di Federica Vicino
XLII
L’avvocatuccio mi siede davanti. Apprezzo lo sforzo disumano per far finta di niente: non devo essere uno spettacolo gradevole a vedersi. Ho la bellezza di 38 punti di sutura equamente suddivisi sui due lati della faccia.
Opera mia. Ho mandato in pezzi lo specchio del bagno. Dovrò ripagarlo, me l’hanno già comunicato per iscritto: il mio debito con la giustizia include ora anche uno specchio rotto.
L’avvocatuccio d’ufficio si chiama Pasqualino Izzo. Lo guardo disporre con cura tutte le carte sul tavolo dinnanzi a sè; lo ascolto riportarmi con giuridica precisione il risultato delle indagini che, su mio mandato, ha svolto. E’ puntuale nei dettagli quanto prudente nell’esposizione: da questo, dal tono della voce, dai frequenti sospiri che tira, capisco che non c’è molto da fare.
– No, Eric, – mi confessa, infatti – non riusciremmo nemmeno a scalfire nessuno di quei medici, nemmeno se li avessimo visti di persona praticare l’iniezione…
– Va bene, va bene, ho capito. – lo interrompo.
L’avvocatuccio sospira ancora, per manifestare una generica partecipazione al mio dolore. Poi riprende, perchè la Professione gli impone di essere sempre estremamente chiaro con il cliente, e perchè tacere non rientra nelle attitudini della sua persona:
– La normativa vigente – spiega – prevede che, in presenza del consenso scritto e controfirmato dell’Origine, il clone possa essere soppresso in qualsiasi momento, addirittura senza avviare la pratica con il Ministero. I medici hanno la discrezionalità assoluta, in simili casi. Per questo Behlen, o chi per lui, non ha trovato nessuna pratica nell’archivio.
– D’accordo.
– Mentre il consenso firmato da Sara Bestern… beh, quello, Eric, in effetti c’è.
L’avvocatuccio punta l’indice destro su uno dei documenti che ha disposto in bella mostra sul tavolo, proprio là dove ho accuratamente evitato di rivolgere lo sguardo finora.
– Eccolo, – mormora – ne ho una copia.
– Va bene, Izzo. Basta!
Stavolta lo apostrofo. Ma non è così facile ridurre Pasqualino al silenzio (lo dimentico sempre).
– Guarda la data, in calce… – insiste – E’ perfino antecedente alla fuga di Sara dal Deposito Sanitario. Quella là aveva dato il suo consenso alla soppressione, prima ancora che tu e Sara vi incontraste!
Sono furioso, sarei sul punto di fargli ingozzare tutti i suoi maledetti documenti fotocopiati pur di farlo tacere, ma Pasqualino Izzo ha quest’abitudine che ogni volta mi scuote, mi commuove e gli salva la vita: chiama Sara per nome.
– Sì, questo lo sapevo. – mormoro- Sara me l’aveva detto.
Ora le piccole mani dell’avvocatuccio si affrettano a riordinare le carte. Izzo ha ripreso a parlare, naturalmente: mi raccomanda di iniziare a pensare piuttosto al mio dibattimento, “il processo non sarà una passeggiata” – gli sento dire – “la tua posizione s’è fatta estremamente delicata, Eric”… Riesco a malapena a percepire il suono della sua voce. Le mani mi hanno distratto: le vedo correre affannosamente sulla superficie del tavolo, alla stessa confusionaria velocità del parlare, dimenandosi in buffi scatti. Mi danno la sensazione dell’ossessività: l’avvocatuccio è un uomo ossessivo. Averlo accanto per più di mezz’ora significherebbe impazzire.
Intanto continuo a guardare le mani; le mie, dopo quelle di Izzo. Le mie – quelle del mio clone. Dio, che ricordo!
Con le mie stesse mani vorrei uccidere i medici del Deposito Sanitario – non si può.
Non si può perchè sono chiuso in quest’inferno e da quest’inferno non si può evadere; non si può perchè uccidere è sbagliato. Non si può perchè uccidere è difficile, ed io non sono capace di farlo.
Vorrei denunciare i medici del Deposito Sanitario – non si può.
Non si può perchè hanno le spalle coperte; la legge è dalla loro, ed evidentemente non dalla mia.
Conclusione: le mie mani non sono meno inerti di quelle del mio clone, giù al Deposito Sanitario.
Non importa. Non è più una questione oggettiva: è, piuttosto, una condizione dello spirito, un concetto astratto. E il concetto è: sono con le mani legate. O meglio: sono davvero con le mani legate?
La cosa in sè non mi dispiacerebbe, perchè quelli che non hanno alternative, di solito, non hanno paura di morire… come Ester, ad esempio. Puro e semplice istinto di sopravvivenza.
Izzo mi tende la manuccia destra, come al solito sudatissima, e si accinge al consueto:
– Ce vedimm’, cumpa’! — (dimenticavo di dire che Izzo ha origini italiane).
Il vantaggio sta nel fatto che chi ha le mani legate si dà da fare più di chi le ha libere, per riuscire a sciogliersi, per poter sopravvivere…
– Una firma dell’Origine, eh? – rimuginavo già da un po’.
– Cosa dici?
– Un qualsiasi documento controfirmato dall’Origine impone ai medici di fare al clone ciò che l’Origine richiede, giusto? E’ così?
– In un certo senso… sì.
– Quindi se io scrivessi su un pezzo di carta che voglio che il mio clone sia risvegliato, i medici del Deposito Sanitario dovrebbero risvegliarlo.
– Non credo che niente del genere sia mai accaduto, Eric…
– Ma se tanto mi dà tanto…
– Sì, certo: a rigor di logica dovrebbero rispettare la tua richiesta.
– E quindi risvegliare il mio clone.
– Sì, Eric, dovrebbero risvegliare il tuo clone.
– Ebbene, compare: voglio che sia fatto.
Izzo impallidisce: e, per una volta nella storia, addirittura azzittisce.
– Metti nero su bianco una richiesta formale. – proseguo – Voglio che il mio clone sia risvegliato.
– Con questo che otterrai?
– Lo voglio e basta.
– Ti complicherai ulteriormente la vita, Eric! Sei sospettato di attività sovversiva: un gesto del genere solleverebbe un altro vespaio!
– Lo voglio e basta.
– Significherebbe altri interrogatori, altri capi d’accusa, altri mesi qui nel braccio del silenzio!
– Compa’, ho detto che lo voglio.
– Ma cosa speri di dimostrare, in questo modo, Eric? A che ti serve risvegliare il tuo clone?
Lo so, lo so anch’io. Non c’è bisogno che me lo dica Pasqualino Izzo! So che risvegliare il mio clone non riporterà Sara in vita. Lo so. Ma voglio ugualmente che sia risvegliato; e che dopo di lui se ne sveglino altri; e che il mondo si popoli di una nuova umanità, di modo che nessuno possa più dire che SB 300650 K984 sia stata soppressa, ma che Sara – la mia Sara – sia stata uccisa.
3. IL RISVEGLIO DEI CLONI
Aleksa Drexter completò la seduta di massaggio shiatzu con la mente già proiettata oltre la porta, di dove il trambusto rivelava quanto stesse accadendo, e con quanta urgenza, e con quanta drammaticità. La massaggiatrice le fece un bel sorriso orientale.
– Tu no rilassata, signora. — blaterò nella sua lingua bastarda — Massaggio no bene così.
Si levò dal lettino con la faccia scura. Non c’era bisogno di Yu Mih per capire che il massaggio non era servito a niente. Tempo perso. Roteò gli occhi, come in cerca di qualcosa. Tensione in crescendo. Controllo necessario. Emergenza immediata. Aleksa aveva imparato a sue spese quant’è importante per una donna come lei saper controllare le emozioni.
La porta adesso taceva.
– Signora, se vuole, io va.
Congedò Yu Mih con un cenno.
Bussarono. Il cuore ebbe un fremito. Controllo necessario. Emergenza assoluta.
– Chi è?
– Sono Yale, signora. Volevo dirle che l’abbiamo trovato. E’ di sotto, nel gabinetto delle guardie del corpo.
– Non sono vestita.
E così congedò anche Yale, senza nemmeno aprirgli la porta.
Il Centro Benessere della Casa d’Appuntamento sembrava la reggia di uno scià. Yu Mih era una delle ancelle. Una bella ragazzina dai modi così gentili da stuzzicare perfino il palato della signora. E con delle mani d’oro. Si diceva che alcuni clienti venissero in Villa solo per farsi massaggiare da lei, nient’altro. Aleksa non aveva avuto difficoltà a capire perché. Nel bagno cercò unguenti e belletti, in pieno stile geisha; si impomatò all’inverosimile. Si truccò da sé; si pettinò con cura; nello spogliatoio scivolò in un abitino da debuttante: corpetto e tulle. Rigorosamente in bianco. Poi affondò le gambe in due begli stivaloni di un nero tirato a lucido, con tacco quadrato e cattivo e cerniera lampo da un lato e dall’altro. Perché le grandi occasioni non vengono da sé: le grandi occasioni si costruiscono. E Aleksa aveva iniziato a costruire.
XLIII
Prologo — clone.
