di Beppe Sebaste
(da L’Unità, 7 settembre 2005)
Joe R. Lansdale è ormai anche in Italia un autore di culto, e il pubblico che ha affollato una piccola libreria del centro di Roma lo ha mostrato. Niccolò Ammaniti ha detto una volta che i libri di Lansdale sarebbero un buon motivo per imparare a leggere, e per molti, sottoscritto compreso, un suo nuovo libro è sempre una festa.
Il mix di fantasia sfrenata e di descrizione impietosa della realtà, nei suoi aspetti di crudeltà, violenza e assurdo, si impasta con un umorismo disincantato e beatificante.
Un umorismo, mi precisa, che Lansdale condivide nella vita quotidiana con gli amici. Anche durante il nostro incontro. In fondo, viviamo entrambi in Paesi governati da due joke-tellers, raccontatori di barzellette, ed è importante preendersi cura del linguaggio, che negli Usa – dice Lansdale – è più svilito che in Italia, poiché Bush non ne fa solo un cattivo uso, ma non sa proprio usarlo. Il mistero della prosa di Lansdale, il suo incanto, è forse nel mischiarsi di linguaggio parlato e scritto, dietro la cui semplicità si intuisce molto lavoro artigianale. Il risultato è una purezza noncurante che lega irresistibilmente il lettore alle sue pagine, fra suspence e sorriso. E’ uno di quegli autori capaci di rendere un pomeriggio uggioso e triste, che anzi butta peggio del solito, in una giornata luminosa. Anche se il dolore nelle sue storie non manca.
Texano, tutti i suoi romanzi sono ambientati nella zona degli Stati Uniti di cui conosciamo appunto un altro rappresentante, l’ex governatore George W. Bush, celebre per l’altissimo numero di condanne a morte che ha firmato («ma io sono più texano di lui, mi dice Lansdale, Bush è nato in Connecticut»). Lansdale, che al tema del razzismo e della violenza degli uomini bianchi ha scritto racconti bellissimi e struggenti, ci mostra tra l’altro che dall’Ottocento a oggi non è cambiato granché. Eppure, tiene a precisare, «quando racconto una storia di violenza, quando parlo di qualcosa come il razzismo, con tutta l’assurdità che comporta, non mi riferisco soltanto alla società americana, ma a tutto il resto del mondo, perché il razzismo e la violenza esistono negli Stati Uniti come altrove».
Che scrivere del luogo in cui si vive e si conosce sia il contrario del provincialismo, Lansdale è consapevole e indica in Mark Twain «un maestro nel raccontare una realtà locale come critica della realtà globale. Era bravissimo, e mi sono accorto grazie a lui che è un sistema molto efficace di rappresentare il mondo. Altrimenti si finirebbe per cadere in un presunto assoluto, o in un distacco snobistico che non ha valore né di realtà né di letteratura. Capire che bisogna rientrare nel proprio piccolo «locale» per dire il mondo, è un risultato importante. È soprattutto in Europa che ho trovato questo atteggiamento snobistico – continua Lansdale – persone che che rimproverano agli americani di non rendersi conto della stupidità americana, e a cui rispondo ricordando che l’Europa è un immenso monumento alla nefandezza, alla totura, alla sopraffazione. E soprattutto dicendo che, noi imbecilli americani, abbiamo imparato tutto da voi imbecilli europei».
Il «locale» di Lansdale, il Texas dei suoi romanzi, è piuttosto (e lo testimoniamo già alcuni suoi titoli) un sinonimo polveroso di spazio, così ampio da dissolverne i contorni. È fatto di praterie e di boschi, fiumi popolati di serpenti mocassini, presenze a volte magiche e inquietanti, a volte estremamente rudi e concrete, e che più di una volta mi ha fatto venire in mente le frasi di Gilles Deleuze sulla «superiorità della letteratura angloamericana»: per la sua felice sperimentazione immune dalla pesantezza dell’interpretazione, per il suo essere legata agli orizzonti e alle linee di fuga, ai viaggi nello spazio e nell’anima. Non si tratta di fare dei viaggi di vacanza, portando in giro il proprio io, ma forse di disfarlo. Come capita spesso ai personaggi di Lansdale. Il Texas di Lansdale è anche un luogo di memoria, un mondo che insegna questa verità non da poco, che «carne e polvere finiscono per rivelarsi la stessa cosa».
Inevitabile, con Lansdale, parlare dell’uragano che ha distrutto la città di New Orleans. Anche perché le descrizioni riportate dai giornali di tutto il mondo, rivelando atroci dettagli della tragedia, sembravano citazioni dal suo romanzo, L’anno dell’uragano, ambientato durante la catastrofe che spazzò via un’intera città del Texas, l’isola di Galveston. Mi dice Lansdale: «appena ho visto le prime immagini del disastro della Louisiana, la mia mente è andata all’uragano del 1900. Certo, erano tempi diversi, e il disastro fu peggiore, non c’era alcuna preparazione, non c’erano le informazioni e non ci furono soccorsi».
I lettori dell’Unità hanno già letto l’invettiva di Lansdale contro la politica di Bush che ha permesso il disastro della Louisiana. Ma il tema della catastrofe naturale, in controtendenza rispetto all’ottimismo patriottico di tanti Americani, è ricorrente nei suoi romanzi. Protagonista o sfondo, oltre a giustificare le macerie del mondo e l’asprezza dei comportamenti umani, spesso l’uragano è mescolato all’amore romantico, come nel bellissimo finale di Bad Chili: un uragano scoperchia e disperde nella foresta la casa di Hap Collins, proprio quando aveva trovato l’amore. Nell’ultima pagina, lui miracolosamente sopravvissuto ritrova lei, pure incolume perché si era nascosta nella vasca da bagno trattenuta dai tubi interrati. È una scena di neoromanticismo esemplare: nel paesaggio devastato di macerie, si baciano piangendo dentro la vasca sotto le stelle, e si addormentano lì abbracciati.
