di Piero Brunello
[L’articolo che segue è apparso sul n. 297 – marzo 2004 – della rivista “A”. Credo sia interessante riproporlo, per gli argomenti che riporta circa l’uso della violenza quale risposta alla violenza delle istituzioni, secondo la visione di due fra i massimi esponenti del pensiero anarchico: Tolstoj e Malatesta. Su questo tema i due si ritrovano talora fortemente dissenzienti, pur concordando su alcuni punti. Per quanto ci riguarda verifichiamo come questa analisi della violenza portasse, più di un secolo fa, a riflessioni, dubbi e interpretazioni che sono tuttora nostri: anche se da allora altri elementi di dibattito, altre concrete esperienze, e nuove elaborazioni sulla psicologia dell’individuo ma anche delle masse, si sono sovrapposti. Si ringrazia la rivista “A” per la gentile concessione. (Vittorio Catani)]
Non si vede niente, solo la bandiera
L.N. TOLSTOJ, I diari
Lev Nikolaevic Tolstoj accennò all’anarchismo nel proprio diario per la prima volta nel gennaio 1889: «Gli anarchici hanno ragione in tutto, solo non nella violenza»(1). Lo scrittore aveva sessant’anni e, «deciso che scrivere capolavori narrativi è un peccato»(2), aveva lasciato da qualche anno alle spalle la letteratura per dedicarsi a temi politici e religiosi, spesso legati all’attualità.
Per quanto avvertisse una forte sintonia con l’anarchismo, Tolstoj sentiva una distanza incolmabile sull’atteggiamento nei confronti della violenza e nei confronti del Cristo dei Vangeli. Qualche mese dopo il primo accenno all’anarchismo, Tolstoj scrisse nel diario che i suoi critici lo accusavano di «insegnamento distruttivo e anarchico che essi dicono di Tolstoj, e dovrebbero dire di Cristo»(3).
Ritornò sul tema nel 1894, quando l’anarchico italiano Sante Caserio uccise il presidente della repubblica francese Sadi Carnot. Ciò che gli anarchici facevano era «tutto giusto», scrisse. Le loro idee cominciavano a «conquistare gli uomini», i quali «cominciano a credere di essere fratelli, a capire che non si può asservire il fratello, che bisogna aiutare il progresso, sviluppare l’istruzione, lottare contro la superstizione». E all’improvviso, ecco assassinii come quello di Carnot, «e tutto il lavoro va a monte». E’ giusto, come fanno gli anarchici, diffondere «l’idea dell’inutilità, del male della violenza statale», ma l’unica strada, annotò Tolstoj, è la «non partecipazione alle violenze e agli assassinii»(4).
Tolstoj vedeva discusse nel campo della politica due sole «vie d’uscita».
La prima, propria di nichilisti e anarchici, consisteva «nello spezzare la violenza con la violenza, con il terrore, con le bombe e la dinamite, con il pugnale», e in questo modo «sconfiggere, fuori di noi, questa congiura dei governi contro i popoli». L’altra soluzione era quella delle riforme: trovare cioè «un accordo con il governo facendogli delle concessioni e, partecipando a esso, pian piano sgrovigliare la rete che lega il popolo e liberarlo». Entrambe, scrive Tolstoj nel suo diario, «sono false». Nel primo caso, la violenza rende più forte la reazione perché si aliena l’appoggio dell’opinione pubblica, l’unica forza su cui contare. Nell’altro, i governi «concedono solo ciò che non intacca la sostanza»: attirano «i dissidenti», li rendono inoffensivi, e alla fine li impiegano «al servizio degli obiettivi dei governi, cioè dell’oppressione e dello sfruttamento del popolo».
La «via d’uscita» cui pensava Tolstoj era affidata alla coscienza dei singoli individui, e si basava sul rifiuto della violenza e della menzogna, sul pensiero indipendente e libero, e sulla non collaborazione con il governo. Si trattava di «combattere il governo con l’arma del pensiero, della parola, dell’esempio di vita, senza fare concessioni al governo, senza entrare nelle sue file, senza contribuire all’aumento della sua forza»(5). Se c’è qualche possibilità di «sbrogliare questa situazione paurosa, lo è solo grazie agli sforzi dei singoli individui»(6).