Dopo Eric Drexter, il primo a chiedere ufficialmente che il proprio clone venisse risvegliato fu Patrich Behlen. Poi fu la volta della signora Aleksa Drexter. Probabilmente è a lei che devo tutto. Nel bene e nel male.
Con lei, o grazie a lei, o entrambe le cose, l’onda d’urto prevalse sull’impatto emotivo. Con lei, eccetera, la storia del clone tornò a far notizia. Sicchè mi risvegliai. O meglio: fui risvegliato. E fu tutto come se fosse già stato: clausura, dolore, confusione, l’ossessivo bianco ripetersi di bianchi camici, che mi affollavano il pensiero. Non so quanto tempo trascorse. Tanto, probabilmente. Non ho mai imparato a suddividere i segmenti. So solo che le cose sarebbero rimaste così per sempre, se non ci si fosse messa di mezzo lei, la signora Aleksa.
Io non avevo un destino prestabilito. Non ero un esperimento, né riuscito, né fallito. Non avevo alcuno scopo, nell’economia generale del Sistema — se non quello di evidenziare una piccola mancanza, una falla, un errore. Ero stato richiamato alla vita per un capriccio, o così cercarono di farmi credere. Di più: di questo mi convinsero, di una convinzione così radicata e solida, da non lasciarmi scampo. Il mio IO, ammesso che ne avessi uno, era immerso nella più totale incertezza. E questo determinò una serie di accadimenti che, per lo più, e soprattutto nel primo periodo della mia “vita”, apparvero come assolutamente privi di senso ai miei occhi.
Quando finalmente aprii gli occhi, i giochi erano fatti. Sempre, naturalmente, grazie alla signora Aleksa Drexter, che — ironia della sorte — non avevo mai nemmeno incontrato.
Innanzi tutto il tempo. Un perverso meccanismo di cui il Sistema si serve per controllare il suo funzionamento interno. La vita è suddivisa in segmenti, polivalenti ed unidirezionali: ne finisce uno — ne inizia un altro, senza soluzione di continuità. Più facile di così!
Il Sistema, però, fa in modo di convincerti che invece è il tempo ad essere suddiviso in segmenti. In questo modo, tu credi di avere a disposizione uno sconfinato numero di singoli segmenti, e cioè uno sconfinato numero di vite. Ma non è così. Io, per esempio, ho trascorso almeno la metà delle mie vite ad attendere. Chiuso nella mia stanzetta, in alto, all’ultimo piano di quell’astrusa costruzione che chiamano Deposito Sanitario, ho aspettato che qualcuno venisse ad aprire la porta. E la stessa cosa ho aspettato ancora e ancora, qui, nel salone dei colloqui del Carcere di Stato. I segmenti sono tutto il tempo che le pratiche impiegano per andare dalla portineria all’accettazione, e dall’accettazione alla direzione, e dalla Direzione alla Supervisione del Servizio di Sicurezza Sanitaria, e quindi da lì ridiscendere tutta la scala per riapprodare nel seminterrato.
– Drexter?
(Come ogni volta, dò un balzo).
– Drexter, sì… sono io, sì.
– Alan Drexter?
– Sì.
– Sei tu Alan Drexter?
– Sì, sono io.
(Non ho voluto chiamarmi Eric, come lui. Ma ho voluto che lui scegliesse un nome per me).
– Allora muoviti, signor Alan Drexter: per di qua.
Ancora scale; ancora porte che si aprono e chiudono; ancora tempo.
– Siediti qui: adesso arriva.
Non sarei mai riuscito a incontrarlo, se la signora Aleksa non fosse intervenuta. L’ometto col volto butterato, l’avvocato, s’è battuto come un dannato: ha inoltrato fior di richieste al Ministero, con tutte le formalità d’obbligo — e forse anche qualcuna di troppo; ma non è cambiato niente. Non fino a che la signora non ha fatto le sue mosse. Allora mi sono ritrovato a tu per tu con il re in persona. Udienza pubblica. Il Golem domandava, io rispondevo — e siccome allora non avevo una grande dimestichezza col linguaggio, su suggerimento del mio premurosissimo avvocato, era stato tutto messo per iscritto su un grosso schermo che mi friggeva davanti agli occhi. Risultato: la mia udienza si era risolta in un puro esercizio di lettura. Ma questo era bastato a far sì che nuove porte si aprissero. Proprio come ora. La chiave gira nella serratura; la porta si apre.
XLIV
Eric ha il volto deturpato da una magrezza spettrale. Non mi risponde mai, quando gli domando come sta. Ogni volta arriva a sedersi con un enorme sforzo, come se si trascinasse dietro un peso disumano. E’ diventato ancora più taciturno di quanto non fosse in passato. Tutti pensano sia colpa del carcere duro, ma io so da dove viene quel vuoto. Sara non l’ha mai nominata. Fosse stato per lui, non saprei nemmeno che è esistita. Ma tutto quel silenzio che si addensa fra noi se mi capita di alludere a lei, pesa come un macigno. Poi, però, solleva due occhi pieni d’una luce violentissima e inattaccabile, e io mi consolo.
– Quanti gradi, oggi?
– Quaranta.
– Freddino, direi. Fame?
– Parecchia.
– Da quanto non mangi?
– Parecchio. Ma dicono che arriva il tifone.
– Chi lo dice?
– Il Golem.
– Non c’è da fidarsi.
– I gabbiani si sono poggiati sulla discarica. Di questo ci si può fidare.
– Si potranno raccogliere le piume.
– Certo, le piume. Le venderò a 10 kontinental l’una. Qualcuno crede ancora alla vecchia storia delle piume che portano bene. Basterà scegliere il tipo giusto.
Nei sobborghi non ci sono arrivato per caso. Per un intero segmento di tempo ho vagabondato fra l’appartamento di Eric e lo studio di Pasqualino Izzo. L’avvocato mi faceva avere qualche soldo, a scadenze fisse. Altri cash me li ritrovavo infilati sotto la porta di casa, chiusi in anonime buste bianche. Ma nessun agio, reale o presunto, era riuscito a porre fine alla confusione che devastava la mia mente. Per un intero segmento di tempo ho continuato a domandarmi cosa diavolo volesse dire l’avvocatuccio, quando ripeteva:
– Kist’ ce fottono, cumpa’.
Per un intero segmento di tempo sono rimasto a bocca aperta di fronte a certe tirate, che sembravano il monologo di un burattino impazzito, piuttosto che il discorso strutturato di un professionista:
– Cumpa’, l’unica soluzione è non smettere di fare casino: dobbiamo riuscire a tenere la testa fuori da questo mare di merda, sennò simm’ fottuti!
Ermetico.
Avevo in serbo una domanda, per cercare di comprendere almeno una piccola parte del partenopeo flusso di coscienza di Pasqualino Izzo, e la domanda era: “Ma Eric che ne pensa di tutto questo?”
Per un intero segmento di tempo ho tentato di formularla, a più riprese, nei momenti più bui del mio disperante non comprendere; ma invano. Izzo mi interrompeva puntualmente prima che la domanda stessa assumesse un qualche senso compiuto. Puntualmente riuscivo a dire solo:
– Ma Eric…
E l’avvocatuccio ripartiva come un fiume in piena:
– Eric! Eric! Eric sta là dentro, cumpà! Ma noi siamo fuori e abbiamo rogne a morire! Tu non tieni neanche ‘na carta. Atto di nascita, identità, passaporto… niente! Ma tu chi sei? Esisti davvero?Lo capisci o no che non esisti? E a loro fa comodo così: tu, per loro, non puoi esistere. Non devi esistere. Sei un clone! L’unico motivo per cui non ti tolgono di mezzo è la sardana che stiamo facendo. Per questo, mo’, non ci possiamo fermare. Dovimm’ continuà! A sardana deve continuare.
Rinunciavo a capire. Allora. Ma percepivo un senso di umana partecipazione nella voce dell’avvocato ogni volta che gli capitava di parlare di Eric. Mi convinsi che Izzo provasse per Eric una strana affezione, dovuta sicuramente alla riconoscenza per tutti i miliardi che continuavano a piovere nelle sue tasche, da quando aveva preso in mano il caso del clone, ma non solo. No: quella dell’avvocatuccio nei confronti di Eric era, o sembrava, autentica ammirazione.
– O giurnalist’! Kell’è la salvezza nostra.
Fra le poche cose che intendevo del gergo di Izzo, c’era questa espressione: “o giornalist”. Stava per Behlen.
– O giurnalist’ è ‘na troia: pure ess’, se te po’ fottere… ma tiene o potere. Nu potere che tu manco t’immaggini. O potere delle troie. Gira tutto attorno a lui, o ccapisc’? Se lui dice che tu esisti, tu esisti davvero. Con o senza le carte.
– Sì, ma…
– La sardana è ess’ che la fa. Ess’ la po’ fa. Tiene il potere; tiene i mezzi. Ess’ è o re.
La sardana… Non saprei quanti segmenti di tempo mi sarebbero serviti per comprendere cosa fosse, se non fossi finito in uno studio televisivo, a tu per tu con “o giornalist”. Grandi sorrisi ingialliti e pacche sulla spalla. Tre battute di lettura dal gobbo ed un vortice di chiacchiere fuorionda fra avvocatuccio e direttorecaimano, mentre un’altra delle mie vite scivolava via inutilmente.
