di Enzo Rava
[Quella che segue è la prefazione che Rava ha appositamente scritto per il suo splendido super-reportage, Roma in cronaca nera, pubblicato nel 1987 e ora riedito da manifestolibri, con postfazione di Giancarlo De Cataldo, l’autore di Romanzo criminale]
Questo testo, pubblicato nel 1987, viene riproposto senza alcuna modifica, neppure quelle che parrebbero ovviamente opportune quali gli esiti di nuove indagini, le eventuali revisioni di processi o la ulteriore vicenda umana dei «personaggi»; e questo perché la raccolta delle storie di «nera» tra il ’45 e il ’75 — offerte dai cronisti d’allora come feuilleton ottocenteschi in stile più o meno giallo — è sottesa dalla opinione che quelle cronache abbiano fortemente contribuito alla assimilazione, alla acculturazione urbana di centinaia di migliaia di immigrati, in buona parte contadini meridionali; cultura che il grande processo di trasformazione del nostro paese da agrario-industriale a neocapitalistico andava anch’esso modificando da quella che era stata alla Liberazione — nel caso di Roma da cultura ancora provinciale se non «paesana» e comunque estranea all’illustre «centro» di nobili ruderi e palazzi del potere a quella propria di una grande città moderna. (Quest’ultima definizione, piuttosto ottimistica, è aperta a qualsiasi obiezione).
Un po’ fatuamente potremmo affermare che quelle storie di «fattacci», com’erano detti, furono in qualche modo «leggende originarie» quali per l’Urbe antica erano stati il fratricidio perpetrato da Romolo fondatore, lo stupro di Lucrezia poi nobilmente suicida, o la «molestia sessuale» di massa del ratto delle Sabine; il racconto dei quali passava da una generazione all’altra non come di delitti ma di «storia» della città. Analogamente la Roma di quel quarto di secolo implica, per non fare che qualche esempio, l’uxoricidio di Fiuggi, i «delitti del lago» e perfino quel caso Montesi che il tribunale ridusse a fanfaluca; del resto, il Rinascimento romano «fu» anche la decapitazione di quella povera figliola di Beatrice e l’Ottocento papalino è inconcepibile senza mastro Titta. Una città è la sua storia, e la storia del resto — senza arrivare alla drastica condanna di Shakespeare — comporta un faldone di delitti.
Di più, quel «testo originario», quella «genesi» culturale della Roma moderna, induce a considerare non pochi di quei crimini come dei paletti segna-sentiero, che scandiscono l’evoluzione dal «paesone» dell’immediato dopoguerra alla sfavillante, compiaciuta, consumistica, edonistica, egoistica città del boom, dell’illusione di uno sviluppo rettilineo sempre più ricco e felice, illusione che malgrado gli orrori del terrorismo brigatista dagli anni Settanta continuò ad autoalimentarsi su su per gli Ottanta — fino alla scoperta, alla vigilia dei Novanta, che s’era arrivati invece sull’orlo dell’abisso.
Ovviamente anche questa tesi non si postula come assioma, come canone interpretativo della «nera romana», ma come ipotesi per l’orientamento nel disordine criminale: sarebbe ridicolo sostenere che quei delitti fossero espressione specifica, «sovrastrutturale» della società di quel certo momento ma, a posteriori, è possibile leggerli anche così, e scoprire ben più che un semplice rapporto temporale tra l’epoca e il fatto, anzi, il fattaccio. Banalizzando: la vicenda del «mostro di Nerola» ci appare propria, tipica dell’immediato dopoguerra (oggi i ciclisti corrono piuttosto il rischio d’essere arrotati che rapinati e sepolti nell’orto di un contadino solitario), mentre nella società sempre più ricca i delitti diventarono sempre meno «volgari», dettati non da rozza fame ma dalle astute avidità proprie di una società già complessa; un caso come il «Montesi», altro esempio, non poteva venire elaborato in un ambiente «a-politico», ma soltanto in un quadro di sfrontate rivalità, di feroci trappole, di manipolazione dell’opinione pubblica e degli stessi media quale fu quello dello strapotere strabenedetto della Dc.
Certi delittacci romani, poi, erano «impossibili» nella «aristocratica» Torino o nella «europea» Milano d’allora (oggi, grazie alla vasta omologazione, è possibile tutto ovunque); mentre l’assenza stessa di un delinquere propriamente metropolitano come la scorreria gangsteristica quale già imperversava nel Nord opulento, ancora non poteva darsi nella Capitale non ancora «ricca» a sufficienza per indurla, e dove comunque la caratteristica, la tradizione della malavita, restava quella del bullo col coltello, ben lungi dalla «cultura alla Chicago», diciamo. Un Questore di Roma, ricordando la prima rapina motorizzata e omicida in città, che indignò perfino i delinquenti indigeni, dichiarerà in proposito: «Beh, fin’allora non avevamo avuto da occuparci che di scippi, furti d’appartamento, delitti passionali, squallidi sbuzzamenti di prostitute qua e là per ruderi e frasche, fu d’improvviso che…».
Questa interpretazione del delitto come «segno dei tempi» è favorita a Roma dal singolare intreccio tra crescita quantitativa della popolazione e passaggio — casuale e difforme — dalla cultura contadina a quella urbana; altrove questo stretta relazione tra sociologia e criminologia non s’è data, nelle città del Nord industriale la malavita organizzata e opportunamente armata dominò la scena già nei primi anni del dopoguerra facendo passare in secondo piano i tradizionali crimini d’una società da lungo tempo pienamente borghese (appare perfino bizzarro che i grandi quotidiani di quelle città pochissimo s’occupassero d’una mondana affogata in una loro roggia e scrivessero pagine su quella romana strangolata in una pineta); quando ci è capitato di andar rivisitando la «nera del triangolo industriale» siamo stati stupiti dall’aver trovato delitti «bellissimi godibilissimi» ( da un punto di vista «giallo», si intende), intricati che neanche la Christie e dei quali non avevamo saputo niente forse perché gli stessi cronisti locali li avevano considerati «roba d’altri tempi», inadeguati alla modernità meneghina..
Ma Roma infine divenne anch’essa grande città, anche se certo non «metropoli del Ventesimo Secolo», che è tutt’altra cosa; per quanto la sua metropolitana sia andata lentamente allungandosi ai quattro punti cardinali non è certo bastata a unificarla nel senso della modernità che Baudelaire cantava per Parigi; ancor oggi Baudelaire avrebbe una qualche difficoltà a «cantare» su questo spartito Monte Mario Alto, Monterotondo, Ladispoli. Ed anzi l’intera sterminata periferia..