Non uccidere
Il 29 luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci sparò tre colpi di rivoltella al re Umberto I e lo uccise. Un paio d’anni prima era stata uccisa l’imperatrice d’Austria. Così erano morti lo zar Alessandro II, lo scià di Persia, il presidente francese. Invece di limitarsi a qualche riga nel diario, come aveva fatto dopo l’assassinio di Sadi Carnot, Tolstoj pensò a uno scritto per la stampa. Tra le sue carte si contano sette stesure diverse dell’articolo, con vari titoli, tra cui L’uccisione di Umberto, L’orribile equivoco, Di chi è la colpa? Il 31 luglio mandò l’articolo al suo segretario Chertkòv, ma tornò ancora sul testo per alcune correzioni prima che andasse in stampa(7). Il 7 agosto scrive nel suo diario di aver finito(8). Per titolo, sceglie uno dei comandamenti biblici, ma anche di Siddartha: Non uccidere(9).
Tolstoj classificava l’attentato di Monza come «uccisione di un re». Gaetano Bresci pensava la stessa cosa. Quando venne interrogato in carcere e gli fu chiesto «se riconosceva di aver ucciso Sua Maestà Umberto I», Bresci rispose: «Non ammazzai Umberto, ammazzai il Re». Di qui la risposta che diede quando gli fu chiesto «se si riconosceva autore di un delitto». «Dica fatto e non delitto», rispose Bresci(10). Neanche Tolstoj avrebbe parlato di «delitto», perché «delitto» è un’azione in contrasto con le leggi dello Stato, e Tolstoj riteneva che lo Stato non avesse titoli per giudicare, perché tutti i governi si fondano sulla violenza.
Era appena stato pubblicato, con molti tagli dovuti alla censura zarista, il romanzo Resurrezione, in cui Tolstoj affronta il tema della giustizia e del castigo, e fa vedere i tribunali come un mezzo per assicurare «il mantenimento degli interessi di classe»: «tutta l’opera dei tribunali è fatta soltanto di azioni insensate e crudeli», dice a un certo punto il protagonista. In Resurrezione, i personaggi che fanno parte degli apparati statali ed ecclesiastici, ministri, giudici, preti, poliziotti e carcerieri, sono tutti come quel vecchio generale incaricato della sorveglianza dei detenuti della fortezza di Pietroburgo, il quale esegue gli ordini «in nome dell’imperatore», «ritenendo che il suo dovere di soldato e di patriota fosse di non pensare affatto». Tolstoj racconta come il generale avesse fatto carriera: nel Caucaso, al comando di «un reparto di contadini russi coi capelli rasati, in uniforme militare, e armati di fucili con le baionette, aveva ucciso più di mille uomini che difendevano la loro libertà, le loro case e le loro famiglie»; più tardi aveva servito in Polonia, «dove aveva obbligato altri contadini russi a compiere le stesse imprese»(11).
Le leggi cui essere fedeli sono altre. Come scopre un po’ alla volta il protagonista di Resurrezione, la vera legge «è eterna, immutabile, urgente, scritta da Dio stesso nel cuore degli uomini»(12). E’ proprio perché si deve obbedire alla legge divina che viene negata qualsiasi altra autorità statale, politica, religiosa o di altra natura(13).
Come epigrafi all’articolo, Tolstoj sceglie alcune citazioni tratte dalla Bibbia e dai Vangeli, e precisamente la proibizione di usare violenza («Non uccidere»; «Giacché tutti quelli che prenderanno la spada, periranno di spada»), e il comandamento dell’amore («E dunque tutto quanto desiderate che gli uomini facciano per voi, fatelo voi pure per loro»)(14). Poi comincia denunciando la doppia morale, e quindi l’ipocrisia, che episodi come quello di Monza mettevano in luce. Se viene ucciso un sovrano in seguito a una congiura di palazzo, tutti lo trovano un fatto normale. Al contrario, un individuo come Gaetano Bresci, «senza processo e senza insurrezioni di palazzo», ammazza un re, ed ecco levarsi meraviglia e indignazione, come se re e imperatori «non avessero mai preso parte a degli assassinii o non avessero mai fatto ricorso o ordinato degli assassinii».