Eppure gli esiti furono immediati e indiscutibili. Il nulla-osta del Ministero arrivò puntuale e preciso a destinazione, intestato proprio a me, il “non-esistente” Alan Drexter, presso lo studio dell’avvocato Izzo, mio domicilio provvisorio. Finalmente potevo incontrare Eric.
XLV
– Non hai caldo così infagottato, figliolo?
– Caldo?
– Non sei vestito in modo adatto per queste latitudini. Qui in basso è sempre molto caldo; non c’è bisogno del cappotto.
– Il cappotto mi serve per il tifone.
– Il tifone non si scatenerà per ora, ragazzo. E’ stato il Golem a dirlo. Il Golem non sbaglia mai.
– I gabbiano si sono già poggiati, signore.
– Gabbiani? — si fa una bella risata — Tu non devi avere tutte le rotelle a posto, ragazzo mio! Cosa c’entrano i gabbiani?
– Sentono quando il tifone è imminente.
– Questa poi.
– Si poggiano a terra per non essere risucchiati. Perdono qualche piuma, ma sopravvivono.
Segue un breve silenzio.
– Sopravvivono sempre.
…
E così ho pranzato.
Faccio rotta verso il sobborgo 59, con i 10 kontinental della piuma portafortuna che mi sballonzolano nella tasca interna della giacca e il cuore in gola. Mi fermo al semaforo dell’ottava flyway. Il gorgo delle extralusso supersportive si dissolve in un istante: niente traffico da queste parti. Sulla flyway si viaggia senza zavorre: solo veicoli di grossa cilindrata, solo corsie a scorrimento veloce, solo soste autorizzate e assistenza specializzata attraverso il computer di bordo. Per il resto della popolazione c’è il subtrasporto. Nei sobborghi, le gambe.
L’accesso alla flyway avviene con tessera magnetica, previa verifica dei dati: il che significa soste brevissime ai semafori, ma elemosina più consistente (sebbene più rara). Per questo Nikla si ostina a venire qui. La scorgo nell’angoletto polveroso del cavalcavia, intenta a contare gli spiccioli.
– Nikla, vieni via di lì! — mi sbraccio.
XLVI
Ricordo che quando varcai il primo ingresso del carcere di Stato avevo la gola secca, lo stomaco risucchiato in una morsa. Con me c’era anche Izzo, che parlava, parlava… e la “sardana”, anche quella mi aveva seguito e continuato ad incalzare, incessantemente, con telecamere, flash, microfoni, fotografi, taccuini, domande, urla e spintoni, “Drexter”, quel nome, il mio nome, ripetuto all’infinito da mille indistinguibili voci…
Poi la confusione era stata tagliata in due da un enorme cancello pieno di enormi sbarre. Il popolo del Re Golem di là, io e l’avvocatuccio di qua.
– Ci siamo quasi, cumpà. — ripetè Pasqualino durante tutto il tragitto, davanti e dietro ogni portone che si aprì e si richiuse. Partecipava così alla mia emozione, ed anche a quella che si aspettava da Eric.
– Ecco, cumpà! — Simm’ arrivat’, cumpà. — Ancora una rampa. Solo n’atru canciello. — Ultimo corridoio, cumpà. — Vid’ kella porta? Kell’ è la stanza dei colloqui: kella là. — Uè! E mo’ non t’emozionare! Nervi a posto, guagliò! Che Eric, se ti vede così, chissà che si pensa! Ma guardatelo a kist’: s’emoziona!
– Statt’ tranquillo, che mo’ si deve aspettare: le carte… eh, le carte. Devono salire su e tornare giù. Sopra e sotto. Ci vuole tempo. Ti ci tieni che addona’! Hai voglia, se ti ci devi addonare!
– Kella è la porta, cumpà: kella se deve aprì, o vid’? La porta si apre e arriva Eric.
Proprio così: la porta si apre e arriva Eric.
Ricordo il silenzio, fra le due porte chiuse, fra noi; due anime sospese; il silenzio fra le nostre solitudini. Ricordo la fatica per ricacciare l’emozione lontano, per non dar peso al disastro del cuore.
– Stai male, vero?
(Chi, dei due, aveva parlato?)
– Non lo so.
– Ti si legge in faccia: stai male.
– Sono confuso.
– Confuso?
– Non riesco a capire nulla di tutto quello che mi vedo intorno.
(Uno dei due aveva iniziato a piangere).
– Mai sprecarle.
– Come?
– Le lacrime: non vanno mai sprecate, le lacrime.
– Che vuol dire?
– Bisogna avere una buona ragione, una ragione vera, per piangere.
– E io non ce l’ho?
– Non lo so.
(Uno dei due aveva tirato un breve sospiro e s’era chiuso in un breve silenzio).
– Non è mia, la frase. — aveva mormorato poi — “Le lacrime non vanno mai sprecate”: è un detto popolare. Lo dice la gente che vive nei sobborghi.
– Cosa sono i sobborghi?
– Un posto che dovrai vedere. Molto presto.
Altra pausa: adesso ci fissavamo negli occhi.
– Vai lì — concluse Eric sottovoce — Va’ nel sobborgo 59 e cerca di Ester e Nikla.
59. Cinquantanove. CINQUANTANOVE.
Non ho dovuto nemmeno cercare. Ester e Nikla hanno trovato me; mi hanno accolto nella loro baracca; ho imparato a leggere e a rubare, ho sfogliato libri e guardato la TV, ho mangiato gatti, affrontato il tifone, digiunato, patito il caldo, scansato polvere… e ora ho capito.
Ho capito. Eric, ho capito tutto.
3. LA PORTA DI APRE E …
Mai come allora.
Aleksa Drexter aveva dovuto frugare a lungo dentro di sé per ritrovare quel senso di profondo appagamento che la sua vita da sempre le dava. La verità era che aveva avuto paura. Paura di tutto. Da sempre. La prima — e più antica — e perfino ancestrale: quella di invecchiare. Un timore non infondato: la sua fiamma andava lentamente spegnendosi.
Frugò in tutti i cassetti, in tutti gli armadi, nei mobili, nelle scansie. Frugò nella memoria: nella sua e in quella del computer. Non era sicura di sapere cosa stesse cercando, ma continuò a frugare. Le veniva da piangere. Ripassò a memoria la folla degli oggetti che avevano segnato la sua esistenza. Ripetè in cuor suo le parole di Long J: non è importante quanto si vive, ma come si vive. Non quanto, ma come. Questo la inquietava: come.
Poi, però, Long J era morto, e la favola, bella o brutta che fosse, s’era interrotta. Un misterioso virus s’era divorato il suo corpo a brani, organo dopo organo, trapianto dopo trapianto. Ogni sforzo era stato inutile, dinnanzi al progredire della malattia. E inutile era stato il sacrificio del clone. Long J era morto di una morte feroce e banale. Esattamente come il suo clone: banalmente affettato con ferocia. Alla faccia della garanzia di sopravvivenza… ma questo era un altro discorso.
Piuttosto, la logica conclusione del discorso era stata: “se è vero che non importa il quanto ma il come, il come non può essere né banale, né feroce.; né tantomeno inutile” — e tutto questo era racchiuso non nelle persone o nel pensiero, nel ricordo o nel rimpianto… tutto questo era racchiuso esclusivamente nelle cose.
Messa così, la faccenda filava dritta più di un sillogismo, ma Aleksa non aveva studiato la filosofia — e così dovette attendere a lungo per giungere all’esito ultimo della morale di Long J, ed acconsentire al risveglio del proprio clone.
I medici avevano continuato a studiare il virus anche dopo la morte di long J; lei s’era chiusa nella sciocca illusione che il suo compagno sarebbe stato ricordato come la prima vittima del male incurabile della nuova era; aveva immaginato nomi fantascientifici per il nuovo virus, e schiere di ricercatori chiusi in laboratori da lei stessa finanziati intenti a studiare lo straordinario morbo.
Tutto inutile. L’esito ultimo dell’autopsia parlò di aemophilus. Un nuovo ceppo, fu il responso definitivo, ma di comune, banale aemophilus. Volgarissimo virus, nemmeno troppo pericoloso. Abitante endemico dei sobborghi; diffusissimo; praticamente alla portata di tutti. Aveva attecchito senza grosse difficoltà nel fisico debilitato del vecchio viveur. E comunque, pensava Aleksa, non ci voleva un team di scienziati per giungere alla conclusione che uno fosse morto di vecchiaia. Altra banalità.
Strana la vita, pensava Aleksa, mentre scartabellava fra i suoi documenti sanitari. Non aveva mai smesso di credere che Eric fosse figlio di Long J. Nonostante tutto. E ora una serie di perverse coincidenze sembrava rafforzare quella convinzione.