In ogni caso la «nera» romana che aveva affascinato il pubblico per i suoi «misteri» (la maggior parte dei quali restati peraltro tali) dopo i Settanta non fu più caratterizzata dall’indagine poliziesca quale propria dello «whodoit», del «chi è l’assassino?», del giallo: rapidamente il pubblico divenne del tutto indifferente a chi potesse aver accoltellato quella mondana in pineta; dopo il quarto di secolo dominato da queste cronache, anche a Roma il delinquere venne egemonizzato dalla organizzazione imprenditoriale e politica, «capitalistica» diciamo, della «mala» gerarchizzata e ben ammanigliata. Nel giro di pochi anni la stampa offrì del resto ben altro sangue che quello del delitto «di spalla in prima» che era stato dei cronisti; e via via vennero indotte dal sistema sociale, o comunque commerciale, ben altre passioni che quelle per la nera. Oggi può fare una certa impressione apprendere in cui ci fu un tempo in cui tra il calcio e il delitto quest’ultimo era sempre in pole position, e che l’indice di gradimento del pubblico non riguardava passerelle di donnine nude in telequiz ma la passerella di ragazze che confessavano delitti altrui e mai una «verità» che combinasse con l’altra.
Quella prefazione resta dunque ai tempi della mondana nuda strangolata sul letto con la calza di seta, del ménage à trois presso Villa Borghese tra nobiluomo moglie e amante con tre cadaveri e decine di foto porno a documentare i precedenti viziosi, del «delitto o suicidio?» nella stanza chiusa in un albergo di Fiuggi. Raccontate con una miscela stilistica tra crime story novecentesca e feuilleton ottocentesco queste storie affascinavano il pubblico ancor quando il terrorismo già preannunciava ben altri orrori; e vale peraltro, tale prefazione del crimine «personale», come premessa all’esame condotto dal magistrato Giancarlo. De Cataldo della sociologia e «politica» della Roma delinquente dei successivi trent’anni, nella quale più che passioni di individui dominano tecniche «imprenditoriali»:
Passato remoto, ma non dimenticato: quei «delittacci» — in questo testo riportati quali allora furono presentati — sono restati «storia» o «leggenda metropolitana» del primo quarto di secolo del dopoguerra, al punto che chi li ha «vissuti» o è cresciuto sentendone raccontare, continua a portarsene dietro il ricordo come di «miti di fondazione» della Roma moderna. Probabilmente un ragazzetto d’oggi resta impassibile a sentir nominare la Ekberg nella Fontana, la carica di cavalleria a Porta San Paolo o addirittura Fabrizi, ma alle parole «Montesi» o «Fenaroli» reagirà come all’allusione ad un qualcosa di vagamente noto. Nel 2003/4 Rai Educational, il rigoroso ed elaborato canale culturale della Rai diretto da Giovanni Minoli, mandò in onda una decina di questi «casi», non semplicemente raccontando le vicende ma considerandole appunto come «picchetto del percorso» della storia cittadina; elaborati da Michele Buono e Piero Riccardi, che con pazienza avevano trovato anche testimoni contemporanei e documenti del tempo, quei filmati hanno trovato un pubblico vasto e interessato che in quella «rievocazione» (di vicende che per i più precedevano la nascita), aveva «riconosciuto» la storia, per quanto minore, della propria città.
Diamo atto che designare quel quarto di secolo «ornato» da quella «bella» nera come il periodo non solo della crescita quantitativa della capitale ma insieme della unificazione culturale dei «nativi» e degli immigrati, numerosi quanto quelli, può sollevare una ridda di dubbi e obiezioni. Già incerta può a qualcuno apparire l’affermazione che Roma abbia elevato alla cultura moderna i propri immigrati; infatti molti romani giudicano al contrario che la loro città sia stata drasticamente degradata dalla confusione di «culture» le più diverse che fra l’altro veicolavano a loro volta le più diverse permanenze d’altre svariate culture, si pensi al siciliano che importa a Roma «qualcosa» di arabo normanno o spagnolo, al pugliese che ci porta qualcosa di greco o albanese; al punto che, protesta «er romano de Roma», perfino della lingua, del dialetto della città, scrigno della sua storia, resta poco più che un po’ d’accento locale in un italiano minimale che è stato a sua volta inquinato dal «basic» dell’Impero.
Ci si può chiedere inoltre, più crudamente, che cosa significhi «cultura», romana o italiana, oggi che cineasti e scrittori un tempo dominanti dalla Capitale hanno ceduto il palcoscenico ad autori di serials e di trash vario. Ci si può chiedere addirittura in che senso Roma sia non soltanto ovviamente più grande, ma anche più città: essa è stata terremotata — durante, ma forse ancora più dopo l’immigrazione — dall’abusivismo, dalla fuga dal centro dagli alti fitti verso quei comuni, provinciali o regionali, che aveva in quegli anni lontani svuotato; per quanto si restituisca ed aggiunga splendore al centro urbano, le periferie vengono sempre più devastate dall’alluvione motorizzata e quel «romano de Roma» è più facile trovarlo all’anagrafe di Monterotondo o Anguillana, Ladispoli o sugli Albani che non a Trastevere, san Lorenzo o Testaccio. Per dirla spiccia, continua a essere in atto un gigantesco melting pot, ovvero, in veteroitaliano, un minestrone dagli ingredienti casuali che per conoscerne il sapore bisognerà attendere che prima o poi sia definitivamente cotto.
Ci permettiamo di lamentare che la sociologia, che un tempo in alcune università si proponeva come matrice della rivoluzione politica, poco si occupi di questa rivoluzione sociologica o che non riesca a portarne notizia al gran pubblico. Nel 1970, ovvero nel pieno di questa Roma in cronaca nera, Franco Ferrarotti pubblicava quel Roma da capitale a periferia che resta un testo storico: perché rivelava come Roma fosse accerchiata da un «immenso ghetto» di borgate, borghetti, baracche, come paradossalmente la «capitale» (dice meglio la maligna espressione «il Palazzo»), fosse polo di attrazione di centinaia di migliaia di persone alle quali non riusciva a dare un lavoro preciso e stabile, sicché «a cento anni alla breccia di Porta Pia, Roma è un paradosso socio-economico e politico»; Giorgio Bocca, drastico, riduceva tutto a «marciume eterno della Città Eterna».
Unificando le due tesi, si potrebbe dire che Roma portava sì a una qualche unità nella propria cultura ondate successive di immigrati, spesso analfabeti, ma si trattava sostanzialmente di «cultura di borgata»; il salto nella «modernità» come conseguenza del boom, del consumismo, della «internazionalizzazione» avveniva soltanto in qualche parte della città e in non molte teste: e oggi ancora c’è molto da «saltare».
Comunque, in qualche modo, quel pentolone è pur riuscito a fare una zuppa, se non ad omogeneizzare Greci e Normanni, Spagnoli e Albanesi, Sardi e Mori affluiti nel dopoguerra ( più o meno come nel corso dei secoli il pentolone «Italia» — pur sempre espressione geografica se non puramente letteraria — aveva portato alla convivenza Germani e Italici, Goti e Vandali, Bizantini e Celti); e a reggere, compito non più facile, alla propria elefantiasi autodistruttiva.
