Quanti Marcello Pera esistono? Gianni Barbacetto ne individuava due, in quell’indagine felliniana che fu Campioni d’Italia (Tropea): un Pera giustizialista e un Pera garantista, uno che metterebbe alla forca i corrotti e uno che si frappone tra indagati e caramba. Oggi siamo in grado, senza neanche affidarci a capacità fenomenologiche particolarmente fini, di aggiungere altri due Marcello Pera a quelli scovati da Barbacetto. C’è un Pera laico, strenuo difensore del razionalismo di matrice anglosassone, che discetta in termini albionici di Hegel. E poi c’è il Pera di questo pomeriggio, ma anche di un po’ prima di questo pomeriggio: uno dei camerlenghi di Ratzinger, uno che dice che non va a votare al referendum nonostante sia la seconda carica dello Stato, uno che si scaglia contro il relativismo come se fosse lo Squartatore dello Yorkshire (e il relativismo e Pera stesso). In un contesto di assoluta disforia, Pera ha presentato questo pomeriggio, insieme a Vespa e Ruini, davanti ad Andreotti e Casini, l’ultimo libro di Ratzinger, asserendo che “l’aborto è un piccolo omicidio”, mentre il boss della CEI annuiva dicendo che non dobbiamo rassegnarci ai “piccoli omicidi”: è il primo passo ufficiale verso l’abolizione della legge 194. Cosa dobbiamo dire? Nulla. E’ meglio lasciare la parola a Barbacetto e fare la conoscenza degli altri due Pera, prima che diventino sei. [gg]
Quando Pera «lavorava» per la famiglia Berlusconi
di Gianni Barbacetto
Erano anni che studiava da ministro della Giustizia. Si era accuratamente preparato. Pregustava il momento. Aveva perfino già fatto sapere che, appena arrivato al ministero di via Arenula, per prima cosa avrebbe fatto cambiare la scrivania: non si sarebbe seduto a quella che fu di Palmiro Togliatti. Invece la politica italiana riserva sempre qualche sorpresa, così il professore si è trovato a essere il presidente del Senato, la seconda carica istituzionale della Repubblica. Ma quale Pera è andato da Lucca a Roma, ad accomodarsi tra i velluti rossi di Palazzo Madama? Sì, perché in realtà i Pera sono due. Il primo è un professore «giustizialista», che spara contro i politici corrotti e si schiera senza riserve dalla parte dei magistrati che fanno finalmente pulizia. Il secondo è un politico «garantista», che non perde occasione di bacchettare sulle dita i magistrati che si permettono di mettere sotto inchiesta i politici. Pera Uno inneggia entusiasta a Mani pulite. Pera Due è il castigamatti dei giudici. Per la giustizia ha una specie di ossessione e ripete, ogni volta che ne ha l’occasione, la sua ricetta: separare i pubblici ministeri (che indagano e rappresentano l’accusa) dai giudici (che emettono sentenze); e riformare l’obbligatorietà dell’azione penale, uno strumento da non lasciare tutto nelle mani dei pubblici ministeri, ma da affidare al Parlamento (o al governo, si vedrà). Un programma da ministro della Giustizia, che ha dovuto affidare ad altri…
Che siano due, a Lucca lo sanno bene. Il primo Marcello Pera nasce nella città toscana il 28 gennaio 1943, figlio di un ferroviere. Studia all’istituto tecnico, ma dopo il diploma va all’università e si laurea in filosofia. Il ragazzo ha stoffa, tanto che resta nell’università, fino a diventare professore ordinario di Filosofia della scienza. A Lucca abita in un appartamento senza pretese nel quartiere di Sant’Anna, fuori dallo splendido centro città contornato dalle mura antiche. Quando può, si ritira poco distante, nella campagna, dove ha una casetta nel verde. Non è uomo da vita mondana, Marcello Pera. Il massimo della felicità per lui è fare qualche viaggio, preferibilmente a Londra. L’accademia, però, gli va stretta: a Pera piace buttarsi nella battaglia politica, nello scontro, nella polemica. Si impegna nell’area laica, nel movimento referendario di Massimo Severo Giannini. E scrive. Polemista vigoroso, viene ingaggiato come commentatore dal quotidiano La Stampa.
