[Sul numero in edicola della rivista Blow Up. Rock e altre contaminazioni (n.86/87, luglio-agosto 2005, € 5,00) c’è una lunga e dettagliata intervista di Michele Coralli ai Wu Ming sui temi della proprietà intellettuale, del copyright e del copyleft. Poiché nell’industria culturale, e in particolare tra gli editori, continuano a circolare luoghi comuni e allucinati fraintendimenti (come l’idea che il download dei libri danneggi le vendite, nonostante gli stessi Wu Ming siano la prova del contrario), e poiché questa conversazione fa chiarezza su alcuni punti-chiave, abbiamo deciso di riproporla qui. AC]
Nelle nostre precedenti interviste sul diritto d’autore nell’epoca del “copia e incolla” sono scaturiti moltissimi elementi interessanti da cui potremmo partire in questa nostra conversazione. La più immediata sensazione è che in molti ambienti, quando si parla di Internet e nuove tecnologie digitali prevalga ancora un certo nervosismo. È un po’ come se, a fronte di un cambiamento che ha il peso di una rivoluzione globale, i timori di perdere una posizione più o meno dominante siano i soli a determinare l’atteggiamento di qualsiasi politica editoriale. Cos’è che spaventa ancora?
Se si parla dell’industria dell’entertainment, spaventa la consapevolezza di aver perso l’occasione, di essere in plateale ritardo, aver subito l’innovazione anziché anticiparla, e tutto questo dopo decenni di retorica e propaganda sul “new”, la “next big thing”, il “cutting edge”, lo “state-of-the-art”. I padroni del vapore dell’industria culturale temono il nuovo, lo temono visceralmente, ma non possono ammetterlo, se ne vergognano: temere il nuovo è… anticapitalistico, è… illiberale! La cultura in cui si sono formati non contempla nemmeno l’idea del secondo posto, figurarsi l’arrivare ultimi, con la maglia nera (come quel ciclista degli anni Ottanta, Gambirasio, dignitosissimo).
Spaventa e angoscia lo scoprirsi su posizioni di retroguardia, “conservatori”, resi vecchi da un cambiamento cognitivo epocale, uno dei processi di diffusione e socializzazione del sapere più importanti dal Neolitico ai giorni nostri. Che fare, dunque? Sminuire il nuovo, per poi criminalizzarlo: “Ma quale cambiamento cognitivo? Ma quale copyleft? Quale peer-to-peer? Si chiama furto, si chiama frode, si chiama fare i furbi! Che c’è di nuovo nel furto? Che c’è di epocale nel commettere reati?”
Lorsignori s’erano abituati a profitti smodati in condizioni di primato dei supporti (cd, dvd) e di proprietà esclusiva dei mezzi di produzione (sale d’incisione, studios, masterizzatori etc.). La parziale “smaterializzazione” (il flusso di dati conta più dei supporti) e la democratizzazione del computing (broad band e masterizzatori sono ormai in tutte le case) li hanno colpiti nel portafogli. Dovranno abituarsi a profitti “normali”, e a produrre e vendere entertainment in un altro modo. Potevano muoversi prima, cavalcare la tigre fin dall’inizio, ma non avevano la mentalità giusta, non avevano le informazioni giuste. Il web esiste e cresce da undici anni, la rete da molto prima, la velocità delle connessioni è aumentata sempre di più (dal modem a pedali all’isdn all’adsl alla fibra ottica), questi pagano fior di sondaggisti e uffici studi per sondare il mercato e l’immaginario, eppure non hanno saputo leggere la tendenza.
Del resto, i media tradizionali non li hanno aiutati granché: ogni giorno il sensazionalismo giornalistico dipinge una guernica di pedofili, pirati, sniffatori di password, clonatori di carte di credito, e molto di rado si descrivono i mutamenti reali mentre sono in corso. Di solito, i media arrivano a giochi fatti, e descrivono la situazione dell’anno prima. C’è molta ignoranza e ottusità anche nella stampa specializzata, “di settore”: qualche mese fa, su un mensile musicale italiano, un coglioncello definiva il copyleft “libertà di rubare”.