Quando da quella Breccia di Porta Pia i bersaglieri entrarono in Roma questa un grosso borgo di 213.233 abitanti, (qualcosa come uno dei suoi venti attuali municipi); alla fine del XX secolo aveva oltre due milioni e mezzo di abitanti. Diversamente da quanto si pensi, la maggiore immigrazione era avvenuta già nel decennio 1930-40, con oltre 350.000 persone, in quanto col fascismo si era ulteriormente dilatata la principale «industria» capitolina, la burocrazia; nel decennio successivo la città ne ricevette altri 200.000; negli anni della nostra «nera» gli immigrati furono 245 mila tra ’50 e ’60, altri 155 mila nei due soli anni successivi — e fermiamoci con le noiose cifre a questo 1962, più o meno alla metà, diciamo, dei nostri trent’anni di feuilleton; senza dimenticare che l’assimilazione ha ovviamente tempi più lunghi dell’inurbamento: comportava, dopo l’approdo a Termini, la sfibrante ricerca di una baracca in una borgata o in un borghetto o addirittura la costruzione di una bicocca in aperta campagna. Quei centri abitati erano inoltre soltanto «dintorni» della città, chi ne partiva, pedibus calcantibus, tramvai o auto di fortuna, per il Palazzaccio o i Mercati generali diceva «Vado a Roma»: una parte in crescita esplosiva di Roma ne restava — materialmente e figuriamoci culturalmente — un «altrove» anche topografico, un assoluto «altro».
L’assorbimento prima, ma presto anche la assimilazione degli immigrati in cives romani era d’altra parte comunque più facile che nel Settentrione del paese perché gli « stranieri» erano in buona parte vicini di casa, quasi parenti, e solo in numero minore «barbari» da terre incognite, (come al Nord furono invece considerati a lungo «tutti quelli da Roma in giù», (grazie a ulteriori processi della evoluzione umana, in particolari cervelli transpadani si è arrivati a giudicare Roma stessa estero), al punto che quanti si fecero addirittura operai nella operaia Torino faticarono un decennio a essere riconosciuti come compagni da chi gli lavorava a contatto di gomito alla catena di montaggio, per non dire quanto faticarono a farsi aprire quei portoni che esponevano sprezzanti cartelli di «non si affitta ai meridionali». Nella capitale invece, forse anche perché mai si poté parlare di un «sangue romano» (molte famiglie nobili lo avevano magari «blu» ma certamente gallo o goto), non ci fu disprezzo razzista verso quegli estranei; curiosamente, anzi, i romani de Roma sfottevano più chi veniva da qualche decina di chilometri, il burino, che non il cafone dell’estremo Sud.
Prendendo un decennio «medio» della nostra storia «nera», il 53-62, si scopre che il 26% degli immigrati non erano che laziali, soltanto il 9 abruzzesi o molisani, il 7 campani, il 6 marchigiani — ma questi avevano già costituito, con gli umbri, il grosso dell’ immigrazione nei decenni precedenti e in molti periodi più antichi — e il 5%, o poco più, siciliani o calabresi. Immense folle, comunque.
A quel buon «terzo» di Roma che erano le borgate, anche quelle ormai «storiche» perché lager dove i fascisti avevano deportato a migliaia i popolani delle zone urbane che dovevano venir spianate per dar pieno risalto a quelle «imperiali», razzismo o no, la cultura accademica guardò come alla periferia di Beirut o alle favelas di Rio. Non se ne occupò a fondo infatti che il citato Ferrarotti e ne fu aedo (con non poco scandalo della «Roma bene») «l’anarchico» Pier Paolo Pisolini, del cui assassinio, avvenuto proprio nel 1975 quando si chiude questa storia, essa non si occupa non ritenendo chi scrive che possa venir ridotto a pura cronaca nera.
A un certo momento comunque Roma — quella edilizia, almeno — venne unificata, sia dalla marcia borgatara verso il centro che dalla esondazione della speculazione verso la più lontana periferia; al Catasto la città appariva materialmente una, ma borgate e borghetti vennero «romanizzati» non, ad esempio, da una efficiente scuola o da «corsi di aggiornamento» per adulti, ma proprio da quei «fattacci». Quei neoromani ben prima di apprendere di avere ora come totem la Lupa capitolina furono acculturati dai «miti» del rag. Fenaroli o della spiaggia di Torvaianica; diciamo di più, neanche dalla diretta lettura della nostra nera ché moltissimi leggere neppure sapevano, e tanto meno dalla Tv, che si diffuse a metà dei Sessanta, o dalla radio moralisticamente censurata, bensì dalla vox populi, dal tam-tam, dalle conversazioni dirette fra cittadini sul luogo di lavoro, da quello straordinario «sistema» che era il «vicinato», la più defunta fra le istituzioni del tempo; apprendevano quelle storie non tanto dai solerti cronisti ma dai vicini di casa che fossero in grado di leggerli. È difficile capire come quelle storie (che, di per sé, non sono niente di straordinario) poterono affascinare centinaia di migliaia di persone e in qualche modo integrarle in una comunità se non si considera che «coautori» di quel Grande Racconto furono i casigliani, gli amici del bar, i compagni di lavoro che riferivano quanto i cronisti scrivevano, che insomma quella che anche così diventò la città «si raccontò» quelle storie, sulla falsariga dei resoconti di nera.
Per anni fu come se i romani si raccogliessero «intorno al camino» per ascoltare, non l’anziano o la nonna che raccontavano di streghe e cenerentole, ma le storie di coniugi che si accusavano a vicenda d’un omicidio «risultando» entrambi innocenti o del «boia di Alberga» che idolatrò per mesi il cadavere della moglie sull’altare del letto coniugale. Oggi, che neanche si frequenta il condomino della porta accanto, pare impossibile che non solo nelle borgate ma nel centro stesso, nei vicoli e vicoletti torno torno Piazza Navona o Campo dei Fiori, la «gente» portasse le seggiole in strada e, da muro a muro, chiacchierasse se quel fascinoso «Cigno nero» fosse davvero una Giovanna d’Arco, o come potesse esser successo che il ragionier Fenaroli, una persona così distinta, per diventare vedovo avesse assoldato un sicario — una figura, per chi ignorava la storia di Roma imperiale e papale, esclusiva dei film americani.
Di questa informazione globale «fonte» erano comunque i «cronisti di nera» — una specie giornalistica oggi anch’essa pressoché estinta, ma allora d’una tale efficienza, di tale «potenza narrativa» da riuscire a colpire, a fascinare quello che oggi diciamo «immaginario collettivo» al punto da convogliare a Palazzo di Giustizia, poco importa da quale distanza, folle invasive e pervasive, folle quali oggi soltanto il derby cittadino, da riuscire addirittura a gremire Piazza Cavour antistante il Palazzaccio fino a notte alta in attesa di una sentenza.