Quando scoppia Mani pulite, non usa perifrasi: «Come alla caduta di altri regimi, occorre una nuova Resistenza, un nuovo riscatto e poi una vera, radicale, impietosa epurazione… Il processo è già cominciato e per buona parte dell’opinione pubblica già chiuso con una condanna» (La Stampa, 19 luglio 1992). Attenzione, non è Paolo Flores d’Arcais, il direttore di Micromega, ma proprio Marcello Pera: «I partiti devono retrocedere e alzare le mani… subito e senza le furbizie che accompagnano i rantoli della loro agonia. Questo sì sarebbe un golpe contro la democrazia: cercare di resistere contro la volontà popolare» (1 febbraio 1993). Pera Uno il giustizialista parla chiaro: «Il garantismo, come ogni ideologia preconcetta, è pernicioso» (29 marzo 1993). «I giudici devono andare avanti. Nessuno chiede che gli inquisiti eccellenti abbiano un trattamento diverso dagli altri inquisiti» (5 marzo 1993). A chi si permette di attaccare i magistrati, Pera Uno risponde con parole di fuoco: «No e poi no, onorevole Bossi. Lei deve chiedere scusa… I giudici fanno il loro dovere… Molti magistrati sono già stati assassinati per aver fatto rispettare la legge… Lei mette in discussione i fondamenti stessi dello Stato di diritto» (24 settembre 1993). Del resto, per il giacobino Pera, «la rivoluzione ha regole ferree e tempi stretti» (26 settembre 1993).
Ma al culmine della foga «giustizialista», di Marcello Pera Uno si perdono le tracce. Al suo posto compare Marcello Pera Due, che si schiera con Forza Italia, comincia una martellante campagna contro i magistrati e i «giustizialisti», definisce «golpisti» i pool di Milano e Palermo, chiede a Massimo D’Alema di «fermare i giudici». Con queste credenziali, Silvio Berlusconi è ben contento di poterlo annoverare tra i «professori» che si sono schierati con il suo movimento, contribuendo a far declinare l’immagine di Forza Italia «partito di plastica» nato da una raffica di spot. Al professore di filosofia con la passione per la giustizia, nel 1996 Berlusconi offre un collegio senatoriale, nella sua Lucca. Pera Due è sconfitto dal senatore locale, il ds Patrizio Petrucci, ma viene recuperato con i resti: così entra per la prima volta in Senato, dove diventa subito vicepresidente del gruppo di Forza Italia, ma soprattutto responsabile nazionale Giustizia del partito di Berlusconi. Con il collega parlamentare Marco Boato, Pera Due dà vita alla Convenzione per la giustizia, uno pseudo-partito che serve a far arrivare qualche miliardo di denari pubblici al quotidiano berlusconiano Il Foglio. Alle elezioni del 13 maggio 2001, Marcello Pera si è ripresentato nel collegio senatoriale di Lucca e questa volta è stato subito eletto: ha raccolto 4 mila voti più di Petrucci, azzoppato da Rifondazione comunista (che nel collegio ha ottenuto 8 mila voti).
Così per lui si sono riaperte le porte di Palazzo Madama: ma Pera non sapeva ancora che ne sarebbe diventato il presidente. Sempre con il pensiero rivolto a giudici e giustizia, aveva subito ribadito, per l’ennesima volta, i suoi propositi: nel giorno dell’anniversario della strage di Capaci, ricordando Giovanni Falcone, aveva dichiarato: «Lui era un grande che aveva visto giusto. Non gli piacevano pm e giudici uniti assieme in una sola carriera e non credeva più all’obbligatorietà dell’azione penale che, com’è oggi, è solo una presa in giro». è proprio per esternazioni di questo tipo che Pera Due era visto con preoccupazione dalla gran parte dei magistrati, che si aspettavano di vederlo insediato al ministero della Giustizia e temevano che arrivasse a intaccare l’autonomia della magistratura, tagliare le unghie alle procure impiccione, frenare l’azione dei pubblici ministeri.
