di Gianni Clerici
[Pubblico un articolo che non è un articolo, ma un racconto. E’ stato editato su ‘la Repubblica’ il 15 maggio 2005, ma è indistinguibile dalla stupefacente prosa anamnestica di cui Clerici ha dato prova, per esempio, in Terra rossa, edito da Fazi. Chi non avesse letto nessun libro di Clerici è invitato caldamente a fare la prova. gg]
Il corridoio che collega gli spogliatoi al Campo delle Statue, il Centrale del Foro Italico, è lunghissimo. Lo percorrevo per la prima volta, nel 1950, l’anno che vedeva la ripresa del torneo, nel dopoguerra, dopo una sosta imposta all’Italia dai suoi ex-nemici anglosassoni. Fianco a me camminava un piccolo australiano che mi pareva vecchissimo, con i suoi trentasei anni. Uno che aveva vinto l’ultima edizione di Davis nel 1939, Adrian Quist. Camminavamo senza parlarci. Non sapevo l’inglese, durante la guerra quella lingua era stata proibita nelle nostre scuole, e sostituita con il tedesco. Ero senza fiato, scorgevo una fonte vivissima di luce alla fine del tunnel, e finalmente vi arrivai. Sul campo, che poteva ospitare quattromila persone, c’erano più statue che spettatori. Le guardai una ad una, quasi potessero aiutarmi: il pescatore col falco, l’arciere, il vogatore, il tennista con racchetta…
Ma il mio avversario già mi aveva lanciata la prima palla, e ribattei alla men peggio, rendendomi conto d’improvviso che veniva naturale giocare corto, spaesati dalle prospettive di quel campo enorme. Avevo anche per la prima volta l’onore, oltre che di un arbitro di sedia, di ben quattro giudici di linea. Andò male. Raccattai in tutto quattro game, mentre la vergogna cresceva, sino a divenire quasi insopportabile. Accolsi il 6 a 0 finale come una liberazione, e presto, sotto la doccia, mi dissi che non sarei mai diventato un giocatore internazionale, tanto valeva porre maggior attenzione all’università, divenire avvocato, e magari, in segreto, tentare la via del romanzo.
Vedete il destino. Sarei invece ritornato quattro volte al Foro Italico come tennista, sempre modesto, ma non tanto impotente da vergognarmi. E vi sarei poi ritornato ogni anno, sino ad oggi, da quello scriba che sono diventato. Un felice pellegrinaggio, le mie annuali vacanze romane, così come si ritorna per le ferie nello stesso posto, sino a conoscere tutti, guardiani, baristi, inservienti, camerieri. Sino ad adottare un luogo e esserne adottati, in qualche modo concittadini, di casa. Avrei pian piano appreso che quello stadio esisteva dal 1934, su progetto dell’architetto Costantino Costantini, che l’aveva denominato Stadio Olimpico della Racchetta, perché al partito fascista non piaceva la parola straniera tennis, sostituita con quella di Pallacorda.
Lo stadio faceva parte di un complesso polisport, progettato da Enrico Del Debbio, una costruzione monumentale che sarebbe terminata solo alla vigilia della guerra, nel 1939. Il tennis comprendeva, appunto, il Centrale con le gradinate in marmo, più altri sei campi, e due altri di allenamento, che sarebbero in seguito stati distrutti per far posto al parcheggio auto dei tifosi di Roma e Lazio e, nel 1996, per la costruzione di quello che l’architetto Portoghesi definì “una vergogna per un paese del terzo mondo”. Stadio dovuto alla genialità del past-president Galgani, in seguito ad un cosiddetto permesso temporaneo di qualche funzionario compiacente della Belle Arti.
Ultimato che fu quello comunemente definito Foro Mussolini, nel 1935 il Torneo Internazionale venne avocato a Milano, dove aveva preso a svolgersi dal 1930 al Tennis Club Milano. Quell’incantevole Club era stato costruito nel ’23 dal geniale architetto Giovanni Muzio, per una iniziativa dovuta quasi esclusivamente ad Alberto Bonacossa. Importante feudatario, grande sportivo, proprietario della Gazzetta dello Sport, Bonacossa era stato insignito del titolo di Conte dal partito.
All’inizio avverso a quel “gioco da signorine inglesi”, Mussolini si era via via avvicinato al tennis, anche per il coraggio di Augusto Turati, presidente della Fit, Federazione Italiana Tennis, che aveva espunto il classico Lawn (prato) dalla ragione sociale. Un giorno in cui, dalla terrazza del Club Parioli di viale Tiziano, Mussolini assisteva ad una sfilata di sportivi, Turati l’aveva sentito esclamare: “Un gioco che non mi piace e che non capisco”. Pronto, aveva ribattuto: “Non vi piace, Eccellenza, perché non lo capite”. Pochi giorni dopo, il custode del Tennis Parioli sarebbe stato chiamato a costruire un campo a villa Torlonia, e tre mesi più tardi qualcuno si sarebbe sorpreso nel sentire il Duce esclamare: “Magnifico gioco, lo pratico anch’io”. A questo coup de foudre si deve lo spostamento del torneo da Milano a Roma. Vecchi soci del Tennis Club Milano mi raccontarono che “El cont Alberto” non era stato per niente lieto dell’iniziativa del Capo. Ma che altro poteva fare, se non indossare la camicia nera, mettersi sull’attenti, e tendere il braccio?