Tirò il fiato. Almeno adesso sapeva che cosa stava cercando. Cercava l’allegato al certificato di nascita: il nulla-osta sanitario al Programma Assistito di Clonazione, conosciuto anche come allegato k. Una scheda con tanti quadratini incolonnati, caselle da annerire in corrispondenza del sì o del no:
io sottoscritta, eccetera eccetera
madre di eccetera eccetera
nel pieno possesso delle mie facoltà mentali
preso atto della normativa vigente in materia di clonazione a scopo terapeutico
acconsento:
a) al prelievo di cellule fetali a scopo duplicazione in vitro delle stesse — sì / no
b) all’accrescimento artificiale di dette cellule fino a completa maturazione di un clone del feto — sì / no
c) all’accrescimento di detto clone, secondo il programma di Sicurezza sanitaria Intergovernativa approvati con legge numero, del giorno-mese-anno, e successive modificazioni — sì / no
d) al trattamento del risultante clonato secondo normativa vigente di cui al punto c — sì / no
In fede:
firme (del genitore, del medico di base, del responsabile supremo del Servizio Sanitario).
E una sola colonnina di caselle annerita.
Lo sguardo le cadde su quella firma:Nina Staub Drexter, sua madre. A lei Aleksa rivolse un pensiero intenso, ma vuoto. E scoprì di non avere più di lei nemmeno un ricordo. Nessuna cosa. Nessuna cosa, eccezion fatta per quel documento sbiadito. Ebbe un brivido, perché ce n’era un altro di allegato k rimasto in sospeso nel tempo a testimoniare un altro legame privo di tutto… l’allegato K che lei stessa aveva compilato e firmato quando aveva scoperto di essere incinta.
Preferì non pensarci.
Long J le era rimasto dentro, come certi odori dell’infanzia; era stato colui che aveva reso la sua vita splendida e terribile, ma comunque degna d’essere vissuta. Sicchè adesso le piaceva pensare che prima e dopo di lui non c’era stato più niente. Palese autoinganno, di cui si serviva per non imbattersi in quell’insidioso demone chiamato senso di colpa. E quel demone aveva il volto, lo sguardo, la voce e tutta la rabbia di Eric. Non aveva mai avuto alcuna predisposizione alla maternità, la signora Aleksa; nessun desiderio di trasmettere se stessa, il suo DNA a qualcun altro. Così aveva interrotto a cuor leggero, e senza particolari rimorsi, un numero non ben precisato di gravidanze. Non aveva voluto contarle — proprio per non dar loro importanza. D’altronde nel suo passato di prostituta, la parola aborto aveva occupato un ruolo centrale nel manuale delle istruzioni per l’uso. E le cose sarebbero andate avanti così all’infinito, se non ci fosse stato lui, Long J. Fu lui a volere quel bambino: quello e non un altro, nonostante nemmeno in quell’occasione fosse possibile stabilire con certezza la paternità. Erano anni bui: festini erotici con in ribalta lei, Aleksa. Lei e nessun’altra. Long J la considerava parte del business, uno strumento fra gli strumenti. Merito — o colpa — della sua conturbante bellezza, che invece di sfiorire andava rafforzandosi con il tempo. Strano destino, che l’aveva resa prima amante e poi schiava. Naturalmente di Long J. A quei tempi l’idea di far soldi in quel modo era ormai radicata nella mente del vecchio, almeno tanto quanto la malattia nel suo corpo. A quei tempi Aleksa era terrorizzata dall’idea di avere un figlio, e ancor di più di averlo da Long J. Ma lui non volle sentir ragioni.
– Questo qui deve nascere. — ordinò. E ai suoi ordini non si poteva non obbedire.
Aleksa compilò il suo bell’allegato k senza pensarci. Senza pensarci portò a termine la gravidanza e diede al mondo il suo bambino. Promise a se stessa che da allora in poi non avrebbe più pensato affatto; nella sua vita ci sarebbe stato spazio solo per le cose. E così fu. Nacque Eric, così come Long J aveva voluto, apparentemente senza nessuna spiegazione né logica né affettiva: non volle riconoscerlo né dargli il suo nome, non volle nemmeno mai incontrarlo. Morì senza aver scambiato con lui nemmeno una parola, senza conoscere la sua voce.
Aleksa si impose di non pensare nemmeno a questo. D’altronde, come Long J non chiese mai di Eric, così Eric non le domandò mai chi fosse suo padre. Ogni interminabile silenzio fu riempito dalle cose. Gli affari andavano a gonfie vele: Aleksa s’era inventata i giochi di ruolo porno; li aveva insegnati ad alcune ragazze, raccattate alla buona nei sobborghi meno infognati. Aveva lanciato una moda, prima, e un’esigenza poi. La richiesta cresceva. Aumentavano i clienti e il livello della loro estrazione sociale. Aumentavano i cachet. Aumentava la portata dei conti in banca, che Long J continuava ad intestare alla signora Drexter e ai suoi eredi. Tutto sembrava dovesse esplodere in un trionfo senza pari: il baraccone funzionava come un orologio fra orologi. Meccanismo fra meccanismi: una parentesi sociologico-culturale, fondata sull’idea sempreverde del semel in anno… vittoria assurda dell’amoralità sul rigore asettico imposta dal Sistema. Un carnevale catartico che apriva e chiudeva i battenti incamerando cifre astronomiche, sotto gli occhi compiaciuti di chi si solleticava l’orgasmo gestendo il potere.
Tutto inutile. La folle corsa del tempo aveva già iniziato a insidiare il futuro dell’onnipotente Long J; la vita gli sfuggiva rovinosamente di mano. Più cresceva la richiesta, più Aleksa si faceva manager insostituibile e cervello della ditta, meno forze lui si sentiva in corpo. Il virus aveva iniziato a scavargli dentro. Quando Eric nacque la crepa era ormai insanabile.
Con il suo primo fegato romai, a brandelli, prima del primo espianto dal suo clone, Long J decise di impacchettare la sua eredità per farne dono a chi più lo meritava. Aveva da sempre una doppia vita: moglie e figli, un’azienda di medie proporzioni, con fatturato costantemente in pareggio, in alto, nella zona sopraelevata dell’Agglomerato Nord, lontano tanto dalla pozza dei sobborghi, quanto dalle isole intermedie del potere, scavate in risacche collocate a metà fra i piani bassi (quelli immediatamente superiori ai livelli sigillati) e il cuore dell’Urban, dove si viveva pulito — ricco — sovralimentato e clonato. E poi aveva amante e figlio bastardo nell’area strategica dell’Agglomerato: nell’area della risacca e dell’idroscalo — lì dove nessuno abita, ma tutti passano.
Moglie imbronciata e sorniona, noiosa quanto perbene, madre e ospite ideale, un disastro nell’intimità; amante solare e disinibita, ineducata al punto giusto, madre distratta e frettolosa, intrattenitrice di gran classe oltre che interprete geniale della sua personale idea di eros… il migliore affare della sua vita. Non dovette pensarci su molto, Long J, quando si tratto di decidere a chi lasciare il suo capitale. Era giunto al capolinea: scelse. Senza esitazione, e senza rimorsi.
Aleksa si disinteressava del neonato; ma come talent-scout a luci rosse era un fenomeno. Il baraccone divenne una perfetta industria della perversione di alta classe; un parco giochi fra i più discreti e frequentati della città dove non c’era fantasia che non potesse essere soddisfatta, diretto con fermezza dalla signora e padrona Aleksa Drexter. Ripulita, elegante, perfino raffinata, nobilitata dalla maternità non meno che dalla valanga di quattrini che nel tempo Long J aveva sapientemente accumulato per lei; corteggiata più dai direttori di banca che dai clienti della Casa d’Appuntamento, che ora tutti chiamavano con discrezione — e con doveroso rispetto — la Villa. Una regina per u regno con tanto di eredi… bastardi, ma pur sempre eredi. Intoccabile.
Ora — e solo ora — Long J poteva abbassare la guardia e fissare dritto negli occhi il suo nemico. Non importa quanto, ma come.
Poco prima di morire, Long J fece recapitare in Villa due plichi: in uno c’era il suo testamento, redatto in quadruplice copia; nel secondo c’era una lettera.
Aleksa ebbe un fremito. L’aprì.
“… non importa quanto si vive, ma come si vive. E se le cose stanno così, io sono in pace con me stesso. Potrei dire di morire senza rimorsi. Ho solo un pensiero fisso. Che mi rode, ancora, e non mi lascia tranquillo. Il mio clone. Pensare a lui, alla sua fine, mi fa sentire come se fossi morto due volte. Tuo L. J.”
Aveva frugato proprio bene, stavolta, la signora Aleksa Drexter. Tutta la sua vita le era rimbalzata sotto il naso: cose su cose su cose. Cianfrusaglie, vestiti, gioielli, abitini da neonato (aveva conservato anche quelli?); le lettere degli ammiratori e i contratti; il testamento in quadruplice copia e l’ultimo messaggio di Long J. E naturalmente l’allegato k: unica cosa, nel deserto dei ricordi, che ancora la legava a Eric. Adesso aveva tutto — documenti e motivazioni etiche — per chiedere il risveglio del suo clone.
Adesso si udiva solo un borbottio indistinto, oltre la porta chiusa. Aleksa riconobbe le voci; tutte, tranne quella che aspettava con ansia di sentire.
XLVII
Aleksa Drexter: lei in persona.