C’è un precedente, in effetti. Un pesante intervento di Marcello Pera contro due magistrate milanesi colpevoli di indagare sul fratello di Silvio Berlusconi. Una storia di famiglia, che vale la pena di raccontare. La superpattumiera Cerro Maggiore è un paesone non troppo distante da Milano. Ma ormai il suo nome evoca soprattutto la vicenda intricata, sporca, interminabile, della discarica: una superpattumiera che per anni ha raccolto i rifiuti di Milano. La famiglia Berlusconi coglie l’attimo e apre una discarica, appunto, a Cerro. Qui per anni, grazie alla sponda politica fornita prima dai democristiani, poi dal presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, sono convogliati i rifiuti della grande Milano. Un’indagine della procura durata anni scopre che Paolo Berlusconi, fratello di Silvio e titolare della società Simec che gestisce la discarica, tra il 1991 e il 1996 ha realizzato guadagni favolosi: ha messo a bilancio ricavi per 243 miliardi; di questi, secondo i magistrati, almeno 150 sono soldi che la Simec ha sottratto dalle casse pubbliche: sono la differenza tra i miliardi incassati per lo smaltimento e l’effettivo costo del servizio. Per questo, Paolo Berlusconi sarà chiamato a rispondere dei reati di peculato e di corruzione. Poi, però, le ricche casse della Simec sono state prosciugate, con una serie di operazioni finanziarie (raccontate nel capitolo dedicato a Paolo Berlusconi) che sono costate all’imprenditore le ulteriori imputazioni di falso in bilancio, false comunicazioni societarie, frode. Ora le magistrate Margherita Taddei e Giulia Perrotti, coordinate dal procuratore aggiunto di Milano Corrado Carnevali, sono arrivate alla fine del loro lavoro. Ma c’è stato un momento, nell’autunno 2000, in cui tutto stava per saltare. è in quel momento delicatissimo che Marcello Pera è entrato a gamba tesa nella vicenda.
Più che un giallo, è un «giallino». Tutto comincia infatti con un bigliettino giallo, un post-it adesivo inserito nel fascicolo dell’inchiesta. La Simec, da cui titolari e prestanomi hanno succhiato tutti i miliardi incamerati negli anni, è restata una scatola vuota. Anzi, piena, ma solo di debiti. Il fisco, per esempio, pretende dalla Simec oltre 100 miliardi di tasse non pagate. A questo punto la società, che è già stata commissariata dai magistrati ed è nelle mani di un custode giudiziario, dovrebbe essere posta in liquidazione. Non ha dipendenti, quindi il fallimento non lascerebbe nessuno sul lastrico; ma sarebbe un disastro per Paolo Berlusconi, perché alle sue imputazioni (peculato, corruzione, falso in bilancio, frode) aggiungerebbe quella di bancarotta fraudolenta, un reato gravissimo, punibile con una pena fino a 20 anni. Berlusconi e il suo ambiente si mettono al lavoro per scongiurare il pericolo. Intanto, però, Fausto Bongiorni, il custode giudiziario della Simec nominato dal giudice per le indagini preliminari Rosario Lupo, permette lo svolgersi di una procedura assai strana: vende (con l’autorizzazione del giudice Lupo) una piccola parte delle quote societarie della Simec (il 5 per cento) al proprietario di fatto dell’azienda, Paolo Berlusconi, che se n’era formalmente liberato. è come vendere un corpo di reato all’imputato del reato medesimo, ma a Berlusconi serve: rientrato nella società che aveva spogliato, tratta con il fisco, salda i debiti e chiude la partita pagando 76 miliardi. Il pericolo di doversi caricare sul groppone anche il reato di bancarotta fraudolenta è scongiurato. Le due magistrate dell’accusa, Margherita Taddei e Giulia Perrotti, insorgono: il custode giudiziario Bongiorni ha permesso operazioni che non doveva permettere. Aprono un’indagine per abuso d’ufficio nei suoi confronti e chiedono al tribunale del riesame di bloccare l’operazione. A questo punto, per salvare Berlusconi, si scatena il finimondo. Pressioni. Interventi. Clima pesante. E scatta lo scandalo del post-it.
