[Una delle molte, incomprese leggi che governano l’intelligence prescrive che le cose devono essere chiare, devono essere fatte alla luce del sole. Quando tutto è palese, nessuno se ne accorge. In questo senso è indicativa la pubblicazione sul Corriere della Sera, a tutta pagina, di questi consigli che l’ex dirigente CIA Robert Baer suggerisce di attuare al neodirettore della Agency, Porter J. Goss. Conviene archiviare: magari, ottenuto l’effetto, l’interessante saggio non lo si trova più. gg]
Sono stati tre anni difficili, sig. direttore. La Cia ha sbagliato sulle armi di distruzione di massa in Iraq, calcolato male il rischio di resistenza armata all’interno del Paese, alcuni la ritengono la prima responsabile di una guerra inutile e costosa per gli Stati Uniti. Molte critiche sono esagerate e molte sorvolano su fallimenti del governo ugualmente gravi. Eppure, la Cia è evidentemente allo sbando e lei ha l’opportunità di rimetterla in pista. Prima di tutto, eviti due trappole: non pensi che il recente, e assai discusso, piano di riforma dell’agenzia metterà le cose a posto. Come lei sa, un rimpasto ai vertici della comunità dell’intelligence non riuscirà a migliorare le prestazioni della Cia. E non sprechi tempo nella battaglia per la sua nuova squadra di comando. La maggior parte dei membri del team sarà destinata ad altri incarichi prima di impadronirsi dei segreti dell’attività di reclutamento dell’intelligence. Tutto l’apparato direttivo ha bisogno di una riforma ma il primo obiettivo dovrà essere la trasformazione della Direzione Operazioni (DO), la cui missione – reclutamento e addestramento di spie straniere – dovrebbe essere l’attività cardine dell’agenzia. Se la Direzione avesse avuto a disposizione una fonte vicina a Osama Bin Laden, non ci sarebbe stato l’11 settembre. Ecco i miei consigli.
Riformare il sistema delle promozioni. Secondo il vecchio regolamento della Direzione, il solo modo di ottenere una promozione per un agente era reclutare fonti, le migliori. Portare un sovietico in squadra era la via più sicura per arrivare al senior service. Ciascun membro era tenuto a reclutare almeno una fonte di valore per ogni trasferta estera biennale. Non era facile ma le prospettive garantivano la motivazione degli agenti.
Poi la Guerra Fredda è finita e l’attività di reclutamento è passata in secondo piano. All’interno della Direzione, le promozioni sono diventate più facili per quanti raramente lasciavano Washington. Anziché avvicendarsi sul campo, gli agenti erano incoraggiati a cimentarsi in operazioni all’esterno della Cia, ma sempre al sicuro all’interno della cintura di Washington – al Pentagono o al Consiglio per la Sicurezza Nazionale, ad esempio. Jim Pavitt, a capo della Direzione ai tempi dell’11 settembre e della guerra in Iraq, non prestava servizio fuori dagli Stati Uniti dalla metà degli anni Ottanta.
Per gli agenti semplici, il messaggio era inequivocabile: non solo passare un po’ di tempo a Washington era il modo più rapido per scalare le vette dell’agenzia, ma reclutare spie – compito in sé rischioso – poteva mettere in pericolo la carriera. Non c’è da meravigliarsi che il numero degli agenti al lavoro per le strade di Beirut, Amman e Sarajevo si sia ridotto. I loro sforzi non erano ricompensati. Non c’è da meravigliarsi che la Cia non avesse fonti sulle armi di distruzione di massa in Iraq.
Conoscere le fonti. È necessario procurare alla Direzione credibilità sufficiente ad agire senza esitazioni. La Direzione non ha consentito che l’assenza di fonti credibili e inserite nel contesto territoriale iracheno le impedisse di fornire prima della guerra un costante flusso di intelligence, per lo più incentrato sulla tesi secondo la quale Saddam Hussein nascondeva ampie riserve di armi di distruzione di massa e progettava di costruire una bomba nucleare.
Purtroppo, la maggior parte di queste informazioni proveniva da esuli iracheni, gli stessi che avevano trascorso gli ultimi trent’anni a cercare di trascinare gli Stati Uniti in un conflitto con Saddam. Non ero più alla Cia all’epoca, ma scommetto che pochi degli analisti coinvolti fossero a conoscenza della provenienza di quei rapporti.