Secondo voi, come mai fatica a passare l’idea che il download gratuito sia realmente in grado di favorire le vendite di un prodotto editoriale, sia esso libro o disco?
Hai fatto bene a scrivere “in grado”, a esprimere una potenzialità. La cosa non è per niente automatica. Occorre sbattersi, offrire un prodotto di qualità, mostrare di crederci, seguire la circolazione del prodotto e gli effetti che produce, il ritorno d’immagine, la voglia di conoscere altre opere dell’autore etc. Se la cultura circola, produce circoli virtuosi. Nel caso del libro, la cosa funziona molto bene, ormai è dimostrato cifre alla mano, tocca agli altri tentare di smentirci. I nostri libri continuano a vendere perché c’è un passaparola senza tregua, alimentato dai download.
Nel caso della musica, serve un cambio di mentalità: il fulcro non è più il supporto, il grosso dei profitti proverrà sempre meno dalla vendita del cd. Non stiamo parlando di “cofanetti”, box multi-cd con artwork molto curato e booklet ricchissimi: quelli sono oggetti che vale sempre la pena comprare, toccare, carezzare. Parliamo del normale album-nuova-uscita. Il supporto è oggi un accessorio, anche importante, ma comunque un accessorio. E’ uno dei modi di far circolare la musica e il nome di chi l’ha composta; è uno dei modi di consegnare ai flutti messaggi in bottiglia; è uno dei modi per “fissare” la musica, serbarne memoria, tramandarla (anche se il cd è un supporto facilmente deperibile, al contrario di quello che si propagandava quando fu immesso sul mercato). Ma il vero momento di verifica e di guadagno sarà sempre di più l’esibizione dal vivo, oltre ai vari utilizzi commerciali (inclusione in colonne sonore, spot televisivi, jingles radiofonici). Si badi che questo vale anche per la musica laptop-oriented: uno magari vende poche copie di un cd, ma poi i locali ti chiamano per fare “sonorizzazioni”, costruire ambienti sonori etc.
Lavoro coperativo come propulsore di sviluppo e innovazione. È questa la sfida di iniziative nate all’ombra dell’idea dell’Open Source come l’enciclopedia online Wikipedia o delle Creative Commons, le licenze gratuite create nel nome dello scambio tra autori. Tra queste spinte e quelle che operano nel senso di una sempre più stretta restrizione del copyright, come la “legge di Topolino” scritta ad hoc per la Disney dal Congresso americano, si determina uno scontro vero e proprio, oppure sono tendenze che alla fine riusciranno a convivere pacificamente?
Un aforisma di Woody Allen dice: “Il leone e l’agnello dormiranno insieme, ma l’agnello dormirà ben poco”. La convivenza pacifica è impossibile, semmai parleremmo di compresenza conflittuale. Sono due cavalli che tirano in direzioni opposte. Tesi e antitesi produrranno una lunga serie di sintesi precarie, fino a un risultato più stabile, che speriamo sia una riforma radicale della legislazione sul copyright. Ma ci vorranno anni e anni.
Nella musica, così come nella letteratura, sembra che una reazione a certi atteggiamenti protezionistici sia quella di determinare una vera e propria eruzione di nuovi materiali. Oltre naturalmente alla facilità dettata dalle nuove tecnologie, si ha l’impressione che come reazione alla disinvoltura con cui si sguinzagliano gli avvocati per tutelare le opere sotto tutela, ci sia molta produttività spesso svincolata da verifiche autocensorie. In altre parole non credete che un esasperato protezionismo determini esiti opposti, quasi di eccesso di spontaneismo artistico?
Senz’altro. E’ sempre stato così. Metti un recinto e darai a qualcuno l’idea di scavalcarlo. L’atto di scavalcarlo produce una nuova percezione dello spazio: prima ce n’era uno solo, ora ce ne sono due: il “di qua” e il “di là”. Pura dialettica, l’uno che diventa due. Dall’unico discende il molteplice. Il controllo produce linee di fuga.
