PEOPLE WHO DIE MYSTERIOUSLY IN THEIR SLEEP

di Danilo Arona

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Come insegna l’antichissima, e più che mai attuale, storia dei Bedroom Invaders (vedi Cronache 2), è nelle camere da letto che si sviluppano i grandi misteri dell’umanità. Lo ricorda anche il regista Wes Craven quando spiega l’origine di Freddy Krueger:
“Per me tutto ha avuto inizio con una serie di articoli apparsi sul Los Angeles Times. Tre adolescenti erano stati trovati morti nei loro letti dopo che avevano raccontato ai rispettivi genitori, per giorni e giorni, di essere perseguitati da orribili incubi. Si trattava di tre storie distinte, avvenute reciprocamente a diversi chilometri di distanza l’una dall’altra, che descrivevano i disperati tentativi dei ragazzi di stare svegli, di come nascondessero nelle loro stanze tazzoni pieni di caffè.

Rifiutarono di dormire, rifiutarono di prendere pillole, ma alla fine cedettero. Quando, nelle prime ore del mattino, i loro genitori li sentirono urlare, scoprirono soltanto che erano morti. Per il terrore. Tutti e tre più o meno nello stesso momento, in altrettante località diverse. Cosa poteva essere accaduto? Qualcosa, certo, ma non nella dimensione dove noi viviamo normalmente.”
Sintomi del genere, ma alla rovescia, si riscontrano in una seria malattia di cui ancora poco si sa e che sembrerebbe appartenere alla letteratura, se non fosse che esiste sul serio e provoca non pochi danni. Sto parlando della narcolessia, che s’ipotizza essere un disturbo provocato da un difetto biochimico del sistema nervoso centrale e che è di solito caratterizzata da uno stato di torpore diurno. Così che, al contrario di quei poveracci che non volevano addormentarsi, i narcolettici vanno soggetti ad attacchi di sonno irresistibili che li fanno crollare anche nei momenti meno opportuni, magari mentre mangiano o vanno in autobus.
I disagi però non finiscono qui: ci sono pure le allucinazioni ipnagogiche, esperienze intensamente vivide e vissute come situazioni spiacevoli se non spaventose, che si verificano all’inizio o alla fine di un periodo di sonno, con l’aggravante che alcuni o tutti i sensi possono risultare coinvolti per cui il soggetto arriva a non distinguere più l’allucinazione dalla realtà. Dulcis in fundo: la cosiddetta paralisi del sonno, cioè la consapevolezza di non riuscire a muoversi e a svegliarsi malgrado l’acuto desiderio di farlo, situazione che si verifica durante l’addormentamento o al risveglio. Quando essa ha luogo in concomitanza con un’allucinazione ipnagogica, l’esperienza può risultare davvero terrorizzante. E la paralisi del sonno è probabilmente alla base di quel che il folclore ha già da secoli catalogato come The Old Hag (La Vecchia Strega), associato di solito all’attacco di panico che si può provare al momento del risveglio quando si ha la precisa sensazione di non riuscire ad aprire gli occhi o muoversi in qualche modo. O peggio, addirittura: di essere “imprigionati” in un incubo angosciante, dal quale si vorrebbe fuggire svegliandosi. Le persone in queste frangenti vengono dette “stregate”, anche perché molte di loro segnalano di aver “sentito” accanto ai loro letti, se non sopra, sinistre entità, passi strascicati, cavernose risate e odori sulfurei.
