di Harry Crews
[Quello che segue è il primo capitolo di Lucidi corpi, il romanzo di Harry Crews – che sarebbe la trincia truce qui a sinistra – che Meridiano Zero manda in libreria a luglio. Di Crews, la casa editrice padovana aveva già pubblicato nel 2004 lo splendido La fiera dei serpenti]
La chiamavano Shereel Dupont, ma non era il suo vero nome; erano ormai tre mesi consecutivi che non le venivano le mestruazioni, ma non era incinta, e lo sapeva. No, la sua situazione era molto meglio e molto peggio di una gravidanza. In parte era dovuta – come il suo nome, che non era il suo nome – al fatto di pompar ferro e crepare di fame, non potendo mangiare che vitamine e polvere proteica e sogliola alla griglia senza né burro né sale. Ma era dovuto soprattutto a Russell Morgan detto Russell “Muscle”, ma soltanto alle spalle, mai in faccia. Russell era l’uomo che l’aveva scoperta, e allenata, e le aveva trovato il nome di battaglia, e l’aveva rivoltata come un guanto anche nel modo di parlare, obbligandola a perdere l’accento della Georgia nel mentre le imponeva di consacrarsi a quella forma fisica estrema che solo lui era capace di distinguere.
Non era un uomo di molte parole, ma aveva sempre detto chiaramente che era lui l’unico che doveva vedere, che doveva sapere.
Nella palestra, dopo la terza serie di distensioni dalla panca con sessantotto chili sul bilanciere (lei gareggiava con cinquantasei) i suoi pettorali, snelli e allungati come quelli di una nuotatrice, ma assolutamente definiti strato a strato come fossero stati incisi con l’acido, i pettorali sotto i seni di Shereel – i quali avevano le dimensioni di un uovo sodo – ardevano come fiamma. Ma non bastava ancora per appagare la visione segreta di Russell di quel che avrebbero dovuto essere. Non bastava mai.
– Un’altra serie, – le intimò Russell.
– Mi brucia – fece lei. – Cristo, brucia da matti.
Russell la guardò lì, ritta, il fiato rapido e corto, a soffrire tra i suoni degli altri culturisti che sbuffavano e grugnivano tutto attorno, il sibilo dei pesi di metallo che fendevano l’aria greve di pulviscolo sotto le luci fluorescenti.
Restò a guardarla mezzo minuto senza che il suo volto tradisse nulla, e poi: – Te lo dirò io quando ti brucia.
– Ma mi fa male, Russell, – fece Shereel.
– Te lo dirò io quando ti fa male.
E lei tornò a sdraiarsi sulla panca, sotto il bilanciere, per una nuova serie, per qualunque altra cosa le venisse richiesto di fare.
Be’, almeno dopo la gara di sabato sera l’aspettava una pausa, lontano dalla palestra fino a quando Russell gliel’avrebbe permesso. Avrebbe avuto modo di assumere più carboidrati, più calorie; e con il ripristino di un minimo di grasso corporeo sarebbero tornate anche le mestruazioni di cui, strano, sentiva la mancanza.
Scese dal letto dove si era coricata, sforzandosi di non sentire le grida e le risate stridule che salivano dalla piscina dell’albergo sotto la sua finestra e, nuda, andò a guardarsi allo specchio. Non credeva ai suoi occhi. Si voltò appena, attonita di fronte a quel fluido scivolare di muscoli, ciascuno ben appariscente e teso sull’ossatura fine.
Soltanto quando si trovava fra gli altri campioni – come quelli da basso, lungo il bordo della piscina, in attesa come lei in quest’ultimo giorno prima della gara – soltanto allora le sembrava possibile quel che stava vedendo. Nessun’altra donna nella palestra dove si allenava (l’Emporium of Pain, la “bottega del dolore” di Russell), nessun’altra donna della città dove viveva avrebbe mai potuto farle credere che aveva fatto questo a se stessa.
Solo nel momento in cui si riuniva con i misteriosi altri, tutti provenienti da città lontane, per mettersi tutti in posa seminudi davanti a un pubblico esaltato – era lì che capiva fino in fondo cosa voleva dire essere speciale, speciale nel suo sangue, nella sua carne, nel sudore e, soprattutto, nella sofferenza.