La soluzione del problema richiede un passo semplice ma essenziale: fornire i dati relativi a identità, contatti, dossier delle fonti ai senior analyst responsabili delle valutazioni conclusive. Se questo genere di informazioni fosse stato disponibile nella fase di preparazione del tristemente noto National Intelligence Estimate (NIE) dell’ottobre 2002 sull’Iraq, i destinatari del rapporto avrebbero saputo che erano iracheni in esilio – e non fonti obiettive – a sostenere che Saddam nascondesse armi di distruzione di massa. Il rapporto avrebbe avuto toni di gran lunga più misurati e oggi il presidente e il Paese avrebbero più fiducia nella Cia.
Integrare i database federali, statali e locali. A Washington non mancano proposte per una super agenzia antiterrorismo che vigili sull’applicazione della legge e miri a potenziare le banche dati dell’intelligence, ma con le proposte non si va lontano, soprattutto quando fuori ci sono schiere di difensori delle libertà civili pronte ad attaccare.
Il centro antiterrorismo della Cia lavora a questo da quando fu creato, venti anni fa, e non ha ancora trovato una soluzione al problema.
È importante comprendere come funziona il sistema, oggi. Se un agente sul campo scopre per caso il nome di un sospetto terrorista, può subito ricercarlo nei database dell’agenzia. Non potrà fare lo stesso con database gestiti dall’Fbi, dal Dipartimento per la Sicurezza Nazionale, dal Dipartimento di Stato o da qualsiasi altra agenzia federale. Per accedere a queste banche dati, l’agente dovrà fare una telefonata o inoltrare richiesta scritta. Lo stesso vale per gli agenti dell’Fbi o del Dipartimento di Stato che abbiano bisogno di consultare i file elettronici della Cia. Questa antidiluviana mancanza di integrazione ha avuto conseguenze tragiche. Poiché non aveva accesso ai database della Cia, l’Fbi non poté notare che due sauditi sul punto di entrare negli Stati Uniti erano sospetti terroristi. I due erano tra i 19 dirottatori dell’11 settembre. Comprendo il timore che si finisca a indagare su noi stessi anziché su di loro, ma i rischi di una intelligence scoordinata sono semplicemente troppo elevati.
Reclutare nei campus universitari. Sig. direttore, quando lei è entrato nella Cia nel 1962, l’agenzia reclutava attivamente ed efficacemente agenti nei campus universitari. Se uno studente eccelleva in una lingua oscura come l’uzbeko e manifestava il desiderio di servire il proprio Paese, c’era un’alta probabilità che un professore amico lo indirizzasse a Langley (sede della Cia, in Virginia, ndr ). Era un metodo che permetteva alla Cia di attrarre i più preparati e i più brillanti. La guerra del Vietnam contribuì a porre fine a questo sistema e si lasciò dietro una classe di professori ostili. Oggi, l’agenzia fa sin troppo affidamento sui volontari che bussano alle sue porte. Avere uno stand alle esposizioni per l’orientamento universitario non è come avere la consulenza di presidi e professori.
Anche un eventuale ripristino di sistemi informali di cooperazione incontrerebbe resistenze. Eppure, se si ristabilirà il collegamento con le più prestigiose università del Paese e i loro studenti, la ricompensa sarà grande. Oggi, la Direzione ha bisogno di sei anni per testare i nuovi assunti: un anno all’ufficio centrale, uno per l’addestramento, uno per lo studio della lingua, tre di viaggio formativo all’estero. Per quanti si dimostrano inadatti, non c’è che da spedirli a impieghi dove non possano far danni. Immagini quanto funzionerebbe meglio il sistema se la Cia identificasse i talenti da principio.
Abbassare l’età di pensionamento. Il reclutamento è un lavoro per persone giovani. Incontrare una fonte alle due del mattino ed essere al lavoro alle otto, logora. Un agente della Direzione che compia la maggior parte della carriera all’estero dovrebbe avere un periodo di autonomia effettivo di circa venti anni. Certo, alcuni di noi finiscono con il trascorrere la vecchiaia giù alla Farm (la Fattoria dove si svolgono le esercitazioni, ndr ) a istruire nuove reclute, ma il bisogno lì è limitato. Ciò di cui la Direzione non ha bisogno è una classe di agenti anziani raggrinziti che ostruiscono il sistema ai vertici. Portiamo l’età di pensionamento a 45 anni per chi lavora sul campo.