Il bigliettino giallo. Lo scoprono gli avvocati difensori di Paolo Berlusconi, dentro il fascicolo dell’inchiesta che era arrivato al tribunale del riesame. è un bigliettino giallo, su cui è scritto, a mano: «Cara Elisabetta, si tratta solo di 322 bis ordinanza Gip che ha accolto l’istanza del custode con parere negativo del pm e la dottoressa si è arrabbiata. Se ci sono problemi fai parlare il presidente con la dottoressa Taddei. Saluti e baci». L’ufficio del pubblico ministero e il tribunale del riesame non devono scambiarsi saluti e baci. Non devono affidare le comunicazioni a bigliettini informali. Non devono ipotizzare incontri risolutivi fuori dalle aule di giustizia. Immediatamente, l’avvocato di Berlusconi, Oreste Dominioni, firma un esposto di fuoco, in cui sottolinea la gravità dell’atto. Cita anche un documento di Bongiorni, che denuncia di aver subito «pesanti condizionamenti» da parte del pubblico ministero (Curioso: come mai l’avvocato dell’imputato Berlusconi ha a disposizione i documenti del custode giudiziario del tribunale?). L’obiettivo è chiaro: salvare Paolo Berlusconi dall’imputazione di bancarotta fraudolenta e strappare l’inchiesta a Taddei e Perrotti, due donne che hanno lavorato sodo per anni. Gli atti che hanno prodotto riempiono una stanza: se fossero affidati a qualcun altro che dovesse ripartire da zero, l’inchiesta sarebbe morta. Si mette immediatamente in moto una gioiosa macchina da guerra: avvocati, politici, giornalisti, membri del Consiglio superiore della magistratura (Csm).
Del resto, c’è un intero partito a disposizione della famiglia. Il Giornale (di proprietà di Paolo Berlusconi) scatena una campagna martellante, con lunghi articoli e piccati editoriali («Le tracimazioni della giustizia», firmato da Francesco Pintus, già magistrato a Cagliari). Al Csm si attivano subito i consiglieri del Polo Michele Vietti, Bartolo Gallitto e Mario Serio, che chiedono al Consiglio di mettere sotto inchiesta disciplinare Taddei e Perrotti. E anche Marcello Pera porta il suo sostanzioso contributo alla campagna: rivolge un’interrogazione al ministro della Giustizia Piero Fassino, chiedendo «un’azione disciplinare a carico dei pm» e comunque la loro «sostituzione, a titolo preventivo». Poi prende la mira e spara su di loro dalle colonne del Giornale: «La Taddei non conosce le regole elementari della sua funzione». «Quel pezzo di carta conferma una brutta tradizione milanese: i pm considerano i giudici come inservienti». «Io spero che le due pm si astengano spontaneamente; oppure che sia il loro capo, D’Ambrosio, a suggerire loro di astenersi. Insomma, ci vuole un segnale…».
Come va a finire? Il procuratore della Repubblica Gerardo D’Ambrosio e il procuratore generale Francesco Saverio Borrelli difendono le due magistrate. Taddei e Perrotti riescono a mantenere i nervi saldi. Ora la Cassazione, dopo il tribunale del riesame, dovrà decidere se era legittimo o no lo strano salvataggio della Simec permesso dal custode giudiziario. E il bigliettino giallo? Una semplice indagine interna ha appurato quanto segue: era stato scritto non dalla dottoressa Taddei, ma da un’impiegata; e non un’impiegata della procura, ma del tribunale del riesame, che si rivolgeva a una collega dello stesso ufficio. Nessuna pressione della procura sul giudice. Tanto rumore per nulla? Sì, ma l’attacco alle due magistrate solo per un soffio non ha ottenuto il risultato sperato dal fronte Berlusconi. Intanto Silvio è diventato presidente del Consiglio. E Marcello Pera presidente del Senato.