di Philippe Forest
[Il primo romanzo di Forest, Tutti i bambini tranne uno, è la storia autobiografica dell’ultimo anno che l’autore ha trascorso con la piccola Pauline, sua figlia, 4 anni, destinata dal tumore a una tragica scomparsa. E’ un libro toccante e profondissimo, scritto da uno dei migliori narratori contemporanei francesi. Lo ha pubblicato Alet, per la bellissima traduzione di Gabriella Bosco, al prezzo di 17 euro]
Io non sapevo. O meglio: non me lo ricordo più. Era una vita smemorata e quelle cose non le
vedevo. Vivevo in mezzo a parole — insistenti, insensate, sontuose, insolenti. Però me lo ricordo:
io non sapevo.
Ora abito quel punto del tempo. Ogni sera poso ritualmente il volume rosso sul tavolo di legno
che mi serve da scrivania. Faccio la somma dei giorni: aggiungo, tolgo, annoto, leggo.
“Tutti i bambini, tranne uno, crescono”, scrive James Barrie. Cominciano così le avventure di
Peter Pan. Come lettore, immagino subito un elegante quartiere di Londra, vaste residenze irreali
per troppa perfezione, aiuole luminose e curate. Wendy ha due anni. Si lancia tra le braccia
della mamma e le porge un fiore appena colto. A questo istante ne seguiranno altri eppure,
anno dopo anno, non si ripeterà mai più. Wendy ha due anni e ha già imparato il tic-tac rettile
del tempo. “A due anni tutti i bambini lo sanno. Due è il principio della fine.”
Lascia che ti ripeta le parole con cui cominciavano le nostre storie. Parlavano di giganti e di fate,
di pirati e indiani, lepri e folletti, lupi e bambine. La vita vera è più dolce per gli orchi che
per i bambini. È lei che sperde Pollicino in fondo al bosco e fa sparire i sassolini bianchi che
segnavano fra gli alberi la strada nascosta del ritorno. La vita vera divora Hänsel e divora Gretel,
o li incatena per sempre dentro una capanna infernale. Dimentica Raperonzolo in cima alla
torre. L’esistenza è una favola chiara e crudele, una leggenda con miniature grottesche. Nel
margine dei libri illustrati, indifferenti ai discorsi con cui ci rassicuriamo a vicenda, i diavoli
scandiscono le ore e le streghe preparano veleni. La nostra storia è una fiaba così, di terrore e
tenerezza, che si dice all’incontrario e comincia dalla fine: erano sposati, vivevano felici e contenti,
avevano una bambina… E poi tutto ricomincia perché, ascoltami, c’era una volta…
Allora, c’era una volta l’inverno scorso. Me lo ricordo: non sapevamo. E forse era meglio così. Meglio,
forse, che non sapessimo. L’ignoranza ci proteggeva. Ci teneva al riparo dal dolore. Ancora
non lo sapevamo ma le dovevamo ogni singolo giorno. Sapere ci avrebbe privati di questo dono.
Quell’inverno, insomma, fu l’ultimo. E assorbe nella sua luce tutto quello che è stato prima.
L’anno stava finendo. Come tutti, eravamo intrappolati nella nassa delle seccature di ogni giorno.
La vita ci avvolgeva con le preoccupazioni abituali. Però noi sapevamo che tutto questo non
contava. Eravamo noi tre insieme, come sempre. Pauline aveva appena festeggiato il suo terzo
compleanno. Poi, il giorno dopo, venne Natale. Lei aveva raccolto il suo bottino ai piedi dell’albero:
i libri che avremmo letto, i pattini a rotelle, le bambole. Quella mattina avevamo chiuso le
valigie ed eravamo partiti per la montagna. Avremmo fatto una vacanza nella casa della valle in
mezzo al bosco. Sonno e sole, di questo avevamo voglia. La vita ci avrebbe ripresi più tardi.
