di Francesca Caferri
“Ho sempre saputo di essere nata in un Lebensborn”, racconta Gisela Heidenreich. “Era scritto sul mio certificato di nascita. Quando ho chiesto cos’era, mia nonna mi ha detto che era l’asilo d’infanzia dove lavorava mia mamma. La verità l’ho scoperta dai giornali a 13 anni, in un’inchiesta che raccontava cosa erano davvero queste Sorgenti di Vita“. Tutti sanno dell’Olocausto, ma pochi conoscono la storia dei Lebensborn: eppure i Lebensborn sono l’altra faccia di quella medaglia. Se col primo si volevano eliminare le persone non pure, nei Lebensborn doveva crescere la perfetta razza ariana: questa era l’idea di Heinrich Himmler, il braccio destro di Hitler.
Anche a 59 anni Gisela Heidenreich è una donna molto bella: alta, bionda, con profondi occhi azzurri, l’incarnazione perfetta di quell’ideale sognato dal Terzo Reich. Nata dalla relazione di un ufficiale delle SS con una segretaria che lavorava per il Reich, ha passato i primi anni della sua vita in un Lebensborn. Era in queste istituzioni – centinaia in tutto il territorio del Reich – che venivano cresciuti i figli illegittimi di soldati tedeschi: qui venivano portati i ragazzi ritenuti “adeguati” e strappati alle famiglie – che spesso venivano uccise – nelle zone di occupazione. Qui le giovani donne erano “incoraggiate” a incontrare militari del Reich per generare perfetti tedeschi. Il tutto era circondato dalla massima segretezza: spesso i nazisti facevano passare i Lebensborn come bordelli per ufficiali, in modo da mascherare quello che realmente accadeva dietro quelle mura. Alla sua esperienza di bambina del Terzo Reich, Gisela Heidenreich, oggi psicoterapeuta, ha dedicato un libro, il primo mai scritto da una persona che ha vissuto direttamente l’esperienza di questi asili. Das endlose Jahr (L’anno infinito, ed. Scherz Verlag) è uscito da poche settimane in Germania ed è già al centro di dibattiti: “Molti giovani mi hanno scritto per ringraziarmi: i loro genitori non avevano mai parlato loro del periodo del nazismo, molti in Germania hanno preferito dimenticare il passato, seppellirlo”, racconta la scrittrice. “Ma tanti mi hanno criticato, per aver tirato fuori una storia che era sepolta, una parte tanto dolorosa del passato di questo Paese”. Il testo è frutto di 20 anni di ricerche e interviste e della lettura di migliaia di pagine di documenti: nelle sue pagine Heidenreich racconta la sua storia, e quella di altre migliaia di bambini che si sono trovati schiacciati dalla macchina della pianificazione nazista. “Il libro è nato”, racconta, “dalla necessità di fare i conti con il passato e con quel senso di colpa che mi ha sempre accompagnato da quando ho capito quali erano le mie origini. Ma anche dalla volontà di far luce su un capitolo della storia di cui non si parla mai”. Negli anni in cui il regime nazionalsocialista fu al potere, i Lebensborn accolsero circa 20 mila bambini: molti di loro vennero dati in adozione a famiglie di provata fede nazista, altri furono fatti crescere lì fino alla fine della guerra. Gli asili erano gestiti direttamente dalle SS: da loro arrivavano i finanziamenti, a loro dovevano rispondere i dirigenti. Poco prima della fine del conflitto, migliaia di documenti riguardanti i Lebensborn furono distrutti: così sparirono le carte che legavano i bambini alle loro famiglie di origine. Anche per questo a Norimberga dei Lebensborn si parlò come di semplici asili, e chi ci lavorava scampò a ogni pena. “In realtà”, spiega Heidenreich, “erano un posto dove i bambini erano cresciuti per diventare la razza dominante dell’Europa”. Dopo la guerra i bambini dei Lebensborn subirono destini diversi: alcuni rimasero con le famiglie di adozione e in qualche caso non conobbero mai la verità, altri furono restituiti alle madri, altri ancora furono affidati a orfanotrofi. Molti ebbero una sorte drammatica: in Norvegia – dove nei cinque anni di occupazione nazista i figli nati da relazioni fra donne del posto e soldati tedeschi furono circa 8 mila – contro di loro si scatenarono vere campagne di odio. “Dopo la pubblicazione del libro ho incontrato molte persone che hanno vissuto la mia esperienza”, continua la scrittrice. “Tutti hanno interrogativi aperti. Persino le persone di successo si chiedono se quello che hanno raggiunto è dipeso dalle loro capacità, o dal fatto di essere stati selezionati”. Se i rapporti con la madre sono sempre stati piuttosto tesi, negli anni Gisela ha ritrovato suo padre, ex ufficiale delle SS, che aveva sempre creduto morto. “Non gli ho fatto troppe domande sul passato: lui era felice che io fossi lì e si è rivelato dolcissimo. Mi è bastato sapere che non aveva lavorato nei campi di concentramento: avevo troppa paura di perderlo”.
da D – inserto di “Repubblica”