucchio altissimo. Le eliche del dna vorticano, lo sguardo le vede. Sta risalendo vorticosamente il pozzo artesiano e nero del canale dentale.
Fuoriesce dalla carie del molare: una stella morta.
Lo sguardo esce nel cavo orale, immenso utero scheletrico. Le costole del palato sono arcate fossili e si stanno immensamente scuotendo. Sono il limite materiale di questo universo: rosso e viscoso, buio finché percosso dalla luce quando si apre, subito si richiude. E’ l’enorme carverna, l’assoluta. E’ il ventre del mostro.
E’ buio e adesso si spalanca.
Lo sguardo vede aprirsi la fenditura a oriente. A occidente gorgoglia una materia prima, che sta per sommergere l’abnorme incavo. Gorgoglia, avanza, tracima: è il sangue.
Siamo dentro la bocca, dentro l’invaso uterino.
Potrebbe essere il parto, è il suo contrario.
Si avanza l’onda del sangue in questa bocca universale. Ribolle, è colossale. Lo sguardo arretra verso oriente, dove la caverna sta spalancandosi, immensamente. Di lì inizia a penetrare la luce, è una luce bianca e assoluta.
Essa illumina quest’universo finito. Invade il cavo, acceca. Mostra l’avanzata dell’immane onda di sangue che si fa incontro alla luce. La luce entra a contatto con il colosso mobile del sangue, che invade tutto e penetra gli immensi alvei dei denti, che sembrano sistemi stellari invasi, ora, carcinomatosi.
E si alza l’urlo.
E’ un vento sonoro potentissimo che proviene dall’oscuro punto a occidente da cui sta dirompendo l’onda del sangue.
E’ un vento totale che trascina via lo sguardo. Muro di onda sonora, inaudita, proviene dalla gola di quell’universo. Quell’universo sta finendo, questo è il processo della sua fine.
Il suono è preternaturale. Nessuno ascolta. C’è solo lo sguardo a testimoniare questa fine.
Lo sguardo è spazzato via, defluisce verso l’apertura dell’enorme cavo.
Le papille stanno per essere sommerse dal sangue. Sembrano uova vive, carnose, nervose. Un tappeto di cova per miriadi di batteri, forme mostruose, lenticolari, aracnoidi, aliene, interne. La matrice di una vita segreta e ubiqua.
Ed è l’urlo che spazza tutto, prima barriera mobile, non resistibile. Poi giunge dietro l’urlo la seconda barriera, quella del sangue.
E’ un altro risucchio. E’ un vento solare che proviene dalle interiora di quell’universo orale e spinge verso l’uscita.
E’ la doglia.
E’ il parto.
E’ l’espulsione.
Trascinato dalla forza di impatto, lo sguardo fuoriesce, supera gli incredibili coralli degli incisivi, è espulso a oriente, dove le labbra si stanno muovendo, si spalancano, sembrano anguille esterne, di dimensioni mai viste.
Contro la luce che penetra nella fine di quell’universo è spinto lo sguardo.
Ecco, fuoriesce. Ecco, è fuori.
Fuori, nell’aria, lo sguardo espulso è in rotta esterna, segue una certa rotta diagonale. E’ fuoriuscito da quell’universo. Si allontana a velocità insostenibili e vede la testa.
Essa è una testa umana e lo sguardo è fuoriuscito dalla sua bocca.
E la testa rotea.
E’ una testa senza corpo e lo sguardo vede lo sguardo ancora un poco significativo di quella testa che sta sentendo di essersi staccata e la forza vitale la abbandona, e lo sguardo registra lo svuotamento delle pupille di quella testa, e la testa rotea nell’aria e cade accanto al corpo disteso sulla pavimentazione sporca, e l’onda di sangue dopo l’onda di urlo esplode dalla bocca, dal piccolo universo da cui lo sguardo è stato espulso.
E la testa cade, lontana dalla sua sede naturale.
E il nome della testa umana è Oloferne, e il Santo Paolo, il Santo Gennaro, e Thomas More patrono dei politici e dei governati, monarca Luigi Sedicesimo, è l’uomo cingalese sulla picca, è l’ostaggio.
Questo continua ad accadere.
Questa è la vita vista da vicino.
E lo sguardo che lo ha visto e che è muto dice: “Questa civiltà è decollata”.
[Questo brano costituisce il Prequel di un romanzo inedito, una sorta di parathriller metafisico intitolato Le Teste. gg]