Improvvisamente mi sento in disordine, inadatto all’occasione, sporco, maleodorante. Il fiato grosso delle guardie del corpo mi si dirada davanti. Mi hanno fatto sedere di peso su di una poltroncina, che probabilmente getteranno via subito dopo. Mi hanno toccato il meno possibile e minacciato molto di più. Pugni e calci me ne hanno assestati pochi, ma buoni. (Ci ho messo un po’ a capire che non erano Agenti della Polizia di Regime o del Servizio di Sicurezza Sanitaria Intergovernativa). Nei limiti del possibile mi sono anche difeso. Mi sono calato nella parte del latitante di lusso, e così ho provato a vendere cara la pelle. Naturalmente senza risultato. Gli scagnozzi erano troppi, troppo nerboruti e troppo ben equipaggiati. E, in qualche maniera, anche bene introdotti nei giri loschi dei sobborghi: non è cosa facile riuscire a scoprire dove mi nascondo. Alla fine avevo ceduto, alla meraviglia, prima ancora che alla violenza. Con le canne delle armi incastrate nelle costole, li avevo seguiti, fino alla vettura extralusso che li attendeva; fin sulla flyway, su — su in alto, dove sicuramente non mi aspettavo di ritrovarmi; fino alla costa est dell’Idroscalo (sempre domandandomi dove diamine stessimo andando); fino al cancello laterale di un palazzo la cui facciata (si intuiva dai riflessi) doveva risplendere di luci, ma che nel retroingresso sapeva di elegante e discreto…
Insomma avevo capito che non ero sul punto di ritrovarmi faccia a faccia col generale Kozinskij, ma mai e poi mai avrei pensato di incontrare Aleksa Drexter. La sorpresa mi ha fatto saltare in piedi, e lei ora mi osserva con una vena di affettuosa simpatia delineata sul viso. Mi scruta dall’alto in basso, accennando un sorriso color pastello. Mi sento in disordine, ma un po’ meno di prima. In un certo senso sono uno straccione di lusso. Sotto il cappotto ho giacca, gilet e camicia. Piume di gabbiano in tasca. Qualche kontinental. Una dose ormai discreta di consapevolezza. Molta fiducia.
La signora è bella, di una bellezza addirittura inattesa, per me. Sono sorpreso di questo non meno che dell’averla riconosciuta. Non l’avevo mai vista prima. Non di persona, almeno. Era apparsa sul Golem, un paio di volte, assieme a “o giornalist’” Patrich Behlen; e in quell’occasione non l’avrei affatto notata, se Ester non avesse biascicato:
– La troia è la madre della tua origine. E’ lei, lì in TV: Aleksa Drexter in persona, la matrona del parco adulti dell’idroscalo.
Assieme a Behlen parlavano di una nuova associazione umanitaria: un non meglio identificato Movimento per il Risveglio dei Cloni.
– Vedi? — aveva concluso Ester — Parlano anche di te.
Ero rimasto a bocca aperta.
Non credevo che sarei stato capace di riconoscerla.
3. REGOLE E TRASGRESSIONE
1a VOCE. Regola numero uno: Patrich Behlen non muove un passo senza aver prima calcolato tutto le conseguenze. Regola numero due: Patrich Behlen non apre bocca, se non è sicuro che quello che sta dicendo gli procurerà un qualche vantaggio. E soprattutto, regola numero tre: Patrich Behlen non si mette mai in gioco, se non sa esattamente a che gioco sta giocando.
2a VOCE. Retorica.
1a VOCE. Come, prego?
2a VOCE. Questa è pura retorica: o, se preferisce, luoghi comuni. La sostanza non cambia, signore.
1a VOCE. (irritata) Si spieghi meglio.
2a VOCE. Vuole che le definisca “chiacchiere”? Ebbene, “chiacchiere”: ci stiamo perdendo in chiacchiere!
3a VOCE. Non crede di esagerare, adesso, capitano?
2a VOCE. No, non lo credo.
3a VOCE. Il suo atteggiamento non ha nulla di costruttivo.
2a VOCE. Nemmeno il vostro, signori.
1a VOCE. (perentoria) Insomma, Stark: la smetta di procedere per indovinelli, e venga al dunque!
Ludwig Stark è un ripugnante albino, bianco fin nelle sopracciglia, col disgustoso vizio di masticare erbe aromatiche; vizio che propaga un odore speziato per tutto il suo corpo glabro e incolore. Ha un bel nasetto suino, e due belle gote di plastica, ricostruite ad hoc con l’epidermide del suo clone, dopo la devastazione dell’acne vulgaris. Astuto, astutissimo: arrivista, ambizioso, spietato. Con alle spalle una carriera militare fulminante: tappe bruciate a due a due. Amicizie potenti. Totale, completa e costante ligia devozione al dovere. E al potere.
2a VOCE. Signori miei, – se la ride ora — ma se è così evidente! La chiave di volta del nostro mistero ha un nome: Drexter.
1a VOCE. Eric Drexter non è un personaggio così carismatico da indurre una volpe come Behlen a correre dei rischi in suo nome: l’ho interrogato, in carcere. Mi sembra, piuttosto, un cane sciolto.
2a VOCE. Oh, ma io non parlavo di Eric.
3a VOCE. Se Eric Drexter è un cane sciolto, il suo clone Alan è addirittura una nullità. Dicono che sia completamente scemo, un perfetto idiota.
2a VOCE. Non parlavo nemmeno di Alan, maggiore. (con enfasi) Io, signori, alludevo alla signora Aleksa. Concordo con quanto affermate entrambi: Eric Drexter è un aborto di sovversivo, peraltro già assicurato all’ordine del Sistema; il clone Alan è un morto vivente che può essere facilmente tolto di mezzo; ma Aleksa… Beh, Aleksa lo sappiamo tutti chi è.
Il silenzio è signore e padrone: della sorpresa come dell’imbarazzo. Stark se la ride di nuovo. Il maggiore Fenevhille si schernisce, rincantucciato in un angolo — il meno illuminato possibile. Il generale Kozinskij li ignora: prova a fare mente locale. E per primo riprende a parlare.
1a VOCE. Aleksa Drexter è la madre di Eric… – rimugina, come se dovesse convincersene — e in qualche modo anche la madre di quell’altro, del clone. E’ verosimile che una madre compia un gesto sconsiderato in segno di affetto.
2a VOCE. Non è questo il punto, signore.
1a VOCE. Ma perché ingigantire la cosa? Perché creare un’associazione o addirittura un movimento a scopo umanitario? Perché sollecitare l’opinione pubblica sull’argomento? La signora Drexter ha ben altre carte da giocarsi, se davvero vuol tentare di salvare il figlio dal carcere a vita.
2a VOCE. Non è questo il punto, generale.
1a VOCE. Perché no?
2a VOCE. Non è questo il punto, perché non è questo l’interrogativo dal quale siamo partiti! La domanda era: perché Patrich Behlen è ben disposto nei confronti di questa assurda storia? Perché continua a dare spazio sulle sue reti satellitari a questo mediocre e perfino indisponente Eric Drexter, o a un essere così insignificante come il suo clone? Perché arriva a compiere il gesto clamoroso di far risvegliare il proprio clone, addirittura prima ancora che la stessa signora Aleksa lo faccia?
Il maggiore Fenehville si scosta dal suo cantuccio, ma di poco. E’ scomodo per lui assistere alla conversazione privata fra il capitano Stark e il generale Kozinskij.
3a VOCE. Lei crede, capitano, – mormora senza convinzione — che ci sia un accordo segreto fra Behlen e la signora Aleksa?
Si pente subito dopo di essere intervenuto. Soprattutto perché il suo intervento suscita nuova ilarità in Ludwig Stark e questo rende Ludwig ancora più orrendamente bianco di quanto solitamente non sia: capelli, sopracciglia, e adesso anche denti.
2a VOCE. Maggiore, mi meraviglio di lei! — ribatte Stark senza esitazione — Qui tutti abbiamo un accordo segreto con la signora Aleksa!
3a VOCE. Non io!
Intervento ancor più inopportuno. E compromettente.
E’ il capitano Kozinskij a riprendere la parola: l’autorità sbaraglia l’imbarazzo da un lato e lo scherno dall’altro.
1a VOCE. La sua è una riflessione attenta, capitano Stark. Siamo di fronte a personaggi potenti… ma abbastanza astuti da comprendere quanto inopportuno sarebbe per loro discostarsi dal Sistema, al quale, tra l’altro, debbono tutto il loro potere. E’ un cerchio nel quale ognuno ha una precisa collocazione; ed è chiaro che l’equilibrio non va in alcun modo alterato. Tutto potrebbe tornare a posto, con facilità persino, se solo potessimo sbarazzarci del clone. Eric Drexter ce l’abbiamo in pugno; la signora Aleksa, così come Behlen, hanno un prezzo, nemmeno troppo salato per noi. Basterà pagare. Ma questo clone… mi preoccupa.
2a VOCE. Non ce n’è motivo, signore.