Posata l’ultima lastra di travertino, cooptati nelle loro eleganti divise gli studenti della Farnesina per far macchia sulle tribune sguarnite, la prima edizione romana del 1935 ebbe inizio. Si auspicava che un rappresentante di un paese di Santi, Poeti, Navigatori giungesse a confermare la nostra antica superiorità razziale. Con delusione mista a sorpresa, i due migliori tennisti italiani, il nobile De Stefani e l’ex-raccattapalle Palmieri, furono battuti. In finale, di fronte ad un parterre di elegantissime dame e cavalieri in camicia nera, l’inatteso americano Wilmer Hines, soltanto sedicesimo nella classifica Usa, battè tre set a zero il nostro eroe, Palmieri.
Si verificarono, nel corso di quella prima edizione, alcuni incidenti, che avrebbero più tardi connotato la storia di un Campionato sempre diverso da quelli tradizionali di Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Australia: i cosiddetti Grand Slam. Il terzo tennista mondiale, il boemo germanizzato Menzel, abbandonò il campo causa il comportamento scorretto del pubblico, e fu squalificato. Ma, nel corso delle edizioni del dopoguerra, avremmo visto di peggio. Sul Campo delle Statue il cecoslovacco Kodes avrebbe aggredito il giudice arbitro Brunetti. Una bottiglietta sarebbe volata in campo nel corso di un match del bizzarro rumeno Ilie Nastase. Un forte giocatore americano, Solly Solomon, avrebbe abbandonato il match contro Adriano Panatta, accusando i giudici di derubarlo. Un arbitro inglese, Bertie Bowron, sarebbe disceso indignato dal seggiolone per andarsene. E, infine, Borg avrebbe minacciato il ritiro, nella finale 1978 contro Panatta, se gli spettatori avessero continuato il loro lancio di monetine.
Avrebbe scritto un habitué e innamorato degli Internazionali, il columnist del Boston Globe, Bud Collins. “Gli inglesi possono aver inventato il tennis, ma gli italiani l’hanno umanizzato”. Giudizio benevolo, ma, anche nei risvolti negativi, non lontano da una sua verità. Con il beniamino italico in campo, il pubblico si esaltava, sino a dimenticare le più elementari regole del fair play. Gli spettatori che salutarono il loro concittadino Nicola Pietrangeli, vincitore nel 1957 e 1961, erano rumorosi, partigiani, ma non faziosi. I loro nipoti, che nel 1976 sostennero un Adriano Panatta vincente, si erano avvicinati al costume dei tifosi della curva sud del vicino stadio di calcio. Ebbri di un sottile fluido collettivo, si abbandonavano a invocazioni rituali, e il coro di A-A-dri-a-no, scendeva dagli spalti a importunare lo sfortunato avversario del nostro eroe.
Negli anni in cui l’Italia divenne protagonista della Coppa Davis, accaddero episodi di cui ancor mi vergogno, nonostante mi opponessi con le fragili armi del cronista. Nel corso di Italia-Usa del 1961, un punto importantissimo fu scippato all’americano Whitney Reid, che avrebbe issato il suo paese a un preoccupante vantaggio di due a zero. E, nella semifinale di Davis del 1976 contro gli australiani, John Alexander sarebbe stato addirittura colpito alla fronte da una pietra. È ormai un vecchio gioco tra noi, che ci incontriamo negli studi televisivi dei tornei, rimemorare la vicenda: John si porta un dito alla fronte, io giungo le mani e mi inchino, in atto di scusa.
Tutto ciò va ricordato per onestà cronistica, ma nulla toglie al fascino di un torneo che non ha eguali e che, negli anni tra il Cinquanta e il Settanta, avrebbe raggiunto e forse addirittura superato la qualità di un Roland Garros allora mal diretto. Per nostra fortuna, un ex-giocatore e impresario di spettacoli teatrali e sportivi, Carlo Della Vida, si sarebbe trovato a dirigere gli Internazionali. Figlio di uno dei tredici professori che rifiutarono di sottomettersi ai fascisti, uomo di superiore cultura, Della Vida attirò i campioni con ogni mezzo, dagli assegni sottobanco, vietati ai tempi del dilettantismo, ad altre lusinghe di ogni natura. Ma fu soprattutto la sua grande intelligenza, l’umanità, a far sì che Roma divenisse, se non addirittura il quarto, il quinto torneo mondiale.
Non l’avessero disgustato i soliti mediocri, provinciali dirigenti federali, Della Vida avrebbe impedito che gli Internazionali smarrissero via via importanza, sino a lasciare una data ideale nelle mani del loro concorrente, Amburgo. Combinata all’assenza di un erede di Pietrangeli e Panatta, la cattiva organizzazione avrebbe condotto il bilancio in passivo, sino a far temere la scomparsa di un’istituzione di ben 75 anni. Quest’anno abbiamo assistito d’improvviso a una inattesa ripresina. E speriamo che la tendenza non venga meno. Sarebbe scoraggiante che il Foro Italico fosse occupato dagli ultras come la vicina arena, ormai consegnata ai giochi gladiatori del circo.