Un chiave grattò nel buco della serratura. Era Russell Morgan, un metro e novanta per centootto chili. A quarantacinque anni non era più competitivo, ma tuttora la vista dei suoi ottantaquattro centimetri di vita e centotrentadue di petto poteva provocare nella gente reazioni inverosimili, tipo finire fuori strada in macchina.
Indossava un paio di boxer da bagno ed era perfettamente glabro. Usava il Nair sul corpo perché senza peli si vedevano meglio le linee di separazione tra un muscolo e l’altro. Aveva i polpacci appuntiti, a rombo, e i grandi lobi del petto si stagliavano perfettamente distinti.
A quarant’anni, con l’arrivo di un’incipiente stempiatura, si era rapato a zero: e così era rimasto. O tutto o niente, quello era Russell Morgan. Esigeva da se stesso uguale disciplina che da quelli che allenava.
Si fermò sulla soglia a osservare Shereel, nuda davanti allo specchio. Teneva nella destra una bilancia pesapersone.
– Mi sembri su di peso, – le disse.
– Russell, io devo bere un po’ d’acqua, – rispose Shereel.
Lui guardò l’orologio. – Fra due ore potrai bere dodici centilitri d’acqua o succhiare quattro cubetti di ghiaccio, a tua scelta. Non sono un cerbero.
Si chiuse la porta alle spalle, si avvicinò a Shereel e depose la bilancia sul pavimento.
– Sono talmente secca che non riesco nemmeno a sputare, – disse lei.
– Ma a te non serve sputare, ti serve asciugarti. Asciugarti, asciugarti, asciugarti. Disidratarti. Se entri in gara a cinquantasei chili vinci a mani basse. E tu ci entrerai a cinquantasei. – Fece una pausa. – Sali sulla pesa.
– Oh, Russell – fece Shereel, ma obbedì.
Si chinò a guardare l’ago che oscillava. Lui restò immobile, gli occhi fissi sulla bilancia. Shereel vide irrigidirsi i muscoli sopra le spalle di lui, vide i tendini stagliarsi dietro il collo massiccio, e capì.
Con una voce atona, paurosa, ancor più raggelante proprio perché sommessa, Russell annunciò: – Oh, santa la Madonna, cinquantasei e mezzo. Quarantott’ore alla gara e ancora sei sopra di mezzo chilo pulito, miseria.
– Non ce la faccio, Russell.
– Rientrerai nel peso, invece. Ci sono qui io per fartelo fare.
Si avvicinò al condizionatore e spense la ventola. Quindi portò il termostato al massimo. Quando tornò da lei, si sfilò il costume.
Shereel guardò verso di lui, in basso. – Dio mio, Russell
Lui ribatté: – Il sovrappiù deve sparire.
Lei si sentì abbastanza sconvolta. Questo non era mai successo. Russell l’aveva già vista nuda. La doveva vedere nuda, per controllare i glutei, gli addominali bassi e come tutti i muscoli si raccordassero impeccabilmente, lo slancio, la simmetria ma questo, mai. La nudità di lui era nuova, e portò a ebollizione nel cuore di Shereel qualcosa che somigliava al terrore.
– Posso andare alla sauna, – gli disse. – Posso nuotare un po’ di vasche in piscina.
– Ma così ti vedrebbero, no? – ribatté Russell. – E io invece voglio che se la facciano addosso quando ti leverai l’accappatoio per scaldarti nel backstage prima della gara. Psicologia, bambina, psicologia.
Russell non permetteva mai a nessuno di vedere la concorrente della sua palestra fino al backstage poco prima dell’inizio della competizione. Lui aveva sempre fatto così quando gareggiava, e altrettanto faceva ora con i suoi allievi. Riteneva che li mettesse in una posizione di vantaggio.
Si avvicinò a Shereel e le prese la faccia tra le mani, mani talmente enormi che racchiusero la sua testa come un’arancia.
La stanza si faceva sempre più torrida e gli squittii e le stridule risate dalla piscina sotto la finestra diventavano più intensi con il calore. O così sembrò a Shereel, lì con la testa bloccata fra le mani di Russell. Che la faceva dondolare piano, con tenerezza.