Riflettendo sull’uccisione di Umberto I, Tolstoj prima di tutto nega ai difensori dei re il diritto di giudicare e di condannare l’omicidio. Re, imperatori e presidenti di repubbliche, scrive, «da sempre si dedicano specificamente all’assassinio, tanto d’averne fatto ormai la loro professione»; non per nulla «han sempre indosso le uniformi militari e gli strumenti dell’assassinio le spade al fianco». Tra guerre ed esecuzioni capitali, i sovrani fanno ammazzare decine di migliaia, centinaia di migliaia, milioni di vittime: e tutto cìò viene considerato eroico. La parola «re» richiamava in Tolstoj termini come «menzogna» e «violenza». Nei suoi scritti politici degli anni Novanta, aveva mostrato come re e imperatori ingannavano i loro popoli scambiandosi visite, promuovendo manovre o parate militari, pronunciando brindisi patriottici e invocando il benessere e la pace e tutto ciò mentre organizzano «preparativi di assassinio»(15).
Ma guai a uccidere uno di loro. Invece di riconoscere di avere essi stessi per primi insegnato a uccidere, e invece di meravigliarsi «del fatto che tali assassinii siano tanto rari», «sono proprio costoro a sgomentarsi e a indignarsi se uno di loro viene assassinato». Se lo zar Alessandro II e re Umberto I non merìtavano la morte, commenta Tolstoj, «tanto meno di loro l’avevano meritato le migliaia di russi che morirono a Plewna, o le migliaia di italiani periti in Abissinia».
Uccidere i re è inutile
Nella seconda parte dell’articolo, Tolstoi si rivolge agli anarchici. Non lo fa direttamente, ma discutendo la validità e la legittimità degli attentati ai sovrani, nella convinzione che il gesto di Bresci fosse opera di un complotto di anarchicì che avrebbero colpito ancora.
Uccidere i re «per migliorare la condizione della gente» è prima di tutto inutile: come tagliare la testa dell’idra, sapendo che ne rinasce sempre una nuova. Morto un re, se ne fa un altro. E’ superficiale, osserva Tolstoj, pensare che uccidere un re sia «una via di salvezza dall’oppressione del popolo e dalle guerre che distruggono tante vite umane».
Non è questione di caratteri o di temperamenti personali. L’oppressione e le guerre non sono dovute alle scelte di un sovrano o di un capo di governo, ma dipendono «da un sistema sociale nel quale tutti gli uomìni son legati in tal modo gli uni agli altri, da esser tutti quanti in balìa di pochi o, più sovente, d’uno solo». Qualsiasi persona al posto di un re, educato egualmente a portare armi e organizzare parate, farebbe lo stesso. Del resto i sovrani non vedono alternative, dal momento che ogni volta che escono in pubblico sono accolti con entusiasmo. L’imperatore Guglielmo potrebbe dire «che i soldati devono uccidere per sua volontà persino i loro padri: e tutti gli griderebbero urrà!», o dire «che il Vangelo bisogna imporlo con un pugno di ferro: e subito un altro urrà!»; e così lo zar Nicola II «propone un infantile, stupido e bugiardo progetto per una pace universale, e intanto dà disposizioni per un aumento degli eserciti, e tutt’intorno a lui non vi è più limite alle celebrazioni della sua saggezza e della sua virtù».
Tolstoj ribadisce qui le sue idee sul potere, il quale si basa sulla passività e sull’obbedienza di quanti l’accettano, si sottomettono, lo legittimano, lo celebrano. Già in Guerra e pace si era interrogato sui motivi che avevano spinto milioni di uomini a muoversi da occidente a oriente al comando di Napoleone. Gli storici dicevano che le cause «furono l’offesa recata al duca di Oldemburgo, l’inosservanza del blocco continentale, l’ambizione di Napoleone, la fermezza di Alessandro, gli errori dei diplomatici, ecc. ecc.» Tali spiegazionì potevano sembrare convincenti ai contemporanei, ma per noi posteri, scrive Tolstoj, «è incomprensibile che milioni di cristiani si siano uccisi e torturati a vicenda perché Napoleone era ambizioso, Alessandro era fermo, la politica dell’Inghilterra era astuta e il duca di Oldemburgo era stato offeso». Anche ammettendo tra le cause della guerra il fatto che il duca si fosse sentito offeso, bisognava sempre spiegare perché migliaia di persone fossero venute «dall’altra estremità dell’Europa, abbiano ucciso o rovinato gli abitantì delle province di Smolènsk e di Mosca e siano state uccise da loro».
Alla base dei fenomeni storici, Tolstoj trovava le scelte del singolo individuo, in altre parole «il desiderio o il mancato desiderio di un qualsiasi caporale francese di contrarre una seconda ferma; perché, se egli non avesse voluto riaprire servizio e così avessero fatto due, tre mille caporali e soldati, tanto meno uomini ci sarebbero stati nell’esercito di Napoleone e la guerra non si sarebbe potuta fare»(16).