A questo punto gli esperti in scienza della comunicazione, così fieri della globalità addirittura interattiva che Web assicura agli abitanti del pianeta, potrebbero chiedersi se la Rete non sia elitaria ed esoterica a petto di quella grande chiacchiera che allora inglobava l’intera comunità. Come mai oggi che disponiamo del più potente apparato di informazione della storia umana, oggi che qualsiasi accadimento è comunicato tutto subito a tutti, ognuno di noi si scopre continuamente ignaro di notizie anche importanti di cui altri godono?. Di solito lo si spiega facendo del presunto merito una presunta colpa, il profluvio di informazioni sarebbe tale che il singolo non potrebbe usufruirne che d’una parte più o meno casuale; ma ci si potrebbe invece chiedere se proprio le caratteristiche del «villaggio globale» — massa di miliardi di individui — non siano proprio tali da «disinformare», e non perché alla comunità propongano «troppe» notizie, ma perché manca proprio la comunità — che è altro da un agglomerato di singoli.
Comunque i cronisti di nera sono «morti» pure quelli; nei giornali dove qualcuno ancora sopravvive nella sentina del transatlantico dell’informazione, per svolgere di malavoglia quello che un tempo era il più duro ma insieme il più eccitante dei mestieri, non ha che da riprendere da un televideo o da una telescrivente quanto gli serva — poco invero, per dire che una peripatetica è stata massacrata in una vecchia Torraccia, bastano due o tre righe — mica si tratta di classifica o di Tv, di Ferrari o di alta moda.
Chi scrive non ha mai fatto il cronista di nera se non in qualche particolare occasione, e può dunque permettersi di dirne il massimo bene: parecchi di loro erano semialfabeti che bisognava che qualche altro redattore gli riscrivesse il pezzo. In molti giornali il sistema veniva taylorizzato, il cronista telefonava all’estensore che redigeva. Non erano comunque intellettuali e si sarebbero risentiti a sentirselo dire. Se non erano nati cinici o non lo erano ancora diventati, si atteggiavano comunque a tali, di solito non trovavano il tempo di leggere o andare a teatro, ma avevano imparato dai film americani come si mettono i piedi sulla scrivania o il cappello sulla nuca; sfrontatamente fieri della loro funzione di detection erano prontissimi a violare diversi articoli del codice penale pur di «trovare» qualcosa; avessero sentito raccontare che oggi esiste — o comunque viene molto citata — una «privacy», ne avrebbero sghignazzato, loro che tallonavano possibili testimoni perfino nel Wc. Erano tra loro in feroce concorrenza, era raro che disponessero dell’auto o del motorino, scarpinavano su e giù per la città («Sette paia di scarpe di ferro ho consumato…»), scampanellavano nel pieno della notte alla porta di possibili «fonti», mangiavano e dormivano quando capitava, magari in redazione, incuranti di qualsiasi «orario di lavoro», passavano ore negli uffici dei questurini e dei «carruba», riuscivano a farsi aggregare in qualche loro missione, sognavano una sola cosa: lo scoop da spalla di prima.
Qualche volta, ovviamente, la notizia la «pompavano», ma non si scoraggiavano se scoprivano di essere stati ingannati dai «testimoni», e talvolta alla grande: accadeva che si dessero da fare come pazzi ignorando che erano stati registi occulti a lanciarli su una falsa pista — forse che non fu una astuta «soffiata» diffusa da un politico (che portò alla dimissioni di un ministro degli Esteri) che innescò il massimo caso della nera romana rivelatosi null’altro che una bolla di sapone? Eppure non ho mai conosciuto qualcuno di loro che si sia sentito deluso per aver sgobbato anni per niente.
Non è poi che fossero amati o ammirati dai colleghi che scrivevano di politica estera o che stendevano addirittura il «pastone politico», orrido polpettone di colonne e colonne che leggevano soltanto i distributori di «veline» e forse neppure loro; erano considerati bassa forza, schiavi ai remi — quando mai avrebbero potuto firmare un fondo? Eppure, almeno allora, il meglio del giornalismo italiano fu proprio la nera, forse anche perché strutturalmente la meno corruttibile. Personalmente, fra tanti colleghi, molti bravissimi, ammiro quello che «viveva» tra i CC e continua a farlo ben oltre la pensione passando le informazioni ai nuovi pigri successori; tra tanti autorevoli, onesti, informati, considero il miglior giornalista quello che, cooptato a uno dei più alti livelli direzionali d’una rete Rai, appena può corre personalmente sul «luogo del delitto», ci corre lui, proprio perché per lui nulla è, come in gioventù, più importante che andare sul luogo del delitto.
(O nella sua possibile periferia: se mi è concesso citare un caso personale, dirò che ricordo come uno dei momenti «più propri» della professione una notte alle ore due, a giornale praticamente chiuso, che mi piombò addosso uno di quei pazzi scatenati per giurarmi d’aver appreso da una delle tante ragazzotte del caso Montesi — c’erano le mitomani e c’erano anche quelle che per un po’ di notorietà dicevano o facevano stranezze estreme — che quella ragazza «Ha avuto un figlio da… Ma ti rendi conto…? Qui facciamo saltare tutto!» Pur certissimo che si trattava di una «bufala», ma consapevole che dovevo accertarmene, tornai con lui a quella casetta della periferia a battere alla porta finché la disgraziata non si affacciò in camicia da notte alla finestra, e a gridarle «Senta, lei conferma di aver avuto un bambino da…?» e la sciagurata a rendere tutto ambiguo, incerto e inutile precisando che «Proprio un bambino no… Però avrei potuto averlo…»).
In realtà il giornalismo italiano nacque allora, nacque con loro, dagli anni Venti alla Liberazione era stato, come è noto, soppresso. Certo, aveva avuto una sua anche illustre storia precedente, se nientemeno che nel ’59 avanti Cristo fu Giulio Cesare ad istituire gli «acta populi» che venivano affissi nei luoghi più frequentati; e quello moderno aveva i suoi ascendenti illustri, dal Gazzettino Venero della metà del Settecento, ai numerosissimi dalla metà dell’Ottocento, alcuni dei quali campano tuttora. Ma la frattura del fascismo era stata tale che il giornalismo del dopoguerra fu altro, perché poté dirsi libero, e nacque, come strumento di informazione di massa e non delle sole élites borghesi, e nacque grazie a loro, ai cronisti di nera.