1a VOCE. Al contrario, capitano! A mio modo di vedere, è lui l’elemento pericoloso. Pericoloso perché conosciuto, noto al pubblico televisivo — il che non è poco. Si è rintanato nei sobborghi e, da quel momento, è riuscito a far perdere le sue tracce: vuol dire che c’è qualcuno che lo aiuta e lo protegge; qualcuno che lo ascolta e lo asseconda, che condivide le sue ragioni… Questo mi preoccupa. Mi aspetto da lei una soluzione, capitano Stark. Io tratterò con Behlen e la Drexter; lei si occupi del clone Alan. Trovi una soluzione rapida e definitiva. Le do carta bianca, ma voglio risultati concreti. E immediati.
XLVIII
– Non sei lui…
Sono le sue prime parole. Le accolgo con un sorriso. O forse ricambio quello di poco fa, rimasto a mezz’aria, fra noi.
– Si vede che non sei lui.
– Si vede che sono un clone?
– Si vede che non sei lui.
Dò un lungo sospiro, in questo più accogliente e meno asettico appartamento privato — mansarda all’ultimo piano di Villa Drexter, così in alto da lambire le ultime propaggini della flyway n. 15. Oltre il vetro, il cielo si tinge di granitici riflessi azzurrognoli; il vapore è intenso, ma non così tanto da chiudere alla vista lo spettacolo mozzafiato dei piani alti, le residenze aristocratiche degli aristocratici perbene-abbienti. E’ un respiro di magica tecnologia che pulsa all’unisono, come spinto da un’unica forza. Metafisica bellezza per metafisici portafogli. Roba che non mi appartiene: sono fuori da tutto questo. Ma non me ne lamento. Per qualche oscura ragione, continuo a trascinarmi dietro il tanfo dei sobborghi; e così, di fronte a lady Drexter, continuo a sentirmi in disordine, impacciato e a disagio.
Lei è più tranquilla. Ha messo gli scagnozzi a cuccia, credendo di trasmettermi in questo modo un messaggio di fiducia. Mi accoglie nel suo appartamento privato; mi fa accomodare nel suo salotto; mi offre da bere in un bicchiere troppo pulito un whiskey troppo nitido — prima volta in vita mia che faccio un sorso e quasi vomito sul tappeto troppo lucido.
– Ti ha mai detto perché ha chiesto che tu venissi risvegliato?
E poi fa domande troppo difficili. Troppe domande, troppo difficili.
– Ti ha mai parlato di me… insomma, di noi?
– Hai saputo del Movimento per il Risveglio dei Cloni? Sai cos’è ? Sai a cosa serve? Sai chi se l’è inventato, e perché?
– Sai perché il Sistema ti vuole togliere di mezzo?
– Sai perché ti ho fatto rintracciare dai miei uomini?
Continuo a sforzarmi per non guardarmi troppo attorno, ma lo sforzo è vano. Mi scorrono davanti agli occhi la mobilia, troppo raffinata; le pareti, troppo linde; porte e maniglie, troppo laccate; mi balzano agli occhi i quadri, le stampe, le sculture, gli oggetti d’arte: tutti troppo ben scelti!
– Sono la mia passione. — fa Aleksa come se mi avesse letto nel pensiero – Le arti figurative in generale, sono la mia passione.
Sunny appare improvvisa come una fiammella accesa nella notte. Dò un balzo: avessi potuto, avrei spiegato al Aleksa che non ho bisogno di compagnia, tantomeno di compagnia femminile! Le avrei detto, molto sinceramente, che l’unica compagnia femminile che gradisco stanotte, è la sua. Con lei sarei andato avanti per ore…
– E’ buffo, sai? — mormora Aleksa, con una certa amarezza, in un tono di indiscutibile commiato — ho parlato molto di più con te in mezz’ora che con Eric in tutta una vita.
Adesso ci sorridiamo entrambi. Ed entrambi con amarezza: forse per l’ultima volta. Non so se e quando la rivedrò.
Lei mi congeda con un’occhiata complice: come dire, il meglio (o il peggio) viene ora.
Mi rassegno all’idea. Non trovo di meglio da fare, che attaccarmi avidamente alla bottiglia di whiskey: lo stomaco in fiamme è un sollievo. Non ho trovato il tempo, né il modo, né l’occasione per spiegare ad Aleksa che non mi piacciono le prostitute; non ho trovato il coraggio di dirglielo. E’ la stessa avversione che ha Eric, dev’essere stato lui a trasmettermela. E’ appartenenza anche questa. Mando giù altro whiskey: una volta uscita Aleksa, il buio mi piomba attorno e addosso. Sto male, prima ancora che accada quel che deve accadere. Paura e angoscia mi assalgono.
La porta si apre e…
Sunny appare all’improvviso, come una fiammella accesa nella notte. Trangugio altro whiskey, che mi rimane piantato sulla bocca dello stomaco, proprio lì dove una morsa mi ha stuccato il fiato. Sunny appare sulla porta ed è una visione che mi confonde i sensi. Dunque, io e Aleksa abbiamo un piano… come potrò dire a Eric di aver fatto un accordo con sua madre? Si infurierà. Non me lo perdonerà mai. Eric non parla mai di Aleksa. Non vuole sentirne parlare. E io ho stabilito con lei che…
– Sai quanti ufficialoni del Sistema sono qui adesso? Se la stanno beatamente spassando, ma…
Ma.
– Immagina quel che accadrebbe se uno solo di loro scoprisse per caso che qui ci sei anche tu.
Immagino.
– E questo sarebbe il primo passo.
Il primo passo di un preciso accordo, fra me e lei, signora — ma allora perché mandarmi qui una delle sue ragazze? Che c’entra questa ragazza con il nostro accordo, fatto per… amore. Signoreiddio che parolone, “amore”! Se c’è una cosa che ho imparato, da quando mi hanno riportato alla vita, è proprio questa: diffidare delle parole. Potentissime, sottilissime, insidiosissime, come una lama katana. E l’esempio è lampante: ce l’ho davanti agli occhi. Penso all’amore, e lo sguardo mi corre su questo rigoglioso corpo di donna che sfavilla nella penombra davanti ai miei occhi annebbiati. Penso ad Aleksa che si venderebbe l’anima per salvare Eric; e contemporaneamente penso a me, che pure darei la vita per salvare Eric, ma che in questo momento mi venderei l’anima per questo corpo rigoglioso. Che confusione.
Amore — l’abbiamo fatto, lo stiamo facendo, lo faremo l’amore, io e Sunny! E con la strana sensazione del fuoco che impazza dovunque, dentro e fuori di me: brucia il mio stomaco, brucia il cervello, bruciano gli occhi, i seni di lei, le mie mani, il suo ventre, il mio ventre, le sue gambe, i miei fianchi, bruciano i pensieri, brucia la saliva —la sua, la mia — bruciano il sudore e tutti gli umori che si diffondono, brucia il respiro.
Uomo per clone, clone per uomo. Chi mai potrebbe scoprire, intuire la differenza…bisognerebbe capire perché. Bisognerebbe capire che cosa sei e quanto vali; e chi siamo noialtri e se c’è una differenza e se non c’è. Ma se la differenza non c’è, bisognerebbe capire chi ha creato la differenza e perché. E poi capire cos’è che brucia, qui dentro, e per quale ragione, e mosso da quale forza.
Bisognerebbe capire perché non capisco più niente…
– Bevi ancora un po’.
– No, no, basta bere. Quella roba mi dà il voltastomaco. Ma tu chi sei? Come ti chiami?
La sento ridere.
– Io? Io sono Sunny.
– Sunny? Sunny come… sunny?
– Sì, Sunny così. Sunny come la vuoi tu.
– Io non voglio niente.
E, a dispetto di quel che ho appena detto, bevo ancora. Lei ride ancora.
– Quanto? — domando. E la domanda le strozza il riso in gola.
Agito la bottiglia.
– Quanto costa questa robaccia? — insisto — Cinque, dieci kontinental? Io una volta ho venduto una piuma di gabbiano a 10 kontinental!
– E chi è l’idiota che ti ha dato 10 kontinental per una piuma di gabbiano?
– Era uno. Gli raccontavo delle storie, e lui mi ha detto di volere la piuma come portafortuna. Sbagliato, naturalmente.
– Sbagliato cosa?
– Il prezzo. Dieci kontinental sta in piedi per una penna di gabbiano, ma le piume…
– Sei fuori di testa
– Ogni cosa ha il suo prezzo: non te l’ha detto questo, la signora Aleksa? Guardami bene. Coraggio, guardami.
– Ti guardo, Alan.
– Alan? E chi ti dice che io sia Alan?
– Si vede che non sei abituato a bere, ci stai andando sotto.
– Chi ti dice che io non sia Eric?
Mi tiro dietro un lungo silenzio: lunghi sguardi e lunghi sospiri. Sunny si fa sempre meno solare; sembra dispiaciuta.
– Chi ti dice che io sia il clone? — senza una ragione precisa, mi rabbuio anch’io — Se fossi Eric? Cosa accadrebbe se io fossi Eric? Avresti fatto un errore, bambina. E con te, l’avrebbero fatto molti altri. Perfino il Sistema dovrebbe ammettere di aver commesso un grave errore, se saltasse fuori che io sono Eric. E’ stata Aleksa a farmici pensare. Bella mente, la sua.