Vi sto stressando con troppa teoria? Sicuro, ma pure io devo aggrapparmi a qualcosa se non trovo riscontri analogici cui far riferimento. Nel dicembre del 2000, mentre indagavo sui bedroom invaders di Bassavilla e dintorni (ce ne sono un sacco, soprattutto in campagna), venni a conoscenza dell’incredibile e tragico caso di P.M., una ragazza di ventidue anni che faceva l’operaia da qualche parte e che era morta nel sonno più o meno un anno prima. Lei abitava con i genitori in una casa a pochi metri dalla Statale, in un sobborgo tagliato in due dalla linea ferroviaria Alessandria-Ovada. Da più di un mese la ragazza accusava disturbi comportamentali che, in prima battuta, portavano ad ipotizzare la narcolessia. Si addormentava di colpo durante il giorno, vedeva strane e incomprensibili immagini ai bordi della visuale e di notte faceva fatica ad assopirsi, ma poi non riusciva a svegliarsi. Ed urlava, con gli occhi chiusi, implorando i genitori di “portarla via da lì”, perché qualcosa era sempre sul punto di metterne a repentaglio l’incolumità.
Da alcuni giorni il repertorio clinico si era sinistramente stabilizzato: pochi minuti dopo le cinque del mattino, iniziava a lamentarsi e in un crescendo angosciante, con i genitori accanto al letto che tentavano di riportarla dolcemente alla realtà, pregava con gli occhi serrati di essere svegliata. “Sta arrivando per uccidermi e non riuscirò a scansarmi. Mamma, fammi tornare a casa!” Andava avanti così per un’oretta circa, quindi si rasserenava e tra le sette e le otto si svegliava più o meno normalmente.
La mattina fatale, intorno alle cinque, la madre si trovava già accanto al letto della figlia in un generoso tentativo di giocare d’anticipo. Le toccò invece di assistere a un dramma di cui mai avrebbe capito i particolari, perlomeno quelli che contano. Mentre il marito dormiva un sonno profondo in un’altra parte della casa, la donna notò che la figlia, rannicchiata sul letto, iniziava – come di consuetudine da più o meno una settimana – ad agitarsi e a biascicare parole senza senso. Per quel che poco che intese, la ragazza sognava di trovarsi tutta sola in un posto sconosciuto, forse un’autostrada (“ci sono luci e macchine dall’altra parte!”), dove stava camminando in preda ad un’angoscia sempre più crescente perché “qualcosa o qualcuno era sul punto di arrivare”. Alle cinque e diciannove, con tutto il corpo in preda ad un tremore diffuso che faceva sussultare allo stesso modo anche il materasso, P.M. mormorò: “Ma di chi è questo giubbetto? Non è mio!” e, subito dopo: “Mamma, svegliami, non c’è più tempo!”
Alle cinque e venti la madre vide la figlia prima contorcersi urlando e balzare in aria di circa un metro come se il materasso stesso l’avesse presa a calci. La guardò ricadere e finalmente riaprire gli occhi, che rimasero sbarrati con la bocca semiaperta e la testa piegata sul collo in una posizione quasi assurda tanto appariva piegata.
Il marito, risvegliato dal frastuono, accorse nella camera della figlia e trovò sua moglie con le mani sulla testa e le labbra che si spaccavano alla ricerca della voce perduta e di un urlo che non voleva saperne di uscire.
Quello fu un caso di cui si parlò poco sui giornali. Era un evento imbarazzante, forse roba da RIS di Parma. Ma quei genitori erano al di sopra di ogni sospetto. E neppure il RIS sarebbe stato in grado, forse, di delineare uno scenario diverso da quello descritto, con tragica consapevolezza, dalla madre testimone che aveva visto morire la figlia sul letto di casa, uccisa da un incubo.
Ma stranezze e contraddizioni restano e il caso, per quel che ne so, è ancora aperto. L’autopsia che si fece d’ufficio sul cadavere di P.M. riscontrò tutta una serie di lesioni interne che non si adattavano alla testimonianza rilasciata dai genitori. “E’ il classico quadro di chi viene investito da un mezzo lanciato a tutta velocità”, riferì — almeno così riportano — il dottor G. Coscia, anatomopatologo dell’Ospedale Civile di Bassavilla.
P.M. era morta la mattina del 29 dicembre 1999. Stesso giorno, stessa ora stesso minuto in cui una ragazza bionda, sconosciuta al mondo, veniva travolta sull’autostrada A13 a qualche chilometro da Padova.