Che ignoranti quanti la nera disprezzavano perché non si occupava che di fattacci! Forse che il capolavoro della letteratura italiana del Novecento non è stato proprio la storia di un delittaccio romanesco, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana?. È poco probabile che molti cronisti di nera di quel quarto di secolo lo abbiano letto, come è improbabile che abbiano conosciuto in Dashiell Hammett il «maestro» della indagine nel marcio ventre della metropoli… La loro cultura, oltre alla tecnica del giallo, ereditò dal giornalismo precedente il feuilleton che possiamo dire «ottocentesco» anche se molti quotidiani lo veicolarono fin dopo la Liberazione, feuilleton che addirittura già nel ‘700 era stato sfruttato da De Foe, fondatore del giornalismo inglese…
Il feuilleton era stato la Bibla pauperum delle nuove folle inurbate nella città fondata dalla macchina, in quelle storie esse avevano avuto la loro letteratura, storie di avidità, bramosia, odio, malvagità, e amore, amore, amore, casto, mercenario, tradito, omicida — ma pur sempre amore, che affascinavano lo stolido campagnolo cacciato nella nera, assordante, puzzolente, ma affascinante realtà urbana. Proprio questo voleva ora il pubblico romano, che per vent’anni s’era visto spacciare i suicidi come «disgrazie col gas» e gli omicidi come incidenti sul lavoro. Proprio come più o meno era accaduto nell’Inghilterra e nella Francia (e di riflesso nell’Italia ottocentesca) della prima industrializzazione, anche da noi toccò alla nera «alfabetizzare alla modernità» le folle cittadine.
Processo immediatamente bollato dai metafisici della cultura «alta» — un aristocratico moralista laudatore di tempi defunti come Elémire Zolla, nella sua Eclisse dell’intellettuale, appunto degli anni Sessanta, definiva l’intera cultura di massa come idiotizzazione delle folle, trionfo dell’orrido e del disumano (quasi una caduta da chissà quale Età dell’Oro) — l’intellettuale si richiamava opportunamente alla prima industrializzazione, indicava nella descrizione dickensiana di Cocketown o di Londra per la penna di Marx, Engels o Melville, il precedente del macabro, del sadico, del melodrammatico, dell’orrorifico, dell’idiota che il decadentismo plebeo della letteratura industriale, e, in particolare, la cronaca nera dei quotidiani propina alle masse, atomizzandole e omogeneizzandole (insomma, attribuiva nientemeno che al giornale la trasformazione operata dall’economia di mercato!). Il quotidiano, garantiva il mistico, diffondendosi sul mercato della libera concorrenza, ricorrendo quindi alla scrittura rapida, ad effetto, leggibile cioè dimenticabile (povero Manzoni, che non richiede neanche il vocabolario), col pimento dello scandalo calcola gli effetti secondo la legge bruta dello stimolo, sicché «la volgarità sostituisce l’antica semplicità, ed è volgarità voluta e fredda».
A parte il fatto che orridi, disumani e idioti sono i fatti, e non i resoconti dei fatti, sarebbe interessante scoprire che cosa mai possa essere stata «l’antica semplicità» di quello che — absit iniuria verbo — fu definito «idiotismo contadino»; a leggerle senza prevenzioni quelle diatribe risultano a dir poco ingenue come le invettive contro autostrade, linee ferroviarie, tralicci elettrici, oleodotti e altro da parte di chi ne goda le comodità. Salvo ovviamente ogni tanto riscattarsi «tornando alla natura vergine» in qualche azienda di agriturismo che offra cibi e vivande doc delle migliori marche (industriali), piscine d’acqua decontaminata, arditi percorsi per motocross, galoppatoio con cavalli veri, che fanno addirittura la cacca. Con pratiche così virtuose ci si sente ovviamente migliori della maggior parte degli uomini che restano nel mondo di cacca offerto dalla modernità-per-i-più.
Certo, il cittadino affascinato dalla nera non leggeva Montale o Pound, perché era poco più che alfabeta ma, finché era stato contadino, non aveva potuto leggere proprio niente, sicché a rigore la «nera» era per lui un progresso anche culturale, il nuovo mondo in cui si acculturava faceva piuttosto schifo ma era — gli assicuravano — il migliore dei mondi possibili, parola di filosofo. E in un certo senso era anche vero: quel poco progresso che l’umanità via via si acquista lo paga a prezzo d’orrori e d’infamie inauditi. Per «modernizzare» il continente americano i Wasp massacrarono indiani e bisonti, come i soldati a cavallo dei re cristianissimi avevano cancellato intere civiltà sudamericane, come i diritti dell’uomo erano stati affermati tagliando innumerevoli teste e il diritto romano aveva conquistato un’immensa aerea rendendone schiave le popolazioni.
Purtroppo toccò a rozzi cronisti — occupandosi d’altro le anime belle — «educare» i buzzurri a diventare «cives romani» (anche se resta dubbio il senso civico dei cives romani, quanto quello patriottico degli italiani), guidarli a conoscere il solo mondo per loro possibile, una quotidianità urbana che, anziché da concerti e mostre d’arte, era caratterizzata, al loro livello, da delitti di coltello, di pistola, di veleno, da decapitazioni e strangolamenti su commissione. Si può, è vero, accusare i cronisti di aver soltanto descritto la realtà di averla accettata anziché, toh, cambiarla, anche se su chi pretendeva di farlo la polizia apriva il fuoco. Ma forse che avrebbero favorito il cosiddetto «Progresso senza avventure» tacendo? Tacendo che il marchese fotografava la moglie che s’accoppiava con gli amanti che lui le pagava, tacendo che lo strangolatore aveva ubriacato e legato la vittima prima di stringerle le mani al collo, tacendo le frequentazioni del figlio del ministro, tacendo che quei giovani ricchi ed eleganti pariolini mentre godevano Wagner avevano affogato nel bagno la ragazza che si ribellava alle loro violenze e abbattuto a colpi di spranga — insufficienti, ahi loro — l’amica che si ribellava pure lei? Quanto sarebbe stata migliore Roma se anziché le sue vicende quotidiane i giornali avessero pubblicato a feuilleton Monsignor della Casa!
Lo sdegno e il disprezzo di tante anime belle verso la «letteratura del delitto» è grottesco quanto il pacifismo radicale che sostiene che la pace è più nobile, più intelligente, più umana della guerra. E come no? Che aspettate allora a farla, questa pace?
Dopo essersi attardata per lustri in quei fattacci plebei, Roma andò finalmente adeguandosi a Londra e Parigi, e poi addirittura alla cultura highbrow di Chicago o del Bronx. I quotidiani poterono offrire rapine motorizzate, attentati terroristici, speculazioni ed anzi saccheggi edilizi, stragi e tentativi di colpi di Stato; non era stata dunque colpa dei cronisti se al neocapitalismo italiano, al «nuovo Rinascimento» e altre meraviglie c’erano voluti tanti lustri lungo i quali lungo un milione e mezzo di inurbati e buona parte del milione e mezzo di nativi dovettero accontentarsi di quanto passava il convento: una letteratura bassa, «rasoterra», la sola adeguata alle loro possibilità di lettura, che riduceva al peggio anche il buon poliziesco, che volgarizzava il sentimentale nel rosa, il gotico nell’horror.