Torno con lo sguardo su Sunny, che adesso mi fissa interdetta. E’ davvero bella. E’ qualcosa che mi mancava, che riempie un vuoto, che meriterebbe tutt’altra storia e tutt’altro trattamento. Nel cavo della mia mano scompare metà del suo viso, che è ancora così caldo. Il suo sguardo smarrito riluce ancora; le labbra pulsano.
– Sunny, vorrei avere più tempo…
E so di non averne.
Nello spazio di un attimo c’è tutto quello che sto per raccontare: sto per baciare Sunny, perché lo merita, perché lo desidero. La bacio, ma piano piano piano. C’è una porta, è chiusa, ma il fruscìo, oltre la porta chiusa, si sente distintamente. Ho pochissimo tempo. Tra la mia mano e la piccola guancia di Sunny, al riparo dal resto del mondo, s’è creata una fessura, una minuscola nicchia: ci infilo dentro le labbra, fino a sfiorare l’orecchio di lei.
– Otto è il mio numero magico. — sussurro — Otto come: otto del mattino. Otto come: ottava flyway. L’imbocco della flyway. E’ quello il posto.
Se avessi altro tempo le chiederei anche scusa, perché quel che sta per succedere vorrei davvero risparmiarglielo. Ma il lungo istante che vi dicevo è finito.
XLIX
– Fermo dove sei, animale. Non fare mosse false.
– Allontanati dalla ragazza. Alla svelta. Ci senti, signor clone? Allontanati da lei!
– E tieni le mani bene in vista. In alto: tieni le mani in alto. Adesso alzati. Lentamente. E mettiti con la faccia contro il muro. Len — ta — men — te!
– Lei, signorina, rimanga dov’è e non faccia stupidaggini. Era in compagnia di un latitante, non lo sa? E di un pericoloso criminale.
Anche questo è successo nel giro di qualche istante. La porta chiusa ha ceduto sotto il peso di un calcio bene assestato; Sunny ha dato un grido di terrore; mi si è stretta accanto; avrei voluto confortarla — non c’è stato tempo né modo: un poliziotto mi ha puntato in faccia una mitraglietta, forse credendo così di spaventarmi. Un’altra, di un altro poliziotto, mirava dritta al cuore di lei — ed è per questo (solo per questo) che ho obbedito ai loro ordini. Un clone non ha paura di “morire”; non ha paura di morire in modo umano, almeno. Non ha paura di essere colpito da un proiettile o di cadere nel vuoto da un’altezza vertiginosa. Un clone ha paura di un’iniezione, di ingoiare medicinali, di entrare in sala operatoria, di stendersi su una barella: di questo ha paura un clone. L’unica paura “umana” che mi ritrovo è quella di perdere le persone che mi sono care. E Sunny, per quanto strano possa sembrare, mi è cara. Sicchè obbedisco, e faccio in silenzio e in maniera solerte tutto quello che i poliziotti dicono, perché spero che le tolgano quella mitraglietta dal petto. Sunny, perdonami!
La tensione cresce. Sunny piange e io mi sento all’angolo: provo a spiegare che lei non c’entra, che non mi conosce, che è capitata con me per caso… mi tolgono la parola togliendomi anche il fiato: un colpo mi spezza a metà la schiena. E, nello stesso istante, un paradossale ufficiale dall’aspetto giovanile e dai capelli bianchi fa il suo ingresso in scena. Tempismo studiato ad arte, per far sì che io cadessi inesorabilmente ai suoi piedi.
Mi ci sarei gettato ugualmente ai piedi del capitano Stark, pur di ottenere che togliessero quella mitraglietta dal petto di Sunny.
Tutto inutile.
Lui gongola nel vedermi in trappola, e di tutto il resto se ne frega.
– Guarda, guarda, guarda… – ridacchia impettito, come un gallo da combattimento — il clone Alan!
Io stento a riprendere fiato, ma annaspando imploro:
– La ragazza non c’entra. Lasciatela andare.
Tutto inutile. Ogni sforzo continua a rivelarsi inutile, fino al momento in cui nella stanza compare la signora Aleksa. Lei in persona. Perfettamente in parte: aria imbronciata, severa — ingannerebbe persino sua madre! Ordina alla Polizia di Regime (lei alla Polizia di Regime!) di fare in fretta; chiarisce con due parole la posizione di Sunny. Ha un tono che non ammette repliche. Eccezionale, eccezionale davvero, Aleksa Drexter! L’ufficialone bianco, che tutti chiamano capitano, le sorride e passa senza ulteriori indugi alle domande di rito. Prassi.
– Signora Drexter, vuole sporgere denuncia contro costui? — chiede Stark in tono ovvio, indicandomi con un cenno.
Mi dispongo ad ascoltare bene: ora viene il bello.
E la signora Drexter, senza battere ciglio, apre bocca e pronuncia un reciso, fragorosissimo:
– No.
L’ha detto! L’ha detto! Mi viene da ridere. E’ davvero eccezionale, la signora Aleksa: ha detto no!
Stark ha un fremito, come se il pugno a mezza schiena stavolta l’avesse preso lui.
– Come, prego? — gli scappa detto, nella meraviglia generale.
– Ho detto di no. Non sporgerò denuncia contro costui.
– Ma signora Drexter — protesta adesso l’albino, perfino risentito — è stata lei a telefonarci! Lei ci ha segnalato la presenza del clone. La procedura è questa.
– Me ne fotto della procedura, capitano. Questo qui non è il clone di mio figlio. Non gli somiglia affatto!
Scommetto che scappa da ridere anche a lei. Meglio non incrociare gli sguardi.
– Possiamo controllare il tatuaggio d’origine. — arranca Stark.
– Non ha nessun tatuaggio: è stato risvegliato su espressa richiesta dell’origine e non per scopi scientifici. Questo comporta la cancellazione del tatuaggio; mi meraviglia che lei non ne sia al corrente, capitano. La prima delle norme che il Movimento per il Risveglio dei Cloni ha promosso è stata proprio questa: restituire dignità al clone risvegliato, attraverso la cancellazione dei codici epidermici di identificazione sanitaria.
Uno sfumato rossore suino inizia a infiammare le gote di Stark. Adesso è lui ad osservarmi, con quanta attenzione il suo stato di alterazione gli permetta.
– La somiglianza è sorprendente, signora Aleksa! — protesta ancora — Non può dire di non riconoscerlo.
– Se avete dei dubbi, capitano, non c’è che un modo per effettuare l’identificazione. Organizzate un raffronto medico, davanti a un genetista: iridi, corde vocali, eccetera… la solita procedura, e avrete tutte le risposte. Io, per parte mia, ho fatto anche troppo. Vi prego di lasciare al più presto il mio parterre. Tutto questo trambusto non giova all’immagine di Villa Drexter. Vi prego di scusarmi, ma sono molto impegnata. Buonanotte.
Ed esce di scena, rigida e infastidita, Aleksa, Scompare nella penombra complice della sua Villa, con l’aria della tigre ferita nell’animo, che opta per una strategica ritirata.
Eccezionale Aleksa! Grande attrice, grande donna, Aleksa!
4. TRASGRESSORI E TRASGREDITI
Patrich Behlen masticò l’ennesimo mozzicone di sigaro.
-Per la puttana. — biascicò.
Alzò gli occhietti puntuti dal foglio che stringeva fra le dita giallognole. Gli sedeva di fronte Amy Evans, redattrice di razza, vecchia guardia della carta stampata. La meno attraente delle donne che pure si sarebbe scopato. Tutta cervello. E che cervello!
– Da dove salta fuori questa roba? — chiese il direttore-caimano, agitando il foglio.
– Lascia perdere le stronzate, Behlen. — ronzò lei — Ti interessa?
– Se mi interessa?Puoi scommetterci.
– D’accordo, è roba tua.
Capì che l’avevano messa con le spalle al muro e non le fece altre domande.
Si chiamava “Rapporto PLA”: era un documento segretissimo, che riferiva i dettagli di un piano strategico di un filone segreto della prevedibile alleanza fra Polizia di Regime e Distretto di Sicurezza Sanitaria Intergovernativa. Un documento così scottante, da sottrarre la poltrona da sotto le chiappe della più quotata giornalista sulla piazza.
Amy Evans strinse gli occhi.
– Leggi le firme in calce. — suggerì.
– Già lette. — sorrise Behlen.
Capitano Maximilian Stark, dottor Ektor Brauler. Vecchie conoscenze, per le stanze segrete dello UWDN. Due menti perverse per un piano perverso. Behlen si prese del tempo per rimuginarci su. Un termine, piuttosto ricorrente nel “Rapporto PLA”, l’aveva colpito: “peste”.
– Allora, sono o no nella tua squadra? — gracchiò ancora la Evans, prima di congedarsi.
– Trovati una scrivania ed incollatici sopra. — ribattè il direttore in tono di commiato.
Rimasto solo, ordinò alla sua segretaria le solite due priorità: 1) non passargli nessuna telefonata; 2) chiamargli Aleksa Drexter.
