di Raymond Carver
[da “Da dove sto chiamando”, 1976 – edizione italiana: Minimum Fax, per la traduzione di Riccardo Duranti]
Earl Ober faceva il rappresentante di commercio: aveva appena lasciato un lavoro e ne stava cercando un altro. Però sua moglie Doreen aveva trovato un posto di cameriera nel turno di notte di una tavola calda di periferia aperta ventiquattr’ ore su ventiquattro. Una sera che se ne stava andando in giro a bere, Earl decise di fare un salto in quel locale per mangiare un boccone. Voleva vedere dove lavorava Doreen e provare magari a scroccare qualche cosa.
Si sedette al bancone e si mise a esaminare il menù.
“Che ci fai tu qui?”, gli chiese Doreen appena lo vide seduto lì.
Si voltò per passare un’ordinazione in cucina. “Che cosa vuoi ordinare, Earl?”, disse poi. “Tutto bene a casa, i ragazzi?”
“Tutto. bene”, rispose Earl. “Dunque, vorrei del caffè e uno di quei panini del Numero Due”.
Doreen prese nota sul suo blocchetto.
“C’è mica modo di… hai capito?”, le disse, strizzando l’occhio.
“No”, disse lei. “Non mi parlare. Ho da fare”.
Earl sorseggiò il caffè e aspettò il panino. Due tizi in completo grigio, ma con la cravatta allentata e il colletto della camicia aperto, si sedettero accanto a lui e ordinarono un caffè. Appena Doreen si allontanò da loro con il bricco del caffè, uno dei tizi disse all’altro: “Guarda che culo ha quella. Da non crederci”.
L’altro rise. “Ne ho visti di meglio”, disse.
“Appunto, dico”, disse il primo. “Ma a qualche buffone, la fica piace grassa”.
“Be’,a me no”.
“Nemmeno a me”, disse il primo. ” Appunto, dico”.
Doreen mise il panino davanti a Earl. Era contornato da patatine fritte, insalata di verza in maionese, cetriolini.
“Vuoi qualcos’altro?”, gli chiese. “Un bicchiere di latte?” Lui non rispose. Quando vide che lei era ancora lì davanti, scosse la testa.
“Ti porto un altro caffè”, disse lei.
Tornò poco dopo con il bricco e versò caffè per lui e per i due tizi. Quindi prese una scodellina e si voltò per riempirla di gelato. Si abbassò sul contenitore per immergervi la spatola e tirarne fuori il gelato. La gonna bianca le si tese sui fianchi e le scoprì il dietro delle gambe, mettendo in mostra un reggicalze rosa, cosce rugose, grigiastre e un po’ pelose e una rete di vene che s’irradiava all’impazzata.
I due tizi seduti accanto a Earl si scambiarono un’occhiata.
Uno di loro sollevò le sopracciglia. L’altro fece un ghigno e si portò la tazza alla bocca senza staccare gli occhi di dosso a Doreen che intanto guarniva il gelato con del cioccolato fuso.
Quando cominciò ad agitare lo spray della panna montata, Earl si alzò lasciando il cibo nel piatto e andò verso la porta. La sentì che lo chiamava, ma tirò dritto.
Andò a dare un’occhiata ai ragazzi che dormivano, poi andò a spogliarsi in camera da letto. Tirò su le coperte, chiuse gli occhi e si lasciò andare a pensare. La sensazione gli si sparse prima sul viso e poi gli scese giù verso lo stomaco e le gambe.
Aprì gli occhi e si mise ad agitare la testa avanti e indietro sul cuscino. Quindi si girò su un fianco e s’addormentò.
La mattina, dopo aver mandato i figli a scuola, Doreen entrò nella camera da letto e tirò su le tapparelle. Earl era già sveglio.
“Guardati un po’ allo specchio”, le disse.
“Che c’è?”, disse lei. “Che vuoi dire?”
“Ho solo detto di guardarti un po’ allo specchio”, disse lui.
“Cos’è che dovrei vedere?”, disse lei. Però si guardò lo stesso nello specchio sopra il comò e si spostò i capelli dietro le spalle.