Un professore potrebbe rilevare che «d’accordo, scrivevano il vero; ma potevano scriverlo almeno in buon italiano, prendendo ad esempio il riserbo col quale Dante accenna ad un caso di cannibalismo o il Manzoni ai comportamenti d una monaca di poca virtù…» Eh sì, bisogna ammetterlo: anziché illustrare esteticamente le molestie sessuali di un signorotto su Lucia offrivano come happy end che una Donatella borgatara fosse stata ritrovata viva in un bagagliaio dove era stata gettata come cadavere. La letteratura alta può soddisfare nobilmente, e in qualche modo dunque redimere, l’interesse per la violenza, la brutalità, il delitto. Ci sono più delitti nella «Commedia» e più crimini d’ogni genere in Shakespeare che non in tutta la nera che abbiamo rivisitato; ma può allora la letteratura alta romana sentirsi la coscienza a posto semplicemente per non essersi sporcata, ignorandola, con quella Roma plebea? Oltre a Pasolini, a Gadda e pochi altri, quanti si impegnarono a educare con bella prosa le nuove folle urbane della Roma anni Cinquanta, invece di lasciarne l’onere a quei rozzi cronisti? Di più. Dove erano le istituzioni, che cosa diavolo seppe proporre, far accettare, indurre a interiorizzare, la Scuola magistra vitae? Quale ministero, quale università, quale salotto letterario insegnò la lingua italiana a quelle folle immense che sbarcavano a Termini con la valigia di cartone e il dialetto, quale Ente aiutò tanti miserabili che vivevano in una baracca miserabile, impegnandosi in lavori miserabili, a rendersi almeno vivibile la vita? Del resto non basta essere alfabetizzati per avere la possibilità di capire il mondo e quindi provarsi eventualmente a migliorarlo: chi mai, dell’intera gerarchia sociale, spiegò ai contadini che erano costretti ad abbandonare le proprie terre (malgrado la «riforma agraria») come mai se fino ad allora avevano potuto sopravvivere vendendo quel poco grano, ora non potevano portare al mercato che la propria capacità di lavorare, e tentare di venderla — diremmo meglio svenderla — per nutrire la propria famiglia? A petto dello sfruttamento capitalistico della fatica meridionale da parte dei cacciatori settentrionali del profitto — che è poi questa la modernizzazione — la Roma bene sfruttò in modo ben più rozzo e cialtronesco le masse umane che tendevano la mano: lasciamo perdere che cosa dovevano cedere tante ragazze in cambio d’un posto di lavoro, limitiamoci ai crimini all’ingrosso: che cosa furono se non rapina di massa la speculazione edilizia, i piani «regolatori», l’abusivismo su scala metropolitana.
Anche dopo la «modernizzazione», peraltro, qualche volgarità ci fu ma i cronisti dovettero limitarsi: «dieci righe, che la gente è stufa di crimini…», tanto più che questa volta lo stupro era avvenuto non al Circeo ma sui prati di Cicerchia (Roma era ancor sempre una vastissima Cicerchia e non solo Parioli) dove tre mascalzoni avevano spaccato la testa con un paletto di recinzione a una ragazza che pretendeva di restar ragazza. Ma avessero provato a raccontare il delitto dell’itinerario dell’Olimpica, che guarda caso pareva studiato apposta per favorire certe proprietà fondiarie, o l’assalto a Monte Mario, si sarebbero sentiti intimare di restare alle loro prostitute che «Del resto, non sai nemmeno scrivere…» Quanto al resto, il silenzio era il miglior detersivo; e mica era tanto esagerato, Bocca, a parlare di marciume eterno della Città eterna.
Se i cronisti di nera non seppero andare oltre il resoconto del mondo com’era, ci sarebbe da chiedersi come le istituzioni invece si proposero come «guida» se non proprio alla spiritualità almeno a una modernità che non fosse puramente commerciale. A ben considerarlo, in quel rozzo quarto di secolo, furono soltanto quelle che abbiamo detto «le bandiere», i colori della speranza, i partiti, «la politica», a proporre qualcosa che non fosse la pura atomizzazione mercantile — chi vuole li chiami ideali, chi vuole illusioni — progetti per un miglior mondo: fu già nel semplice unirsi a sperare insieme, a operare insieme, che grandi masse si acculturarono a qualcosa di più elevato che la passione allora per il delitto, oggi per il calcio, la cilindrata, gli snobismi di massa o i reality show televisivi.
Questa non ha voluto certo essere una esaltazione della «nera» — o della società, o della politica — di quel periodo: nessuno come chi ha vissuto in un giornale ne ha conosciuto tutte le miserie, sa quante balle furono diffuse anche se in buona fede, con quanta pervicacia si speculò sul più banale dei crimini per renderlo sensazionale, e quanti errori furono commessi, quanto contraddittorie siano state «verità passate in giudicato», quanto mai incerto l’asserito trionfo dell’Ordine sulla malvagità.
Sarebbe stupido chiudere gli occhi sul fatto che, malgrado la pertinace persistenza del male, malgrado tutte le contraddizioni e i dolori e la confusione che comporta, la «modernizzazione» progressi ha pur consentito — anche se niente li garantisce. Prendiamo a esempio il più clamoroso e insieme il più grottesco dei «casi» di nera di quegli anni, il «supremo» Montesi, grottesco perché dopo aver partorito tanto scandalo, finì per venir decretato semplicemente «inesistente»: i fatti non sussistono. Fu dunque ridicolmente inutile la passione con cui tanti cronisti consumarono le loro sette paia di scarpe di ferro, alfabetizzarono sia pure nel peggiore dei modi centinaia di migliaia di burini e buzzurri, spararono clamorosi titoli non soltanto «di spalla» ma addirittura a tutta pagina? Non fu che una gigantesca sceneggiata quella che riprendeva i più tipici eroi del glorioso feuilleton, la Fleur de Marie vittima di sudici potenti, il nobile in realtà lestofante, il grande politico o il grande burocrate correo o mandante? Fu pura chiacchiera quella battaglia giornalistica che aveva peraltro creato in Roma un primo quotidiano moderno, affascinato scrittori e intellettuali, richiamato sulla città un’ulteriore curiosità mondiale, quale poi solo la altrettanto frivola Dolce Vita, anche se di importanza culturale ben altra da quella per gli antichi monumenti o il cinema neorealista?
