HIGHWAYMEN
di Danilo Arona
Nei primi giorni di febbraio dell’anno 2000 un mio amico, tenente colonnello dell’Arma, mi mostrò una fotografia sicuramente impressionante. Da qualche tempo collaboravo con carabinieri e polizia come (presunto) “esperto” per la soluzione di casi, diciamo così, “atipici”. Il fatto che mi si stava per prospettare era molto più che atipico.
Nella foto appariva il volto, parzialmente deturpato e fissato in un’espressione quasi sconcia, di una ragazza che pareva, a prima vista, dormire. Ma si trattava di una poverina, morta con assoluta evidenza, con un’aria minacciosamente famigliare.
“Perché me la fai vedere?”, chiesi al tenente colonnello.
Ci trovavamo nel suo ufficio, intorno a mezzogiorno. Fuori, oltre i vetri, si scorgevano di tanto pagliuzze di neve svolazzare confusamente sullo sfondo di un cielo grigiastro.
“Perché non dovrei fartela vedere?”
E’ peculiare, non sempre ma spesso, di un appartenente alle Forze dell’Ordine il rispondere a una domanda con una domanda. Serve per ricordare al prossimo che sono soltanto loro a far domande per professione. Tra me e lui esisteva in ogni caso un bellissimo rapporto. Poi lo trasferirono e io terminai la mia carriera alla Fox Mulder.
“Non la conosco. E’ una vittima di qualche incidente?”
“Sì”, rispose il mio amico caramba dall’altra parte della scrivania. “E ci credo che non la conosci. Sai per caso dove si trova San Pelagio?”
“Vicino a Trieste, credo… ”
“Non il San Pelagio che interessa noi. La ragazza è stata centrata in pieno da una macchina la mattina del 29 dicembre sulla A13, la Bologna-Padova in direzione Venezia. L’autista andava appunto in quel senso e, qualche chilometro prima di Padova, all’altezza appunto di una località che si chiama San Pelagio, si è trovato la poveraccia che barcollava proprio in mezzo all’autostrada e non ha potuto farci granché. Ha persino capottato dopo averla investita. Ma lui se l’è cavata con qualche graffio. Lei no.”
Guardai di nuovo la foto. Di colpo capii la vaga sensazione di familiarità. L’avevo vista un paio di settimane prima a Chi l’ha visto? La polizia non aveva trovato alcun documento sul corpo e nessuno aveva ancora denunciato la scomparsa di una giovane con quelle caratteristiche. Forse, anzi di sicuro, una delle tante vittime del disastro umanitario che dall’Est importava in terra italiane migliaia di poveracce destinate clandestinamente alla prostituzione, se non a qualcosa di peggio. Per qualche motivo che non ricordavo, la speaker della trasmissione l’aveva soprannominata “Melissa”.
“Non è un po’ fuori zona per te?”
“Sì. Ma questo è un caso per i tuoi denti…”
“Spiegati.”
“Ci sono state almeno tre altre denunce, tutte alla stessa ora. Tutte assolutamente conformi nella forma, nella sostanza e nei particolari che contano.”
“Altri testimoni?”
“Sì, ma non nell’ovvio senso cui si potrebbe pensare.”
“Oh, insomma, ti vuoi spiegare?”
“La ragazza è morta sulla A13 alle 5,20. A quell’ora sulla A27, all’altezza del casello di Treviso Sud, un camionista vede ondeggiare fra la corsia d’emergenza e il senso di marcia una ragazza bionda che sembra in preda a un malore. La evita per un millimetro, quindi blocca il camion e torna indietro a piedi, ma non vede più nessuno. Qualche chilometro più in là trova una macchina della polizia stradale e segnala l’accaduto. Però, sempre alle 5,20, sulla A1, poco dopo l’uscita per Parma in direzione Bologna, un signore anziano avvista una bionda malferma in centro strada e sterza qualche secondo prima d’investirla. Anche lui si ferma sulla piazzola d’emergenza, scende e torna indietro per cercarla, ma non trova nulla. Costui chiamerà addirittura dei soccorsi al telefono d’emergenza.”
“Un’altra bionda alla stessa ora?”