Aspettavamo la neve, che Pauline non conosceva ancora se non nella forma di quei vaghi fiocchi
che cadono ogni tanto su Londra o su Parigi. Eravamo stanchi di tutto quel grigio sparso
attorno a noi sui tetti e sui marciapiedi. Volevamo stordirci insieme di bianco, scivolare nella
luce aperta di un paesaggio di creste e di abeti. Ogni mattina ascoltavamo le previsioni del tempo
e ogni mattina si doveva rimandare la partenza per le vette. La stagione era irrimediabilmente
mite. Al primo segno favorevole contavamo di raggiungere la più vicina stazione di sci. Ma
il cielo rimaneva asciutto, chiaro, luminoso. Giocavamo intorno alla casa trascurando il grande
giardino, sciupato, devastato, con le aiuole fangose, l’erba congelata. Allontanandoci potevamo
solo passeggiare fino a stancarci. Il sentiero di destra passa tra la segheria e i prati. Non
prendiamo mai quello che, sulla sinistra, rasenta le ultime case del villaggio. Per il sentiero di
fronte ci s’inoltra subito nei boschi e presto si sale la montagna senza incrociare mai anima viva.
Si va nella rimessa a prendere il carroccio di legno. Si posa un bambino sul sedile e via, facendo
girare e stridere sull’acciottolato le grosse ruote cerchiate d’acciaio.
Ci eravamo messi in testa di trovare la neve. Non volevamo più aspettare: avanti, ora mantenete
la promessa. Avevamo preso la macchina nella stravagante canicola di dicembre. Pensavamo
bastasse salire in alto per sbucare prima o poi nel bianco. Alice aveva la carta stradale
aperta sulle ginocchia, ma conoscevo la zona abbastanza da poter guidare quasi a casaccio seguendo
il nastro di asfalto che scalava i pendii. Pauline era allacciata al suo seggiolino, attenta;
con un’occhiata nello specchietto retrovisore potevo verificarne la presenza. Per dieci volte
ci siamo fermati in villaggi uguali e sconosciuti. Ricordo quelle chiese le cui strutture in legno
sono barche capovolte finite lassù alla deriva, gli indecifrabili monumenti ai caduti, gli abbeveratoi
di pietra coperti di muschio. L’auto saliva di valico in valico. Nel tardo pomeriggio eravamo
sul punto più elevato. Intorno alla cima si disegnava una linea oltre la quale cominciava
la neve e noi l’abbiamo superata. La strada si allargava e qualche decina di metri più in là diventava
impraticabile. Le ruote hanno cominciato a slittare. Avendo quasi rinunciato a credere
alla neve, non avevo pensato di attaccare le catene. Il rombo del motore si faceva sempre
più forte, ma la macchina non riusciva a salire. Dietro di me, Pauline stava zitta zitta. Oggi ricordo
che, parecchio tempo dopo, avrebbe rievocato spesso quel momento al quale pareva
non aver dato alcun peso, agitata e divertita da quella piccola avventura imprevista.
Ho sistemato come potevo la macchina sul lato della strada ghiacciata, a distanza di sicurezza
dal fosso pieno di polvere. Abbiamo tirato fuori dal bagagliaio i doposci. Un sentiero seminascosto
saliva lungo il pendio. Nessuna orma ci precedeva. La neve era intatta, scricchiolante,
compatta sotto il piede. Dove era fresca si sprofondava fino alle caviglie. Gli stecchi si spezzavano
sotto i nostri passi e i cristalli posati sui rovi e i rami si sfacevano via via che avanzavamo.
Era una dolce distruzione. Fatti pochi passi Pauline si era stancata, e me la sono presa sulle
spalle. Cantavamo canzoni per bambini. Nel bosco si passeggia e si ride perché il lupo non c’è,
e siccome non c’è non ci mangia. Il sole era assai luminoso e allungava le ombre. Il sentiero si
perdeva poi tra le masse imbiancate che spuntavano lungo il pendio. Abbiamo spazzato via il
manto di neve sottile e labile da certe larghe pietre piatte. Ci siamo seduti tutti e tre. Poi, prima
di prendere la via del ritorno, abbiamo chiuso gli occhi al sole.