L
Mi risveglio, confuso e tumefatto, dopo una nottata di bagordi, in una specie di inferno spinto all’ennesima potenza; quindi ci metto un po’ a far quadrare le cose. E le cose stanno più o meno così: dove sono? Chi sono? Cosa sono? Dov’è la mia vita? Cos’è la mia vita? Chi la sta vivendo? E, fin qui, normale amministrazione. Poi l’universo comincia a rimettersi in fila dinnanzi ai miei occhi. (Miei?). Insomma, davanti agli occhi. Sicchè dalla massa informe delle cose, salta fuori una sola consapevolezza: una nottata così poteva combinarmela solo Aleksa Drexter!
Ci riderei sopra, se non fosse che da ogni parte di me si levano dolori lancinanti: effetto del pestaggio, immagino… ma mi sbaglio: non ho addosso nemmeno un livido, nemmeno un graffio. Come se quelle botte fossero state date a qualcun altro. E, a voler essere sinceri, non mi ricordo altro che rumori. Ero troppo fuori di testa per capire cosa stesse accadendo. Così mi metto l’anima in pace e mi decido ad affrontare il contingente. Altro bel problema!
Il contingente per il momento mi orbita intorno senza ordine e senza controllo; lo sento avvicinarsi ed allontanarsi, con paurosi echi e paurosi riverberi. Sono ancora abbastanza leggero da potermi permettere l’illusione del volo. E così, volando, arrivo a planare morbidamente nei bassifondi. Se morissi in questo momento mi sentirei in paradiso. Troppo bello per essere vero.
Mi risveglio — dicevo — in un mattino post-odissea. Ho il cervello in reset, il che vuol dire: tutto dimenticato. Strade, vicoli, pertugi…sono qui, come un’anima in pena, che gira e gira, senza una meta, in cerca d’un punto di riferimento, uno solo. E sì che di indizi ne ho! Il numero otto, innanzi tutto. Che si tratti di una flyway l’ho capito dai gesti. So anche della ragazzina, o chi per lei. Sicchè l’alba dà il primo bagliore proprio mentre io mi pianto sotto il semaforo che dà sull’imbocco dell’ottava flyway; e qui aspetto. E per tutto il tempo che aspetto, non faccio che pensare alle assurde proporzioni che ha assunto questa storia, che una volta riguardava solo me e Sara, e oggi conta perfino eroi e martiri…
Meglio lasciar perdere.
Sono sull’orlo del transfert: colpa del semaforo, che lampeggia con precisione ossessiva. Un tempo avrei detto che le attese non sono il mio forte. Adesso questa sembra una battuta di spirito. Tanto che ci ridacchio su, fra me e me, come un barbone ubriaco e solo, che si guarda nelle vetrine e non si riconosce, cosa che potrebbe anche essermi accaduta — e nemmeno troppe vite fa.
5. IL “RAPPORTO PLA”
Obiettivo: creazione di un nuovo ceppo sintetico di un comune batterio. Discendenza: famiglia del clostridio (fra le più diffuse ed aggressive). Scopo: diffusione di un morbo atipico di carattere pestilenziale. Condizioni dell’habitat: scarsa igiene e ambiente anaerobio. Modalità del contagio: individuazione di portatori sani, innesto degli stessi ed inserimento controllato (“controllato” sottolineato più volte) nel Sistema.
Traduzione: i cloni saranno i portatori sani di un nuovo morbo che imperverserà nei sobborghi.
1a VOCE. Con questo cosa otterrà?
2a VOCE. Controllo.
1a VOCE. Che vuol dire?
2a VOCE. I morti viventi, appena risvegliati, corrono subito a rintanarsi nei sobborghi e lì scompaiono. Questo mi insospettisce. Cosa accadrebbe, dottore, se i cloni risvegliati si unissero; se creassero una sinergia fra di loro e con il popolo dei sobborghi? Riesce ad immaginare quali devastanti proporzioni ed effetti avrebbe una ribellione in quelle zone?
1a VOCE. Immagino che la materia organica tenderebbe a prevalere sull’equilibrio biodinamico scientificamente ordinato. Ma è un discorso che prescinde dalle reali capacità di ciascuno di noi, capitano.
2a VOCE. (in tono sarcastico) Suvvia, dottore, non si sottovaluti a questo modo! Il potere del Sistema prescinde dalle capacità di autodeterminazione della materia organica, in qualsiasi forma essa si materializzi. Non mi dirà che dovremmo temere uno sparuto gruppetto di zombie o un branco di straccioni ignoranti!
1a VOCE. Non dico questo.
2a VOCE. Punteremo sull’emarginazione, piuttosto che sulle eliminazioni fisiche, che sono così impopolari! Adesso, poi, con le menate della Drexter e del suo Movimento Umanitario… bisognerà essere molto prudenti. (una pausa e un sorriso complice) Se invece lasceremo dilagare la notizia che i cloni risvegliati sono portatori sani di questo terrificante morbo, per il quale non esistono antidoti, la paura del contagio agirà meglio e più a fondo del più feroce dei nostri corpi di vigilanza. E’ tutto chiaro adesso, Brauler?
1a VOCE. Mi dica esattamente che cosa il Sistema si aspetta da me.
2a VOCE. La sua consulenza scientifica, dottore. Un piccolo ma risolutivo intervento nel progetto, che potrebbe garantirle senza ulteriori intralci il titolo di “doctor”.
1a VOCE. Questo, naturalmente, per cominciare.
Occhiate e sorrisi incrociati.
2a VOCE. (tono perentorio) Per cominciare, lei ci fornirà il batterio-killer dottor Brauler. Poi, a tempo debito, l’antidoto. Con onori e gloria, eccetera. Crei l’arma, la metta in funzione e si metta in condizione di arrestarla, quando le verrà ordinato di farlo.
1a VOCE. Per farlo ho bisogno di una sola cosa, capitano Stark.
2a VOCE. Che cosa?
1a VOCE. Il primo clone risvegliato. Sara.
LI
– Ciao. Quanti gradi oggi?
– Non oggi. Domattina.
– Domattina?
– Domattina.
Hai presente quando il terrore si dirada di colpo? Quando scompare dal volto e dagli occhi, e vedi una lucina sottile ma intensa, che sale da dentro e si diffonde dentro e fuori? Hai presente?
– Domattina.
1a VOCE. Dottore?
2a VOCE. Non ci sono dubbi. Il raffronto delle iridi non lascia spazio al dubbio. L’esito dell’esame è indiscutibilmente positivo: questi sono due esseri uguali. Tuttavia, il protocollo prevede che si effettui anche il raffronto dei timbri vocali. Bisogna che i due detenuti parlino.
– Ecco, adesso. E’ il momento. Fammi una domanda, Eric.
– Quanti gradi domattina, Alan?
– Otto.
– Otto.
3a VOCE. (allarmata) Generale!
2a VOCE. Perfetto: anche il test vocale dà esito positivo.
– Ho capito: otto.
3a VOCE. Generale Kozinskij!
2a VOCE. I due prigionieri sono uno il clone dell’altro.
1a VOCE. Sarebbe a dire?
3a VOCE. Generale, i due…
1a VOCE. Vuole tacere una buona volta, capitano Stark!? Dottor Brauler, vuole essere più preciso? L’esito della sua indagine è parziale.
– Capito, adesso?
2aVOCE. (risentita) Che vuol dire parziale?
1a VOCE. Deve dirmi quale di questi due è l’origine e quale il clone, dottore! Altrimenti il suo test risulta del tutto superfluo ai fini della nostra indagine.
– Capito? Clone con uomo, uomo con clone.
3a VOCE. Generale, i due detenuti si stanno scambiando informazioni in codice!
1a VOCE. Che cosa?!
2a VOCE. Confabulano, signore. Si scambiano cenni di intesa.
Bella, questa scena: avreste dovuto vederla. Kozinskij che fruga con gli occhi nel volto disfatto di Ericalandrexter o chi sa chi, o entrambi. Kozinskij col fiato spezzato, gonfio d’ira come un rospo in calore.
1a VOCE. Tieni a mente queste parole, Eric Drexter: non hai vinto. Non-hai-vin-to.
LII
Sunny trattiene il fiato. Dall’altra parte della strada è comparsa la sua figurina esile, ancora piena di scintillii notturni. Si intrufola nel mucchio selvaggio delle supersportive ferme al rosso; qualche motoraccio le ammicca contro, perché nonostante il volto scarno e gli occhi così stanchi, e nonostante il giaccone pesante e niente tacchi e niente trucco, nonostante tutto questo, Sunny è bella. E ai motoracci delle supersportive fa gola. Uno fa perfino per sbarrarle il passo, ma lei lo scansa, punta dritta verso di me, fissandomi addosso due occhi cerchiati, ma limpidi. Capisco troppo tardi che dovrei conoscerla, o riconoscerla. E’ la contingenza che mi salta addosso, dopo troppe ore di torpore.
– Lo sapevo che c’eri. — ansima.
Mi tira su, mi scuote; mi fissa, e ancora mi fissa.
– Vieni via. — aggiunge, risoluta.
Io sono ben piantato sui miei piedi: sono fermo. Fermo dentro e fermo fuori.
– Non è come credi. — attacca allora Sunny, accorata — Non sapevo niente della Polizia di Regime. Non sapevo che era una trappola.
Non mi smuovo di un millimetro.
– Ti prego, Alan, credimi.
Alan…
Non so perché, ma le parole di questa piccola puttana mi convincono.