Il copyleft è basato in prima istanza da un’onestà intellettuale che dovrebbe responsabilizzare chi riutilizza dei materiali in modo che questi non vengano sfruttati per fini di lucro. Non è ingenuo pensare che io posso copiare tutto, semplicemente promettendo di non guadagnarci dei soldi?
Il copyleft ha come fondamento il copyright. Una dicitura copyleft non è altro che una dicitura copyright corredata da una lista di eccezioni al divieto. Il testo è mio perché ne sono l’autore, sta a me decidere, e decido che se vi va potete riprodurlo e utilizzarlo così e così… ma non cosà. Se lo utilizzate cosà, violate il copyright. Senza il copyright non abbiamo il copyleft, abbiamo il pubblico dominio di un’opera, chiunque può prenderla e utilizzarla – anche a scopo di lucro. Succede coi grandi romanzi dell’Ottocento, ormai liberi da diritti. Chiunque può ripubblicarli, anche con traduzioni frettolose e scadenti. Con il copyleft non può succedere, perché le condizioni di utilizzo sono molto chiare. La fiducia è una gran bella cosa, l’onestà intellettuale è auspicabile che ci sia sempre, ma se viene a mancare, ci sono i tribunali. Se durante un volteggio cadi dal trapezio, non è male sapere che sotto c’è la rete.
Un atteggiamento “elettronico” o “digitale” è senz’altro più visibile in un musicista, piuttosto che in uno scrittore. Come pensate che questa tecnologia, che ha determinato un profondo cambiamento di relazione tra artefice e manufatto, sia stata in grado di agire sul pensiero creativo umano? In altre parole siamo semplicemente in una fase che parte da qualcosa che Walter Benjamin aveva già individuato settant’anni fa o c’è qualcosa di più?
Non crediamo che un atteggiamento digitale oggi sia “meno visibile” in uno scrittore. Il passaggio dalla Olivetti al word processor, che poteva dirsi compiuto all’inizio degli anni Novanta, aveva già rivoluzionato il modo di comporre un testo. La crescita della rete ha fatto il resto. La “ricorsività” della scrittura (cioè la possibilità di modificarla infinite volte senza distruggere il supporto provvisorio, “sbianchettare”, cestinare etc.), la fine del “blocco da foglio vuoto”, la funzione taglia-e-incolla, la rapidità con cui puoi spedire il testo ad altre persone per avere un parere, la facilità con cui si passa dal file al libro (una volta il dattiloscritto andava ricomposto su una lastra in caratteri di piombo!), la maggiore interazione tra scrittori e lettori tramite e-mail, blog, siti dedicati… Tutto questo cambia radicalmente la psicologia dello scrivere, l’approccio alla parola. Restituisce allo scrivere la sua dimensione sociale.
Quali sono gli artisti che stanno meglio intepretando questa estetica tecnologica, orientata alla condivisione?
Più che di artisti, è interessante parlare di “operazioni”. L’operazione “cd brulé” fatta da Einsturzende Neubauten ed Elio e le storie tese (alla fine del concerto puoi comprarne subito la registrazione, a un prezzo contenuto); l’operazione Grey Album di DJ Dangermouse (e in generale tutta l’estetica del “Bootleg Remix” che andava di moda qualche anno fa e ora si è trasformata in qualcosa di indefinibile); l’operazione Beatallica (una parodia creativa che si afferma e si sviluppa grazie alle risorse della rete); e poi tutti gli artisti che non hanno paura a mettere la loro musica scaricabile on line, perché sanno che, se si è intelligenti, si ha tutto da guadagnare. Per quanto riguarda la scrittura, non parliamo di noi stessi, e ci “limitiamo” a segnalare la vertiginosa crescita dei blog letterari.
Bill Gates ha recentemente affermato che “l’economia mondiale è oggi più che mai fondata sulla fede nella proprietà intellettuale. Esiste solo un manipolo di comunisti di nuovo genere che vorrebbero fare piazza pulita degli incentivi per musicisti videomaker e produttori di software.” Voi vi sentite comunisti?
Lasciamo parlare i fatti, al di là delle etichette ideologiche.