No, quel «tutto fumo» contribuì a modernizzare Roma ben più che le nuove tecnologie o quant’altro possiamo citare: esso diede un contributo fondamentale alla formazione di una opinione pubblica, senza la quale, per definizione, non c’è democrazia. Per la prima volta, grazie a quello sconfinato e insensato bla-bla-bla milioni di sudditi romani impararono a vedere i meccanismi segreti del potere, scoprirono la nudità del re, per la prima volta non si limitarono a riverire o brontolare, ma accusarono o condannarono. Un verdetto ingiusto? È possibile, ma pur sempre un verdetto, emesso cioè da quella che non si sentiva più plebe ma cittadinanza, un verdetto che, per errato che fosse, fece tremare le fondamenta d’un regime, non si piegò neanche davanti alla algida verità giudiziaria e nelle elezioni del 1953 sancì una importante svolta della vita politica italiana, dimostrando che molti non accettavano di morire senza discutere sotto un regime che giudicavano indegno per quanto benedetto. Sbagliò, questa nuova opinione pubblica? Anche avesse sbagliato (nessuno può giurarci neanche dopo le sentenze), quel giudizio fu storico: una democrazia non è una tecnica amministrativo ma la possibilità e la capacità popolare di emettere un giudizio, quale che sia.
Prima o poi dobbiamo comunque chiederci perché questa benemerita «nera» sia morta, che in questo campo almeno la morte non è una ineluttabilità biologica, Le cause della scomparsa o quasi di quel genere sono certamente più d’una — di solito come principale viene indicata la Tv, imputata di aver drasticamente ridotto il numero dei lettori, anche dei libri e della corrispondenza privata: la prevalenza assoluta della Tv nel sistema dei media è però da addebitarsi anche alla stupidità della maggior parte degli editori di voler «gareggiare» con essa sul suo terreno, quello cioè della informazione ridotta al minimo, della onnipresenza dell’immagine che risparmia anche la fatica del tradurre con l’immaginazione il testo scritto, e non potendo offrire lo spettacolo come la Tv, dedicare intere pagine agli spettacoli della Tv: la realtà, può aspettare. Quel che è certo è che il moralista, il letterato, il nostalgico della «semplicità» di un tempo ha ben poco da compiacersi per la scomparsa della «volgare nera», visto che la Tv che l’ha sostituita ne ha ripreso tutte le volgarità le ha rese soltanto più «affascinanti» con colori, musiche, nudità, orichicchi i più diversi, ma le ha anche immensamente ampliate, ha proposto idiozie e infamie che la «nera» mai avrebbe osato: se si vuol citare un momento in cui il «duello» era ancora in corso, si ripensi a certi serials di enorme successo, che nessun cronista mai, per mascalzone che fosse, avrebbe firmato, alle perversioni ad esempio, la minore l’incesto, con le quali Beautiful o «Dinasty» strapparono tanto pubblico ai quotidiani.
La controprova che il quotidiano fu non solo vittima ma anche suicida in quella rivoluzione dei media la si è potuta leggere in questi anni in migliaia di pagine, di resoconti, di convegni, nei quali i giornalisti spiegavano a se stessi che era un errore inseguire la Tv pubblicando fotografie pubblicitarie del formato di una pagina o privilegiando il trash (è cinismo o sincerità ciò che induce tanti operatori della Tv a considerare «mondezza» quanto predomina nei loro palinsesti?), affermavano che in particolare erano stati errori aver cestinato l’inchiesta, aver snobbato la cultura (merce rarissima in Tv) non solo liquidando la decrepita terza pagina, ma anche rinunciando a qualsiasi funzione di guida nelle librerie, nelle gallerie d’arte, nella prosa o nei concerti. Negli ultimi tempi si è addirittura sostenuto che il quotidiano deve qualificarsi come strumento di cultura, di acculturazione, direttamente e non soltanto veicolando libri o Cd. Secondo questi progetti, o illusioni che siano, il giornale dovrebbe diventare la «benedizione mattutina» per affrontare hegelianamente il mondo, lasciando alla Tv i circenses per la plebe. Se una simile reinvenzione del giornale verrà sancita e con quale successo, dirà il futuro.
Ma restano altre ragioni dell’estinzione della nera, alcune delle quali ben più serie: il «delitto» stesso è così profondamente cambiato nella nostra società che la cronaca di quello «tradizionale» ha perduto interesse di fronte all’angoscia indotta da ben altri accadimenti: già negli anni Settanta bisognava essere dei fans del giallo/feuilleton per ostinarsi a leggerne gli affascinanti intrighi quando in prima pagina campeggiava il numero delle vittime delle stragi; che senso aveva continuare a interrogarsi se quel pittore carrarese fosse un mitomane, un poveraccio o il pugnalatore della tedeschina dalla dolce vita, quando l’acquisto di un quadrigetto provocava vittime tanto illustri nelle istituzioni o un reale quadrigetto tante numerose nel mare di Ustica — e già la malavita organizzata e il terrorismo facevano in un attimo più vittime che tutti i ragionier Fenaroli in un quarto di secolo? E oggi, che colore attribuire alla cronaca di delitti di massa quali gli attacchi alle Torri gemelle o le guerre preventive? Che senso ha rimproverare al cronista-podista la ricerca d’un po’ di sangue da mettere in prima, quando la prima ne è già quotidianamente alluvionata?
Il feuilleton, ripreso dalla nera, aveva fra l’altro una funzione catartica: esattamente all’opposto di quanto gli imputavano i moralisti esso era un formidabile sostenitore della moralità pubblica, una incomparabile promessa che l’Ordine, l’Ordine sociale (anche se piuttosto ignobile) avrebbe prima o poi trionfato sul Disordine. Per quanti crimini commettessero i malvagi il Progresso, dello Spirito e non solo della Locomotiva, era garantito. Quel dandy della Belle Epoque che era Sherlock, riusciva sempre a scoprire il Male e a farlo rinchiudere in galera; il cronista di nera si sforzava di eguagliarlo, si dava da fare a rassicurare il pubblico, riusciva spessissimo a dimostrargli — con l’annuncio che «L’Assassino à stato smascherato, il Mostro è stato ammanettato» — che, niente paura, tout va trés bien madame la Marquise. Ci fu perfino chi asserì — per fortuna non un cronista — che «la Storia è finita», basta confusione, prepotenze, crimini, guerre.
Il guaio è che prima ancora che questa fanfaluca venisse smentita dalla proliferante metastasi di tante storie ostinatamente persistenti, da far impallidire le imprese di tutte le Orde d’oro del passato, già l’ottimismo di Holmes era stato smentito nella quotidianità, sulle cronache locali prima ancora che su quelle internazionali. Quel teorema Delitto-Indagine-Punizione, che aveva fatto sentire i cronisti impavidi collaboratori di giustizia, andò rivelandosi del tutto astratto, sbagliato se non assurdo: che cosa può dire oggi il burino, lo zappaterra «acculturato alla modernità urbana», apprendendo che in Italia il 90% dei crimini restano impuniti? (la percentuale è stata forse per qualche tempo inferiore, ma non di molto).