A colpire e commuovere in queste storie è l’assoluto tempo presente delle vicende iperreali, un presente di superstiti. «Probabilmente è proprio dello spirito indomito dell’uomo affrontare le cose peggiore con la disposizione di spirito migliore – dice Lansdale. Da un certo punto di vista le catastrofi hanno anche un potere catartico, quello di relativizzare i nostri problemi, riportarli in una scala diversa. Questo relativismo è importante, e di fronte alla disperazione della gente di New Orleans, ad esempio, i nostri personali disagi si stemperano e si riequilibrano».
La domanda seguente concerne l’altra cosa che più ammiro in Lansdale: l’invenzione di personaggi tanto più assurdi e strampalati quanto più credibili, che corrispondono alle nuove categorie di marginali colte in presa diretta. Personaggi di una verità scomoda e a volte accecante, come ancora Hap Collins, che viene morso da uno scoiattolo in preda alla rabbia e scopre di non avere una tessera sanitaria né alcuna forma di previdenza sociale, e per pagarsi le cure si mette a fare il detective per lo sceriffo.
«Sono consapevole e contento, sorride Lansdale, di dare voce a persone che finirebbero per essere definitivamente cancellate nelle nostre società. Provo da sempre fascinazione e interesse per tutto il sottobosco umano e la vita di chi è ai margini, anche perché io stesso sono stato povero, e so che cosa vuol dire essere degli emarginati, e continuo a provare una grande solidarietà per i loro destini in una società come la nostra. Quanto all’assurdità delle mie storie, delle azioni dei miei personaggi, è vero, penso che l’assurdo sia il motore del mondo. Del resto le mie storie sono tanto più assurde quando trascrivo precisamente sulla pagina scene che avvengono nella realtà, però esagerandole, rendendole più gradi e assurde per rendere più fedelmente l’assurdità che vedo nelle scene di tutti i giorni. Il senso dell’assurdo fa parte del mio modo di essere, la vita mi sembra assurda e così si rivela nel mio modo di scrivere. Forse, la ragione per cui percepisco in questo modo le cose è che sono cresciuto a latte e cartoni animati della Warner Bros». Sono più reali della realtà? «No, è la realtà che è talmente grande che dobbiamo noi restringerla per poterla raccontare».
Non c’è solo la violenza, il comico e l’assurdo nei romanzi di Lansdale, ma anche l’infanzia, e la nostalgia che emana. Per questo gli chiedo di quei romanzi che più esplicitamente la ritraggono, come In fondo alla palude e La sottile linea scura. Quest’ultimo, nel titolo, mi pare dica esattamente quella verità che solo i pazzi e i poeti sanno vedere, come scriveva il poeta William Blake: i contorni delle cose, la loro linea sottile. Di che cosa si tratta? «È vero, La sottile linea scura dice la perdita dell’infanzia, cioè dell’innocenza. Ma è metafora di tante altre cose. Del processo decisionale, per esempio, il dramma di prendere una decisione nella vita. Della linea di separazione tra i Bianchi e i Neri, tra il bene e il male, tra decisioni positive e decisioni negative. E anche, forse soprattutto, tra due modi di vedere la realtà, uno piatto e razionale, l’altro emotivo. Ho sempre pensato che nella semplicità delle cose c’è un lato magico, e di magia è pervaso il mondo, che si tratti di magia bianca, luminosa, o di magia nera. Anch’esse sono separate da una sottile linea scura…».
Il male, o la magia nera, è l’oggetto del romanzo da poco stampato da Fanucci. Alcuni recensori italiani non si sono neppure accorti che si tratta di un romanzo uscito nel 1986 (ma scritto nel 1982, precisa Lansdale). Il titolo originale è Night running, ma l’editore ci ci è andato giù più pesantemente: Il lato oscuro dell’anima. È una bella storia mozzafiato, protagonista una chevrolet nera portatrice di crudeltà e morte. Una storia che, per molti versi, fa pensare a Stephen King. Dice Lansdale: «Stephen King l’ho letto e incontrato spesso, e la tua impressione mi sembra corretta. Dobbiamo ricordare che nei primi anni ’80 molti scrittori americani hanno condiviso la scelta del genere horror come una forma alternativa di letteratura rispetto a quella convenzionale, ciò che consentiva a un autore che non voleva uniformarsi ad affrontare temi diversi in modi diversi. Col tempo le cose sono cambiate. Molti di noi si sono accostati a questo genere in crescita, piuttosto amato dai lettori, e lo hanno più o meno coscientemente trasformato. Io volevo scrivere storie che mi interessassero, che fossero horror o gotiche o western, o tutto questo insieme, con elementi di suspence. I miei romanzi però non hanno una grande componente di soprannaturale, che anche in questo libro è secondario e molto sfumato. C’è da aggiungere – continua Lansdale – che quando l’horror ha avuto il massimo successo, si è aperta una frattura e diverse direzioni. Stephen King, Dean Koontz e altri sono entrati nella letteratura di massa, ma sono stati anche accettati da quella letteratura contro la quale si erano inizialmente scontrati. In questa scia di scrittori accettati dal main stream ci sono anch’io, pur restandone sotto la superficie e continuando a praticare forme alternative e meticcie».
Ma è importante parlare di «generi»? «Credo che l’esistenza dei generi sia soprattutto una necessità di mercato: per commercializzare un prodotto bisogna dargli un’etichetta. Poi ci sono ovviamente le inclinazioni degli autori. Ma catalogare un romanzo come appartenente a un genere è una debolezza. Preferirei decisamente non esserlo».