di Niccolò Menniti Ippolito
Di fronte alle stragi scolastiche negli Stati Uniti ci si imbatte in un paradosso mediatico. Da un lato la loro frequenza ridimensiona l’orrore; dall’altra ad ogni nuova replica si ripete, da parte di tutti, lo stupore e lo sgomento per ciò che è ritenuto in sé assurdo e imprevedibile. Ad uscire dal paradosso può aiutare un romanzo come Project X di Jim Shepard (Meridiano zero, Euro 12,50), autore americano di tutto rispetto, per la prima volta tradotto in italiano.
Nel suo libro Shepard (nella foto) racconta una cosa abbastanza banale, e cioè l’isolamento di due adolescenti, il loro cantare sempre fuori dal coro, il loro sentirsi rifiutati, il loro cercar grane e trovarle, la loro inettitudine, la loro violenza repressa, l’incomprensione dei genitori e degli insegnanti e così via. E’ vero che ciò che accade ad Edwin e Scheggia, i due protagonisti tredicenni, è più esasperato ed esasperante di quel che poteva accadere al giovane Holden, ma non è poi così distante, come non è distante da quanto succedeva anche in passato agli adolescenti, per esempio al giovane Torless di Musil, per andare a tutt’altro contesto. Insomma, c’è in questa adolescenza turbata ed in qualche modo rubata un’aria di famiglia, una sorta di normalità, che la letteratura ed il cinema hanno già raccontato, e che l’ambientazione in luoghi più anonimi e deprivati non cancella. Le piccole prepotenze, il raggrupparsi per banda, l’imporre a tutti uno stesso modo di vivere non sono dato sociologico esclusivamente americano e contemporaneo e il grande pregio di Jim Shepard è proprio di raccontarlo in questo modo, come una violenza in se orrenda, eppure banale, che Edwin e Scheggia subiscono, come gli adolescenti più fragili e riottosi hanno sempre subito. Bersagli inevitabili, in qualche modo: orgogliosi e deboli, capaci di farsi picchiare in silenzio, di farsi umiliare senza tirarsi indietro. Ed allora in qualche modo tutto ha il tono del racconto di formazione; ma qui sta l’intuizione di Shepard, perché la formazione in realtà non avviene, ma è delegato ad una scorciatoia, che sono i fucili ed i mitragliatori con cui massacrare i compagni ostili.
Shepard racconta come i sogni sanguinari degli adolescenti frustrati escano dall’irreale per diventare realtà concreta, urla e sangue. Ma senza perdere il loro status di sogni, senza perdere la loro banalità. Edwin e Scheggia vogliono distruggere un mondo ostile, non c’è da stupirsi.
Lo stupore sta nel cortocircuito tra sogno e realtà, per cui l’irrealtà della vita concreta consente la materialità dell’omicidio, che perciò diventa insieme atto banale e incredibile. Così il libro nel suo scorrere quasi inevitabile, nel suo stile sostanzialmente neutro, racconta senza speranza di un America turbata e impotente, che può solo assistere ad un orrore che è tale proprio perché è semplicemente una possibilità come un’altra: i compagni ti odiano e tu spari.
[da ‘il Mattino di Padova’, 23.5.2005]