Smettere di contare su governi stranieri. Come l’acqua, gli agenti della Cia impegnati sul campo tendono a seguire il corso che oppone meno resistenza. Perché affaticarsi sul campo, quando si può andare a pranzo con un collega di qualche servizio di intelligence straniero, scambiare un plico di documenti e tornarsene in ufficio soddisfatti del lavoro svolto? Ancora meglio, lo «spionaggio da pranzo» non corre il rischio che un tentativo di reclutamento finisca male. Ma non è così che si mette in piedi una intelligence di serie A. Gli interessi dei governi stranieri raramente coincidono con i nostri. Nei mesi precedenti l’11 settembre 2001, la Germania, il Paese nel quale fu organizzato il complotto, era più concentrata sulla tutela dei diritti degli immigrati che sul modo di evitare un attacco agli Stati Uniti. Avremmo dovuto avere nostre spie nella cellula di Al Qaeda ad Amburgo.
Modificare il sistema di Security Clearance (autorizzazione all’accesso a informazioni segrete, ndr ) . Prendiamo un americano nato a Islamabad, cugino di secondo grado di un agente dei servizi di intelligence pakistani: le sue possibilità di ottenere l’autorizzazione ad agganciare l’agenzia sono vicine allo zero. Americani di terza generazione senza parenti stranieri che abbiano trascorso gran parte della vita all’estero hanno una chance in più ma il vantaggio resta limitato, soprattutto se gli anni di studio all’estero sono trascorsi in posti come Il Cairo.
Esiste sempre il rischio che lo studente del Cairo – che ha stretto legami affettivi in Egitto – passi dall’altra parte; Cia e Direzione, però, hanno un disperato bisogno di persone che parlino una lingua straniera e che conoscano parti del mondo fondamentali per gli Stati Uniti. Chiudere loro la porta è un autogol.
La Cia deve stabilire un sistema con distinti livelli di permesso. Un Livello Uno per gli agenti regolari, comprensivo di autorizzazione all’accesso a dati top-secret, macchina della verità ogni tre anni, controllo finanziario, capillare analisi di tutti i contatti stranieri. Se un agente di Livello Uno annuncia di voler sposare una russa con un cugino nei servizi di intelligence russi, gli si spedisca un bel regalo e tanti saluti.
Il cuore del nostro lavoro è mantenere dei segreti, e il modo migliore per farlo è isolare i custodi di questi segreti dal mondo esterno.
Il problema, in questi casi, è che le persone non imparano a conoscere il mondo. Ecco perché occorrerebbe creare un secondo livello di agenti della Cia: persone che passino la maggior parte della vita fuori dal Paese, che frequentino università straniere, sposino cittadini stranieri, abbiano figli non americani. In breve, persone che abbiano vincoli di fedeltà distinti. Avrebbero autorizzazioni limitate: nessun accesso ai rapporti della National Security Agency, nessun accesso ai sistemi satellitari avanzati, nessun accesso ai nostri segreti nucleari. (Lei conosce le implicazioni).
Perché fornire autorizzazioni di questo tipo? Per procurarci una finestra sul mondo. Poniamo che la Cia assuma un giovane cittadino americano che abbia studiato all’Università americana di Beirut, che sposi una ragazza saudita, che magari si converta all’Islam e si sposti in Arabia Saudita in cerca di lavoro. Dopo cinque o sei anni nel regno, parlerà fluentemente arabo e si muoverà in circoli ai quali i regolari agenti della Cia neanche possono avvicinarsi. Potrebbe addirittura agganciare qualche fondamentalista e reclutarlo come fonte. Una riforma di questo tenore altererebbe radicalmente i protocolli in vigore dal 1947, anno di fondazione della Cia. Sarà arduo scardinare il sistema, ma è fondamentale che la Cia decida di cambiare.
Reclutare agenti per il Dark Side. La Direzione ha bisogno di reclutare una terza categoria di agenti: quelli che aggirano la legge. Penso ai commercianti che vendevano petrolio rubato sotto embargo, che arrivavano a Bagdad negli anni Novanta e facevano le ore piccole con il figlio di Saddam, Uday. Immaginiamo che la Cia avesse avuto qualcuno vicino a Uday e che allo psicopatico fosse sfuggito che il papà aveva segretamente distrutto tutte le armi di distruzione di massa. Avremmo potuto evitare una guerra. Nessuna conta dei feriti da aggiornare, nessun pantano dal quale uscire.
Siamo entrambi consapevoli, sig. direttore, del vespaio che si solleverebbe nel caso in cui uno di questi tentativi di reclutamento fallisse. Sta a lei, però, dire a Washington quello che molte delle persone che la circondano esitano a dire: stiamo combattendo una guerra, non organizzando un incontro in parrocchia.