di Girolamo De Michele
[Autore del romanzo Tre uomini paradossali, pubblicato da Einaudi Stile Libero, Girolamo De Michele sta per uscire in tutte le librerie con Scirocco, per il medesimo editore]
Ci sono due argomenti tra i sostenitori dell’astensione al referendum sulla fecondazione assistita. Il primo è quello del realismo politico: difendo questa legge, e faccio la scelta più utile a mantenerla. Il secondo argomento è quello dei valori: la vita è un valore, anzi, IL VALORE, e sui valori non si vota. Ovvero: la vita non può essere messa ai voti. Questo secondo argomento, errato logicamente, infondato giuridicamente e pericolosissimo dal punto di vista etico e politico, va avversato non solo per le contingenti ragioni del referendum, ma anche per ciò che comporta. Provo a spiegare il perché.
Prendiamo sul serio l’argomento del valore. Esso si fonda sulla preminenza del valore etico sul diritto, ovvero sul convincimento che esistano dei valori naturali che, trasfigurati in diritti inalienabili, costituiscono dei punti fermi sui quali la scienza del diritto non può deliberare. È del resto vero che i «principî supremi» contenuti dalla nostra Costituzione, «non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale» (sentenza Corte Costituzionale n. 1146/1988). Si tratta di vedere se per la «vita» valga questa situazione.
Procediamo per gradi. Sulla vita non si può votare in senso assoluto o in senso relativo? È facile vedere che il primo corno del dilemma dev’essere escluso. Molti dei deputati favorevoli all’astensione fondata sui valori non hanno forse partecipato (pro o contro) a una votazione sulla partecipazione italiana alla guerra in Iraq? Ammettendo che l’embrione abbia dignità di persona (ma allora, domando sommessamente, perché nell’intero testo della legge il termine persona non è mai menzionato?), forse che alla stessa dignità non vanno equiparati i carabinieri, i civili iraqeni, i soldati della Coalition of Willings, i volontari sommersi (come Baldoni) o salvati (le due Simone)? Dunque, in alcuni casi, sulla vita si può votare, e infatti si è votato.
Un passo avanti. L’introduzione di pratiche sanitarie per i soggetti affetti da HIV non è una decisione avente per oggetto la vita? Non è con un voto che lo Stato delibera, attraverso una legge, il loro diritto al prolungamento delle aspettative di vita? E quando, per contro, un ministro della Sanità — Carlo Donat Cattin — si oppone alla spesa di fondi pubblici per i malati di AIDS, sostenendo che «l’AIDS se lo prende chi se lo va a cercare», non siamo in presenza di un non-voto sulla vita? Ma questo non-voto ha avuto ugualmente effetto sulla vita: quel ministro si è reso moralmente responsabile della morte di un numero di uomini e donne esponenzialmente più alto di quelli materialmente uccisi dal suo figlio terorista. Dunque, non è affatto vero che il non-voto non ha effetti sulla vita. Né è vero che la vita non può essere oggetto di voto: che ci sia o no un voto, non è vero che la vita è oltre il potere determinativo del diritto.
Da qui due nuovi argomenti: quello sostanziale (la vita come fondamento di un diritto alla vita e alla salute) e quello giuridico (il voto come processo performativo che interviene al termine di un processo deliberativo). Esaminiamo il secondo. Sostenere che ci sono argomenti sui quali in diritto sarebbe (o dovrebbe essere) ineffettuale è un argomento pericoloso. Chi lo fa proprio (da Oriana Fallaci a monsignor Maggiolini, per intenderci) dovrebbe avere l’onestà intellettuale di riconoscere nelle proprie categorie di giudizio quelle stesse categorie che abitualmente denuncia nel fondamentalismo islamico (controprova: perché non si chiede una teorica dichiarazione di voto a quegli esponenti dell’integralismo sempre presenti nei salotti di Vespa, Socci, ecc., tanto utili a recitare la parte del talebano in casa nostra?). È evidente che qui si presuppone un’autorità extra-giuridica che sospende l’esercizio del diritto in nome di un più alto valore. Con una contraddizione di non poco conto: che l’oggetto del referendum non è la natura, ma una legge istituita con un voto. Che della natura non si faccia oggetto di voto è pacifico: non si abolisce con referendum la fotosintesi clorofiliana. Altro è interpretare la natura per stabilire cosa da essa discenda. Senza interpretazione, se tutto ciò che è naturale va accettato come tale, dovremmo impedire per legge (o quantomento ammettere l’obiezione di coscienza del chirurgo) l’estirpazione del tumore maligno nel quale naturalmente evolvono lo 0.8% degli embrioni. La stessa dottrina della Chiesa afferma sì che la natura è valde bona, ma al tempo stesso creatura, dunque soggetta a corruzione: ciò che noi chiamiamo malattia, sofferenza, morte. Purtroppo l’eminentemente buon Creatore (se mai c’è stato) ci ha lasciati soli, almeno temporaneamente: forse è andato via, forse è troppo impegnato a dar vesti ai gigli e a nutrire gli uccelli per occuparsi di noi. Forse, più semplicemente, ha lasciato al nostro libero arbitrio la decisione. E la decisione sull’interpretazione, che necessariamente deve concretizzarsi in legge, o è frutto di un organo extragiuridico (un Consiglio notturno? Il Consiglio dei custodi dell’ortodossia, come in Iran?), o è l’esito di un processo deliberativo che si conclude col voto. Negare il voto come esito della discussione (un vecchio pallino del pensiero reazionario) significa vanificare la discussione stessa, trasformare la pluralità di opinioni in chiacchiera inconcludente. Ma se la discussione non è deliberante né costituente, a che pro attardarsi a discutere? C’è sempre una qualche battaglia del grano o un qualche piano quinquennale per la produzione dell’acciaio da realizzare, e com’è noto in silenzio si lavora meglio.