Peggio, che poteva pensare di una Giustizia che un gran numero delle applaudite punizioni aveva inflitto sì, ma a torto? Già negli anni di questa nostra storia i cosiddetti «errori giudiziari» (troppo numerosi per esser ridotti a «errore umano» d’un qualche giudice, e da riportare quindi a cause ben più profonde) riuscirono a sbalorditivi ribaltamenti della Verità che pareva aver trionfato: il «biondino», imputato di aver violentato e ucciso una bambina fu assolto in prima istanza, condannato in seconda, assolto in terza — riuscendo in seguito a sollevare nuovi dubbi con altre vicende. Mentre vari «assassini ma in stato di ipnosi» continuarono a entrare e uscire di galera, una delle parimenti numerose «amanti diaboliche» si ebbe in Assise quattordici anni, fu assolta in appello con formula piena, in Cassazione soltanto dubitativa. Robetta da ridere, peraltro, a confronto di quanto avveniva sul più vasto palcoscenico nazionale, a partire dalla strage di Milano del ’69. «Ignorabimus».
Sempre in quegli anni Cinquanta-Sessanta, — così pedagogici per le grandi masse di servi della gleba promossi «cives» — un tale C. ( rispettiamo la privacy almeno delle vittime), fu condannato a morire in carcere col passaggio in giudicato d’una sentenza di dieci anni, un supergiudizio risultato poi ingiusto. Un tal G., contadino siciliano, venne condannato all’ergastolo, confermato dalla Cassazione, non solo per aver ucciso il fratello ma anche per l’infamia di averne fatto sparire il cadavere (quasi fosse l’imputato a dover fornire le prove a carico). Venti anni dopo il cadavere fu ritrovato da un conoscente mentre stava mangiando pane e formaggio seduto su un muretto. Un tale A.S., contadino (chissà perché incidenti del genere capitavano soprattutto a ignoranti e poveri) si prese l’ergastolo per aver ucciso un avvocato malgrado fosse stato accertato che un’ora prima si trovava a venti chilometri di distanza. La corte argomentando che «un contadino è in grado di percorrere venti chilometri in un’ora», anziché mandarlo alle Olimpiadi lo condannò al carcere, donde uscì soltanto per la tenacia del figlio. Una certa Jolanda, cameriera, «assassina per folle gelosia» e quindi condannata ad adeguata pena, la libertà l’ottenne per la tenacia — ecco — d’un cronista.
È plausibile che tanti crimini impuniti e troppi crimini ingiustamente attribuiti abbiano seminato molto scetticismo nel pubblico, e diffidenza verso il cronista che con le sue fanfaluche aveva battuto sentieri senza uscita; che per uno di loro che aveva documentato l’innocenza di una cameriera tanti altri avevano gettato la loro badilata di terra su un innocente. Ma compito del cronista era soltanto quello di raccogliere «fatti» o al limite anche «voci», e non toccava certamente a lui provare se autentiche, a carico o a discarico. D’altra parte ci guardiamo bene dall’addebitare alla magistratura deficienze ed errori — ovviamente possibili in qualsiasi istituzione umana — in un tempo che la vede aggredita come istituzione che si sarebbe arrogata il ruolo di accusatrice sistematica di innocenti, macchina strutturata per la persecuzione di benemeriti salvatori della Patria, essa stessa chiamata alla sbarra da masnade impegnate non a documentare l’eventuale errore di un processo ma ad impedire il processo stesso.
Ma forse, alle spalle di tutto questo — e la vicenda della «nera» risulterebbe addirittura banale — c’è un qualche sommovimento della comunità umana, e della nostra in particolare, che mette in discussione la possibilità stessa di una redenzione: ma di quale Giustizia, di quale Ordine state cianciando? — può chiederci il lettore — Di quale estirpazione del Male, quando questo non fa che proliferare?
E una volta tanto è doveroso dar ragione al misantropo pessimista: pare che il delinquere si vada facendo normalità, che è persino ridicolo parlare di «reato» quando questo diventa pratica quotidiana anche se ovviamente restano tante coscienze pulite. La «colpa» di questa banalizzazione dell’agire criminoso, della conseguente indifferenza del pubblico e della svalutazione della denuncia giornalistica ognuno e libero di attribuirla a chi gli pare, al demonio o alla tecnologia, alla cattiva educazione o alle manipolazioni genetiche, alla prepotenza armata o all’irenismo disarmante. Comunque, se guardiamo a tutta la storia del feuilleton — che ovviamente ci è servito come strumento interpretativo — dalla prima alla seconda, alla nascente terza industrializzazione, possiamo osservare che esso è stato « prodotto» — nel senso tecnico della parola, merce — e insieme pronubo di un processo che ha coinvolto l’intera società: il passaggio dalla comunità contadina «idiota» all’urbanesimo di milioni di individui assolutamente liberi nella propria solitudine, senza altri valori o disvalori che quelli personali. La comunità, qual’era per il bene e per il male, è scomparsa e il delitto allora — che è sempre offesa alle leggi o convenzioni della comunità — non può neppure esser considerato tale.
In una grande città come la nostra — lo diciamo agli eventuali nuovi «burini» che venissero a insediarvisi, le telecamere al cancello, gli allarmi a porte e finestre, le borse con tripla lampo servono a poco, la tecnologia ha accelerato il processo spada-scudo-spada, per cui appena inventariata un’arma si inventa una difesa subito resa vana da una nuova arma. Se volete dare una mano alla sicurezza vostra e dei concittadini — non usiamo le parolone come «Verità» e «Giustizia» — o se comunque queste vecchie storie di nera vi hanno divertito, qualche possibilità concreta la avete: la prima, è di non considerarvi dei singoli, degli atomi isolati ed egoisti come la società della merce vi spinge o costringe a fare; e quando andate in giro, anziché limitarvi allo «sguardo dello spettatore», affascinato dalla merce delle vetrine, adottate quello che si dice lo sguardo del cronista di nera, attento, acuto e intelligente: guardatevi intorno, cercate di rilevare ciò che sia improprio, fuori posto, sospetto.
Può darsi che, fra l’altro, scopriate chi tagliò la testa all’Antonietta del lago o pugnalò la bella Christa tra la porta dell’ascensore e quella ostinatamente sbarrata dell’amica. E se per riandare a queste storie vi fa piacere farvi guidare da un qualche Virgilio, eccovene uno davvero «romano de Roma»:
«Ecco, a un sordo, l’esatta spiegazione del grande fatto successo a via Papale… Nel quale ce morinno tre persone. Lo leggeremo tutto al naturale»
CESARE PASCARELLA, Er bollettino