Le cause degli avvenimenti, riflette Tolstoj in Guerra e pace, sono infinite, minute, legate l’una all’altra, e ciascuna «influisce sulla massa restante dell’innumerevole totalità degli avvenimenti e delle cose» entro «un sistema, una rete fittamente intrecciata»(17). «Se Napoleone – insiste Tolstoj – non si fosse offeso dalla richiesta ch’egli si ritirasse dietro la Vistola e non avesse ordinato alle truppe di marciare innanzi, la guerra non ci sarebbe stata; ma se tutti i sergenti non avessero voluto contrarre una seconda ferma, anche allora la guerra non ci sarebbe stata». Gli atti di Napoleone o di Alessandro «erano così poco liberi quanto gli atti di un qualsiasi soldato che andasse alla guerra designato dalla sorte o reclutato». Perché si verificasse l’evento, era necessario che milioni di singoli individui, «nelle mani dei quali era la forza effettiva», seguissero i loro ordini(18).
Come nella favola, venuta meno l’obbedienza, il re sarebbe apparso nudo. Già negli anni Novanta, Tolstoj aveva mostrato i sovrani come gente che faceva cose stupide, le quali diventavano importanti e misteriose solo per l’obbedienza dei popolo. La folla vede «innalzare archi di trionfo», «passare della gente ornata di corone, di uniformi, di vesti sacerdotali», «accendere fuochi d’artificio, sparare il cannone, suonar le campane e la gente correr dietro alle musiche dei reggimenti», e risponde «con degli evviva o con un silenzio rispettoso». Guglielmo II aveva ordinato «un nuovo trono con ornamenti speciali»; poi, «vestito di un’uniforme bianca, di una corazza, di calzoni attillati, di un berretto sormontato da un uccello, e portando sopra tutto ciò un mantello rosso», sedeva nel nuovo trono e i sudditi, invece di trovare la cosa ridicola, la ritenevano uno «spettacolo molto imponente»(19).
Gli storici riportavano solo le azioni di uomini di Stato e di generali: per questo avevano una grande responsabilità nell’esaltare e nel far ritenere normale la violenza dei governi e deì sovrani. In Guerra e pace ci sono molte osservazioni ironiche su come gli storici spiegano gli avvenimenti(20). Attribuendo gli eventi collettivi al potere di pochi, essi tolgono ai singoli ogni capacità di influenzare la storia e quindi li assolvono da ogni responsabilità morale nella partecipazione ai massacri e alle guerre. Se gli individui non contano, non sono nemmeno responsabili(21). Ciascuno invece avrebbe dovuto provare gli scrupoli morali e i dubbi in cui si dibatte il principe Andrej: «Lo scopo della guerra è la strage. […] Ah, anima mia, in questi ultimi tempi mi è diventato penoso vivere!»(22). Nel 1905 Tolstoj avrebbe scritto nel suo diario che la storia insegnata nelle scuole era «la descrizione delle vite schifose dei vari furfanteschi re, imperatori, dittatori, generali: cioè travisamento della verità»(23).
Non occorre uccidere i re, conclude dunque Tolstoj nell’articolo sul gesto di Bresci, «ma smettere di sostenere quel sistema sociale che li ha prodotti». Si cominci a dire le cose come stanno. Si dica che l’esercito è lo strumento dell’omicidio in massa chiamata guerra; si dica che la leva militare è un modo per preparare l’assassinio. Ci si rifiuti di pagare imposte destinate all’esercito; ci si rifiuti di prestare il servizio militare: «e subito si vanificherebbe da sé tutto quel potere degli imperatori, dei presidenti e dei re che tanto ci indigna, e per il quale adesso si continua ad assassinarli».
Come negli altri scritti politici di Tolstoj, la conclusione è un appello: da un lato dire ai re che sono essi stessi degli assassini (Tolstoj riteneva che spiegandoglielo si potesse convincerli), e dall’altro lato «riflutarsi di assassinare su loro comando», impedendo loro di fare guerre e di uccidere.