“Allora?”, disse Earl.
“Allora cosa?”
“Lo sai che detesto dire certe cose”, disse Earl, “ma secondo me faresti bene a pensare di metterti un po’ a dieta. Sul serio. Secondo me, ti farebbe bene perdere qualche chilo. Senza offesa”.
“Ma che dici ?”
“Quello che ho detto. Secondo me, ti farebbe bene perdere qualche chilo. Mica tanti”.
“Non ne hai mai parlato prima”, disse. Si alzò la camicia da notte fino alla vita e si esaminò i fianchi e la pancia allo specchio.
“Be’.prima non mi era sembrato un problema”, disse, cercando di scegliere attentamente le parole.
Con la camicia da notte ancora raccolta attorno alla vita, Doreen si voltò e si guardò la schiena allo specchio. Si tirò su una natica con la mano e poi la lasciò ricadere.
Earl chiuse gli occhi. “Magari mi sbaglio”, disse.
“No, mi sa che farei bene a perdere un po’ di peso. Ma sarà dura”, disse lei.
“In questo hai ragione: sarà dura”, disse Earl. “Però ti do una mano io”.
“Forse hai ragione”, disse lei. Lasciò ricadere la camicia da notte, lo guardò e poi se la tolse del tutto.
Si misero a parlare di diete. Parlarono di diete proteiche, di diete vegetariane, della dieta del succo di pompelmo. Ma decisero che non si potevano permettere di comprare le bistecche richieste dalle diete proteiche. E Doreen disse che non è che le andasse molto di mangiare solo verdure. E dato che il succo di pompelmo non le piaceva, non vedeva come potesse fare neanche quella dieta.
“E va bene, allora lascia perdere”, concluse lui.
“No, hai ragione”, disse lei. “Qualcosa farò”.
“Che ne dici di un po’ di ginnastica?”, disse Earl.
“Già ne faccio abbastanza di ginnastica, giù al locale”, disse lei.
“E allora smetti di mangiare”, disse Earl, “almeno per qualche giorno”.
“E va bene”, disse lei. “Ci proverò. Proviamo un po’ per qualche giorno. M’hai convinto”.
“Non per niente è il mio mestiere”, disse Earl.
Calcolò il saldo del loro conto in banca, poi andò in macchina a un grande magazzino a comprare una bilancia. Squadrò bene la commessa che gli batteva lo scontrino.
A casa, fece spogliare Doreen e la fece salire sulla bilancia. Arricciò un po’ il naso nel vedere le vene varicose. Con la punta del dito ne seguì una che s’irradiava lungo tutta la coscia.
“Ma che fai?”, chiese lei.
“Niente”, rispose lui.
Guardò il quadrante della bilancia e scrisse il peso su un pezzo di carta.
“Va bene”, disse Earl. “Va benissimo”.
Il giorno dopo rimase fuori tutto il pomeriggio per un colloquio di lavoro. Il principale, un omone che zoppicando gli fece fare il giro del magazzino di componenti idraulici, chiese a Earl se era libero di viaggiare.
“Come no? Liberissimo”.
L’uomo annuì.
Earl sorrise.
Sentì il televisore acceso prima di entrare in casa. I ragazzi neanche alzarono la testa mentre attraversava il soggiorno. In cucina, Doreen, già in uniforme, stava mangiando uova strapazzate e pancetta.
“Ma che fai?”, le chiese Earl.
Lei continuò a masticare con le guance gonfie. Poi però sputò tutto in un tovagliolo.
“È stato più forte di me”, disse lei.
“Sei una porca”, disse Earl. “Dai, continua a mangiare! Continua pure!” Se ne andò in camera, chiuse la porta e si sdraiò sul letto. Sentiva ancora la televisione a tutto volume. Si mise le mani dietro la nuca e fissò il soffitto.
Doreen aprì la porta.
“Ci proverò un’altra volta”, disse.
“Va bene”.
Due mattine dopo lo chiamò in bagno. “Guarda”, gli disse.
Earl guardò l’ago della bilancia. Aprì un cassetto e ne tirò fuori il foglio di carta, poi guardò ancora la bilancia, mentre lei sorrideva.