“No, la stessa bionda alla stessa ora. Tutti hanno descritto la stessa figura, stesso incedere catatonico, stessi vestiti… Jeans e giubbotto rosso. Così come il terzo testimone, stavolta sulla A4, all’altezza più o meno di Brescia. Identica storia: donna bionda al centro strada, jeans e giubbotto rosso. La evita di poco, ma già nello specchietto retrovisore non la scorge più. Capisci perché dico che è un caso per i tuoi denti?”
“Non ho denti così buoni…”
“Che vuoi dire?”
“Così a naso i quattro luoghi che mi hai elencato distano centinaia di chilometri l’uno dall’altro. A mia conoscenza, non esiste nulla del genere in tutto il mondo. Tre persone, reciprocamente lontanissime, che vedono la proiezione di una morte violenta che sta sul serio accadendo in un contesto per tutti identico. E’ talmente straordinaria, così come l’hai raccontata, che sembra una bufala.”
“Hanno tutti sporto denuncia. Ognuno dei tre con il logico intento di salvare una vita, dato che, dal loro punto di vista, una giovane donna in difficoltà stava caracollando di notte in mezzo ad un’autostrada. Te ne vuoi occupare?”
“E come? Sono un borghese senza potenti pezzi…”
“Usa quelli che noi ufficialmente non possiamo usare.”
Capivo l’allusione. Con lui avevo già visitato tre haunted houses, portandomi dietro due donne medium, una cattolicissima e l’altra peggio che atea, iscritta a Rifondazione. Una volta o l’altra ve ne racconterò. In ogni caso lui chiuse lì l’argomento. Lo conoscevo: una storia così lo turbava e metteva in crisi il suo assetto razionalista di carabiniere coi piedi per terra. Lasciato l’ufficio, mi condusse al bar del Comando. C’ingozzammo di patatine e di Crodini, quindi ci salutammo.
Melissa iniziò così ad ossessionarmi e io riuscii persino a raccogliere la testimonianza del pensionato bolognese che l’aveva vista sulla A1. Poi a marzo mi capitò una catastrofe nel computer. Una mattina lo accesi come sempre e ogni dato scomparve in un buco nero. Il mio consigliori informatico, un hacker conosciuto nel suo giro come “il cinese”, non ci mise molto a comunicarmi che mi ero beccato un W32/Mypics.worm, un virus maledetto che simulava i più disastrosi effetti del Baco. E, dinanzi al mio schermo buio, lo sentii pronunciare parole che a me, laureato in filosofia, provocarono immediati sudori freddi:
“E’ il terzo virus della famiglia Melissa. Viaggia in foto. Magari ti è piombata in casella una bella gnocca bionda e tu, inguaribile romantico, hai aperto sul file in attachment. Non solo ti ha fottuto tutta la memoria, ma lo hai spedito in automatico a ogni indirizzo della tua rubrica. Si chiamano virus fantasma che partono da un ceppo iniziale, Melissa appunto, rappresentato dall’avatar di una bionda con un giubbotto rosso. Lo ha inventato un programmatore di New York, certo David Smith, che ha usato la foto di una sua amica spogliarellista, conosciuta in Florida, per diffondere l’epidemia informatica in tutto il mondo. E’ cominciata l’anno scorso, a metà dicembre, quando lui da casa sua, un appartamento di New York, ha contattato i primi newsgroup di America on line senza autorizzazione. Da lì, dal colosso degli Internet provider statunitensi, Melissa si è trasmesso in tutto il mondo e si è replicato in tre forme ‘fantasma’ in grado di resistere ai più tenaci antivirus. Caro mio, è ora che molli il tuo miserabile Norton…”
Lo so, la domanda non aveva senso. Eppure non resistetti, intanto il cinese non poteva capire.
“Scusa, amico, ma sei in grado di stabilire il giorno esatto in cui Melissa è arrivato in Italia?”
La risposta, scandita con tono quasi divertito, mi prosciugò all’istante l’interno della bocca. Una delle rarissime volte in cui ho provato l’autentica paura.
“Certo, anche perché è una data storica nel nostro ambiente. Il 29 dicembre dell’anno scorso. Posso anche dirti l’ora della prima infezione: le 5,20 del mattino. Mica male, eh, come memoria?”