Malatesta e Tolstoj
L’articolo di Tolstoj usci nel 1900 in una rivista russa pubblicata in Inghilterra(24). In quello stesso periodo alcuni anarchici italiani che risiedevano a Londra pubblicarono un numero unico sull’uccisione di re Umberto, dal titolo Cause ed effetti. 1889-1900. Errico Malatesta vi contribuì con l’articolo La tragedia di Monza(25). Alcuni passaggi fanno pensare che Malatesta conoscesse già l’articolo di Tolstoj, forse per il tramite di alcuni esuli russi che all’epoca frequentava. Tuttavia non è necessario pensare a una conoscenza diretta. Da alcuni anni sulla stampa anarchica italiana ed europea si discuteva di Tolstoj, del suo «anarchismo» e della sua dottrina della resistenza al male. Anche Malatesta era intervenuto in più di una occasione(26). Inoltre La tragedia di Monza si inseriva in una discussione molto aspra che aveva diviso gli anarchici italiani in esilio.
La mattina in cui arrivò a Londra la notizia dell’uccisione di re Umberto, un anarchico piemontese invitò a casa sua due compagni con cui si trovava spesso a giocare a carte: il giovane pittore Carlo Carrà e Mario Tedeschi, scappato dall’Italia dopo i moti del 1898 e proprietario della pensione presso cui erano soliti trovarsi. L’anarchico piemontese – così racconta Carrà – «aveva attaccati con un filo di spago al soffitto tanti bustini di gesso raffiguranti i diversi capi di Stato d’Europa: e salito sul tavolo con un temperino tagliò la corda che sosteneva quello rappresentante il re d’Italia. Il gesso cadde a terra spezzandosi ed egli come ebbro gridò: ‘E uno!’». Per segnalare il loro totale disaccordo, Tedeschi e Carrà scrissero un manifesto che «affermava l’inviolabilità della vita umana, di quella dei re non meno di quella di qualsiasi mortale» e lo distribuirono tra la comunità italiana a Londra, anche nel ristorante dove si doveva tenere la commemorazione ufficiale del re alla presenza dell’ambasciatore d’Italia. (Continua)
NOTE
(1) L. N. Tolstoj, I diari. Scelta dei testi, prefazione, traduzione e note di S. Bernardini, Garzanti, Milano 1997, p. 279 (12 gennaio 1889).
(2) V. Nabokov, Lev Tolstoj (1828-1910), in Id., Lezioni di letteratura russa, Garzanti, Milano 1994, p. 272.
(3) Tolstoj, I diari cit., p. 294 (27 ottobre 1889).
(4) Ibid., p. 365 (18 agosto 1894).
(5) Ibid., pp. 373 374 (7 febbraio 1895).
(6) Ibid., p. 445 (13 marzo 1900).
(7) L. Tolstoj, Perché la gente si droga? E altri saggi su società, politica, religione, a cura di I. Sibaldi, Oscar Mondadori, Milano 1988, p. 247.
(8) Tolstoj, I diari cit., p. 448 (7 agosto 1900).
(9) Ne Le confessioni, scritte tra il 1879 e il 1882, Tolstoj ricordò l’importanza del Buddha nella propria esperienza interiore (L. Tolstoj, Le confessioni, a cura di M. B. Luporini, Rizzoli, Milano 1979, pp. 88 90); nel 1886 iniziò a scrivere un breve testo sulla vita del Buddha; negli ultimi anni di vita inserì nel Ciclo di lettura i dieci comandamenti delle osservanze etiche buddiste, il cui primo è «Non uccidere, rispetta la vita di ogni vivente». Cfr. P. C. Bori, Tolstoj oltre la letteratura (1875-1910). Antologia a cura di A. Cavazza, Edizioni Cultura della Pace, San Domenico di Fiesole (Firenze), 1991, pp. 19, 80.
(10) Le citazioni, dal «Corriere della sera», sono riportate, senza data, in A. Petacco, L’anarchico che venne dall’America. Storia di Gaetano Bresci e del complotto per uccidere Umberto I, Mondadori, Milano 2000, p. 196. Si veda anche G. Galzerano, Gaetano Bresci. La vita, l’attentato, il processo e la morte del regicida anarchico, Galzerano, Casalvelino Scalo (Salerno) 1988.
(11) L. N. Tolstoj, Resurrezione. Introduzione di E. Bazzarelli. Traduzione di C. Terzi Pizzorno, Rizzoli, Milano 1992, pp. 362, 299.
(12) Ibid., p. 391.
