di Igino Domanin
Preparo un filetto Stroganov. Si tratta di una antica ricetta russa settecentesca. Figura da sempre nei menu storici della cucina internazionale.
Gli Stroganov erano dei monopolisti. Ottennero il monopolio delle saline della Russia settentrionale. E quello delle pellicce e della pesca. Accumulano fortune oniriche. In seguito sfruttano i giacimenti minerari e le risorsa forestali degli Urali. Diventano talmente potenti che possono battere moneta in proprio. Lo zar è strozzato dai debiti che deve contrarre verso di loro. Gli Stroganov sono una potenza temuta in tutta Europa anche per le loro manovre finanziarie.
Lo zar deve tenerli buoni. Hanno gusti difficili. Sono arroganti. Me li immagino con i baffoni biondi e la facce leonine. Una cresta di capelli troneggia sulle loro teste. Sono commensali irritabili. Per questo motivo lo Zar ordina ai cuochi della sua corte di cucinare il manzo in modo assolutamente speciale. In questo modo nasce la ricetta che devo eseguire. Ho comprato nei giorni scorsi tutti gli ingredienti necessari.
Mi preparo sempre con minuzia in vista della esecuzione di un piatto. Non mi fa piacere dividere la mia cena con nessuno. La mia gozzoviglia deve essere intima e segreta. Trovo riparo alle asperità della vita rifugiandomi nell’intimità delle mie barriere narcisistiche.
Il filetto è la parte più tenera del manzo perché è un muscolo che, data la sua posizione nel quarto posteriore, non lavora molto e quindi non si indurisce. Prima di essere cucinato deve reso più sapido. Lo metto a marinare con vino, alloro e timo per un paio d’ore.
Dopo essere tornato a casa me lo sono ritrovato davanti. Il filetto giaceva tiepido e ammorbidito nel piatto. Il vino lo copriva quasi interamente. L’ ho estratto e l’ho posto con cura sopra un tagliere di plastica ben lavato. Il colore della carne era sanguinolente, ma lucido. Sono circa 250 grammi di polpa prelibatissima. Agito e roteo il coltello con euforia. Per poi affondare nel manzo e cominciare a trinciarlo. A ricavarne delle strisce più o meno regolari di 5 o 6 centimetri di lunghezza. La larghezza non deve mai superare il mezzo centimetro. L’olio bolle nel tegame, fa diventare bionda la cipolla affettata. Così metto la carne nel tegame e gli aggiungo pure un po’ di funghi champignons. Devo far attenzione.
Faccio cuocere a fuoco vivo. Faccio saltare la carne sulla padella. Mentre con l’altra mano spargo il prezzemolo fresco e tritato. L’odore è forte, quasi toglie anche il respiro. Le mie mucose sono sature dell’aroma profondo e carnale che si respira in questo momento. Poi abbasso la fiamma. Il fuoco diventa dolce. Finalmente un po’ di quiete. Lascio cadere nella cottura una manciata di cetrioli sott’aceto e tagliati a fettine, qualche cappero di Pantelleria, una punta di coltello di senape di Digione. Infine tocca alla farina. Adesso si tratta di rimestare. Bagno tutto col vino bianco secco, con il succo di limone e la panna. In pratica sto creando una salsa e tutto lo sforzo è per amalgamare la ricca varietà di ingredienti che sto utilizzando. La difficoltà maggiore è che tutto avviene senza posa, nel mentre stesso della delicata cottura.
La difficoltà del compito gastronomico mi affatica e mi avvince. Una cosa che mi ha sempre colpito è, infatti, la preparazione della salsa bernese. L’operazione compiuta a bagnomaria esalta la qualità di concentrazione e il controllo dei movimenti. Sono ricette che possono essere eseguite solo grazie al tocco del cuoco e non a una pura ripetizione meccanica dei passi indicati.
In cucina non si tratta di algoritmi.
Sono alla fine, anche se un po’ spossato, devo mantenere l’attenzione su tutto il procedimento. Il risultato finale non può essere messo in questione da una mia colpevole disattenzione.
Possono passare solo pochi minuti. Il filetto deve restare morbidissimo. Mentre la carne è già cotta e deve essere messa a riposare in un piatto, pur mantenendosi tiepida, si tratta di passare rapidamente il sugo di cottura, in modo da ottenere una crema di condimento.
Sono pronto. Servo tutto assieme la carne, la salsa, e una dose di riso pilaf preparata appositamente. Ci bevo sopra un vino importante e tannico. Allappante. Una bottiglia di Amarone.
Nel cd suona un cd di Dean Martin. In particolare ascolto in loop la sua versione di Gentle on my mind. La sua voce torbida, ammiccante e ubriacata dal whisky, mi colpisce per gli accenti tonici che in grado quasi soltanto di soffiare nel microfono. Si avverte una disperazione sottile e sopra le righe. Una angoscia espressa per understatement.
Vivrei così per secoli. Imbambolato davanti a una tavola che io stesso ho imbandito. A masticare carne tenera. A bere vino rosso che imbestialisce il cuore, ma non lo turba. Lo altera, lo infartua. Ma senza clamore, senza strappi inopportuni.
Sono sprofondato in un sonno irrimediabile. Mentre il cd continua a girare. Stavolta tocca a una raccolta di Gilbert Bécaud in italiano. Sono canzoni tratte da uno show televisivo con Gino Bramieri e Sylvie Vartan. Un programma che avevo visto da bambino. Su un canale satellitare avevo seguito la replica integrale di Rischiatutto. Ogni giovedì sera guardavo la nuova puntata. Come se ciò che era avvenuto nel 1972-73 tornasse di nuovo a svolgersi. Mi mettevo davanti allo schermo con la stessa sorpresa ed ansietà di quando ero bambino. Avevo dei ricordi che si erano fossilizzati ed ancestralizzati. Qualcosa mi era rimasto addosso di quelle trasmissioni. Ma non potevo nominare alcuna sensazione. Rivedendo il programma ero attento ad ogni particolare ad ogni sfumatura. Ero colpito dalla figura di Massimo Inardi il supercampione esperto di parapsicologia. Scoprii in seguito che anche il mio promotore finanziario guardava la trasmissione.
Le canzoni di Bécaud mi frullavano in testa. Mentre cominciarono a chiudersi le palpebre. Poggiai il bicchiere vuoto di Ron Demerara sul tavolino in plexiglas a fianco del mio divano.
Dopo un po’, probabilmente, devo aver cominciato a russare. Sognai di essere seduto a un tavolo da gioco. Ero in un casinò molto elegante. Mi trovavo in Mitteleuropa. Fumavo sigarette inglesi, sulla cui marca era impressa l’etichetta regale, erano piene di nicotina e assai aromatiche. In bocca sentivo ancora il sapore spiccato di un Black Russian che avevo ordinato al bar. Mi ero procurato del denaro in modo truffaldino.
[da “Gli ultimi giorni di Lucio Battisti”, peQuod]