Ripartiamo allora dal il diritto alla vita, che si ritiene erroneamente essere naturale, dunque eterno. Ma questo diritto non esisteva al tempo in cui il Sovrano si arrogava il diritto di vita e di morte sui suoi sudditi. Il Sovrano non aveva alcun potere di impedire che la mortalità infantile nel primo anno di vita fosse del 50%, e che dei sopravvissuti solo la metà raggiungesse la pubertà. Non poteva impedire la morte delle partorienti per infezione o febbre puerperale, non poteva abolire per decreto regio le malattie infettive, era impotente rispetto alla morte per stenti o denutrizione all’approssimarsi della vecchiaia. Il Sovrano aveva solo il potere di morte sui sudditi sopravvissuti. Il diritto alla vita nasce con lo Stato moderno, cioè con l’affermarsi della vita stessa. Con la medicalizzazione della vita, che seleziona e riduce sino all’impercettibilità le malattie mortali; con i progressi nella prevenzione e cura, con la penicillina e gli antibiotici, con le vaccinazioni e i progressi tecnico-sociali delle strutture ospedaliere. Al tempo stesso, la vita viene inglobata nell’apparato amministrativo dello Stato moderno: il che significa, limitatamente al nostro discorso, strutture mediche in grado di vaccinare tutti i bambini, sistemi sanitari in grado di assistere (almeno in teoria) ogni cittadino, sistemi pensionistici, tutela della salute sul lavoro, ecc. È il bio-potere (da bios: vita). Tutto questo è ciò che, in termini pratici, chiamiamo vita: e tutto questo esiste in virtù di leggi degli Stati, e dunque di voti. Nello Stato moderno la vita esiste proprio perché sulla vita si vota.
Ho detto: vita in termini pratici. Ma vita è anche un concetto metafisico: la differenza tra il sasso, che sta, e l’essere umano, che non sta, ma è (è vivo). Tra lo spermatozoo e il feto ben formato, cioè divenuto corpo organizzato. Si dice: c’è vita sin dal concepimento. Ovvero, non c’è transizione ambigua o ininterpretabile tra la cosa (l’ovulo o lo spermatozoo) e il feto organizzato. Strana dottrina, da parte di chi crede (con Tommaso d’Aquino, e in tempi più recenti Maritain e Albino Luciani, futuro papa Giovanni Paolo I) che l’anima sia forma del corpo organizzato, dunque presente nel corpo solo della formazione degli organi (cioè dal quarto mese di gravidanza). Ma qui (dall’embrione per alcuni, dal feto organizzato per altri) siamo in presenza di un caso-limite del diritto: la coesistenza di due vite (due persone?) in un unico luogo (il corpo della madre). Caso-limite, perché il diritto si incentra sulla nozione di Individuo: ma l’individuo è, appunto un solo essere in un solo luogo. Prima ancora di sapere quando la cosa è, o diventa, persona, la questione fondamentale è: come risolvere i casi di incompatibilità tra due esseri presenti nello stesso luogo? A chi spetta la decisione, cioè il voto? Non ci sono che due alternative: o alla madre, come unico arbitro del proprio corpo, istituendo così una gerarchia giuridica tra un soggetto portatore certo di diritti inalienabili e un soggetto incerto o indeterminabile. O a un soggetto terzo: ma allora la gerarchia si sposta sul concepito, sul nascituro, rendendo di fatto la donna soggetto minore di diritto. E bisogna essere molto chiari, a costo di essere duri: se i diritti della donna sono subordinabili in determinati casi, allora non sono inviolabili: dunque la donna è sempre e comunque soggetto minore di diritto, che solo in deteerminati casi (non importa quanto estesi nel tempo) non è soggetta alla potestà altrui. Come nei western, viene reintrodotto il medico che, lavandosi le mani, chiede al marito: la moglie o il bambino? Ma non è proprio il cosiddetto Far West procreativo quello che i difensori della legge 40/2004 paventano in caso di vittoria del SI?