Russell disse: – Lo devi considerare un allenamento. Me l’ha detto un mio amico, Duffy Deeter, e ormai ci credo. Scopare è solo una forma di allenamento come un’altra.
– Russell, io
Lui la scrollò: non con violenza, ma neanche dolcemente. – Tu, non parlare. Ascolta. In questa cosa devi metterci il cuore. Il tuo cuore. Devi lavorare. La vuoi, quell’acqua? Vuoi un bel cubetto di ghiaccio da succhiare? Sono per te, se te li guadagni. O te li guadagni o non li avrai.
E così, nel vapore della camera del Blue Flamingo Hotel al centro di Miami Beach, diedero il via a una bizzarra danza che aveva come meta dodici centilitri d’acqua: contorsionismi e piegamenti accompagnarono una serie di spinte violente che fecero squillare la testa di Shereel come un campanile. Russell la maneggiava agevolmente, come se fosse stata una bambina, e nel frattempo continuava a incitarla: – Lavora, cristiddio, lavora!
Ma per quanto ci s’impegnasse, riusciva solamente a pensare che la sua mammina e il suo paparino, nonché i suoi due fratelli, sua sorella e l’ex fidanzato – il quale forse era ancora il suo fidanzato – stavano arrivando in auto dal Sud della Georgia per assistere alla competizione del prossimo weekend. Non l’avevano mai vista posare e non capivano la cosa, ma avevano visto le foto di lei in altre gare che gli aveva spedito, ed erano incuriositi, e le volevano bene.
E tuttavia pian piano, gli sciaguattii della piscina nella sua mente si trasformarono in dodici ciccì di acqua fresca, e il bicchierino sciacquò via le immagini dei suoi parenti e di quello che Shereel stava facendo lì, sul letto già sfondato dai formidabili affondi di Russell che le si piantava dentro. Lui era già madido di sudore quando Shereel andò palesemente e totalmente fuori di zucca e il suo corpo mostrò i primi lievi segni di umidità.
Schiantarono gran parte dei mobili della stanza, con Russell che sbuffava e urlava come un pazzo. – Sei una campionessa, perdio! Lavora! Butta giù peso! Snellisci!
Dato che le sue assunzioni di fluidi erano monitorate con fanatico zelo, Shereel non avrebbe mai creduto di poter sudare come stava facendo: ma quando andarono a finire sul pavimento tra le macerie dal tavolino scheggiato, era più bagnata di Russell. Ed era stato lui a cedere per primo, ansando. Sanguinava dai lunghi graffi sottili che gli solcavano la schiena e le gambe. Dalla possente muscolatura delle spalle spuntavano delle vesciche: vesciche che in seguito si sarebbero trasformate in brutte abrasioni. Ma Shereel era intatta, la pelle sottilissima più liscia e immacolata che mai. Perché in tutto quel torcersi e avvinghiarsi, in quel piegarsi e spingere, Russell aveva badato di non lasciarle nessun segno di lotta. Sarebbe stato folle deturpare la carne che aveva portato qui per conquistare il mondo.
– Basta, – sussurrò rauco, senza fiato. – Siamo arrivati dove dovevamo.
Ed era vero. Quando salì sulla bilancia Shereel pesava cinquantacinque chili e mezzo. Soltanto quando vide il peso si rese conto che per tutto il tempo in cui Russell l’aveva malmenata – voltandola e rivoltandola, mettendola a testa in giù, in piedi, sulla schiena, sulla pancia – solo che capì che non l’aveva mai baciata. Non che lo rimpiangesse questo no. Ma in vita sua non era mai stata scopata senza un bacio. (Suo fratello, per provocarla: “Lo sai perché non baci una vacca quando la scopi? Perché è un giro troppo lungo. Ahahah”.)
Russell sentenziò: – Puoi bere quindici ciccì d’acqua.
Lei si girò con la faccia tirata, i canini scoperti. – Voglio soltanto sei fetenti ciccì! E lascia il riscaldamento acceso.
– Oh, sssì! – urlò Russell. – Finalmente hai la tua faccia da gara.
Fu allora che la baciò: un lungo bacio che, senza che lui se ne rendesse conto, Shereel gli accordò senza ricambiarlo.