(13) Cfr. T. Hopton, Tolstoy, God and Anarchism, «Anarchist Studies», vol. 8, 1 (marzo 2000), p. 48. Vladimir Nabokov fa la medesima osservazione a proposito del romanzo Anna Karenina, composto tra il 1873 e il 1877, prima degli scritti politici di Tolstoj: «Le leggi della società sono temporanee; quelle che interessano a Tolstoj sono le eterne esigenze della moralità» (Nabokov, Lev Tolstoj cit., in Id., Lezioni cit., p. 180). Sul percorso filosofico religioso di Tolstoj, vedi Bori, Tolstoj cit.
(14) Le citazioni da Non uccidere sono secondo la traduzione di Sibaldi in Tolstoj, Perché la gente si droga cit., pp. 248 256.
(15) L. Tolstoi, Cristianesimo e patriottismo, Max Kantorowicz editore, Milano 1895 [la cit. è a p. 61]. In questo, come in altri casi, mantengo «Tolstoi» in luogo di «Tolstoj», come nell’originale.
(16) L. Tolstoj, Guerra e pace. Traduzione di E. Carrafa d’Andria. Con un saggio di T. Mann. Prefazione di L. Ginzburg, III, Einaudi, Torino 1962, p.708.
(17) I. Berlin, Il riccio e la volpe, in Id., Il riccio e la volpe, Adelphi, Milano 1998, pp. 148 149.
(18) Tolstoj, Guerra e pace cit., III, pp. 708 709.
(19) Tolstoi, Cristianesimo cit., pp. 59 62.
(20) «In quel tempo c’era in Francia un uomo di genio: Napoleone. Egli vinse tutti dovunque, cioè uccise molta gente, poiché era molto geniale. E per una qualche sua ragione egli andò a uccidere gli africani, e li uccise così bene e fu così astuto e intelligente che, ritornato in Francia, ordinò che tutti gli obbedissero. E tutti gli obbedirono. Fattosi imperatore, di nuovo andò a uccidere gente in Italia, in Austria e in Prussia. E là pure ne uccise molti. In Russia però c’era l’imperatore Alessandro, che decise di ristabilire l’ordine in Europa e perciò mosse guerra a Napoleone. Ma nel 1807 a un tratto egli si fece amico con lui, e nel 1811 leticò di nuovo, e di nuovo essi fecero morire molta gente. E Napoleone condusse seicentomila uomini in Russia e s’impadronì di Mosca; ma poi improvvisamente fuggì via da Mosca, e allora l’imperatore Alessandro, aiutato dai consigli di Stein e di altri, coalizzò l’Europa per costituire una milizia comune contro il perturbatore della sua tranquillità» (Tolstoj, Guerra e pace cit., IV, pp. 1383 1384).
(21) Hopton, Tolstoy cit., p. 29.
(22) Il brano è citato da P. C. Bori, Introduzione, in L. Tolstoj, Guerra e pace. Prefazione di L. Ginzburg, I, Einaudi, Torino 1990, p. XLIX, per mostrare che la condanna della guerra e «la radicalità degli imperativi morali», che si trovano nell’ultimo Tolstoj, erano già presenti nel primo Tolstoj (ibid., pp. XLVIII-L).
(23) Tolstoj, I diari cit., p. 497 (6 marzo 1905).
(24) «La prima edizione fu quella dei Listkì svobodnago slova, n. 17, 1900. In Russia, Non uccidere venne pubblicato in brossura dalla casa editrice Obnovlenie, a Pietroburgo, nel 1906, con conseguente arresto del direttore editoriale N. E. Fel’ten, scarcerato dopo pochi giorni, ma con la condanna a pagar la considerevole ammenda di 1.000 rublie. La pubblicazione dell’articolo nelle Opere complete del 1911 (12 ed.) venne vietata dalla Suprema Camera di giustizia di Mosca» (Tolstoj, Perché la gente si droga cit., p. 247).
(25) E. Malatesta, La tragedia di Monza, in «Cause ed effetti. 1898 1900», numero unico, Londra settembre 1900; lo scritto è anche in Id., Scritti scelti, a cura di G. Berneri e C. Zaccaria, Napoli 1954, pp. 121 125 [NdC: a Monza fu ucciso Umberto I; Bresci si suicidò in carcere.]
(26) Tra gli scritti più recenti, rinvio a A. Salomoni, Il pensiero religioso e politico di Tolstoj in Italia (1886-1910), Olschki, Firenze 1996, in particolare pp. 175-223, e G. Berti, Il pensiero anarchico. Dal Settecento al Novecento, Lacaita, Manduria, Bari – Roma 1998, pp. 667-691.