“Quasi tre etti”, annunciò lei.
“È già qualcosa”, disse lui, dandole qualche leggera pacca sul fianco.
Leggeva tutti i giorni gli annunci economici. Passava all’ufficio di collocamento. Ogni tre o quattro giorni prendeva la macchina e andava in giro per colloqui di lavoro; la sera contava le mance della moglie. Lisciava le banconote sul tavolo e sistemava le monete in mucchietti da un dollaro l’uno, ordinati per nichelini, decini e quarti. Ogni mattina la metteva sulla bilancia.
In due settimane aveva perso poco più di un chilo e mezzo.
“Spizzico”, diceva lei. “Sto a digiuno tutto il giorno e poi quando sto al lavoro spizzico un po’ qua e là, ma insomma qualcosa accumulo”.
Però una settimana dopo era scesa di due chili e mezzo. Due settimane dopo, era a quattro chili e mezzo. I vestiti cominciarono ad andarle larghi. Dovette prelevare dei soldi dall’affitto per pagarsi una nuova uniforme.
“La gente comincia a fare dei commenti, al lavoro”, disse.
“Che tipo di commenti?”, chiese Earl.
“Per esempio che sono troppo pallida”, rispose lei. “Che non sembro più me stessa. Hanno paura che stia perdendo troppo peso”.
“E che male c’è a perdere peso?”, disse lui. “Non gli dar retta. Digli che si facessero i fatti loro. Non sono mica tuo marito, loro. Non devi mica vivere assieme a loro”.
“Ci devo lavorare assieme, però”, disse Doreen.
“Giusto”, disse Earl. “Ma loro non sono mica tuo marito”.
Ogni mattina la seguiva fino in bagno e restava in attesa finché non saliva sulla bilancia. Quindi si inginocchiava con la matita e il foglio di carta. Il foglio si era riempito di date, giorni della settimana e cifre. Leggeva l’indicazione dell’ago della bilancia, consultava il foglio e poi, secondo il caso, annuiva o arricciava le labbra.
Ora Doreen passava più tempo a letto. Dopo che i bambini erano andati a scuola, si rimetteva sotto le coperte e anche nel pomeriggio, prima di andare al lavoro, schiacciava lunghi pisolini. Earl le dava una mano con le faccende domestiche, guardava la televisione e la lasciava dormire. Pensava lui alla spesa e ogni tanto andava a fare colloqui di lavoro.
Una sera mise a letto i bambini, spense la televisione e decise di andare a bere un po’ in giro. Appena i bar chiusero, andò in macchina fino alla tavola calda.
Si sedette al bancone e rimase in attesa. Quando lei lo vide gli chiese: “I ragazzi, tutto a posto?”
Earl annuì.
Se la prese comoda, prima di ordinare. Continuava a osservare la moglie mentre si spostava su e giù per il bancone. Alla fine si decise a ordinare un cheeseburger. Lei passò l’ordinazione al cuoco e andò a servire un altro cliente.
Arrivò l’altra cameriera con il bricco del caffè e riempì la tazza di Earl.
“Chi è la tua amica?”, le chiese, indicando la moglie con la testa.
“Si chiama Doreen”, rispose la cameriera.
“È cambiata un sacco dall’ultima volta che sono stato qui”, disse.
“Non saprei”, disse la cameriera.
Mangiò il cheeseburger e bevve il caffè. I clienti continuavano ad alternarsi al bancone. Li serviva quasi tutti Doreen, anche se ogni tanto anche l’altra cameriera veniva a prendere un’ordinazione. Earl osservava la moglie e ascoltava attentamente ogni commento. Per due volte fu costretto a lasciare il suo punto di osservazione per andare in bagno. Ogni volta si chiese se nel frattempo gli fosse sfuggito qualche cosa. La seconda volta, tornando dal bagno, la sua tazza non c’era più e il suo posto era occupato da un altro. Prese uno sgabello in fondo al bancone, accanto a un signore più anziano che indossava una camicia a strisce.
“Cos’altro vuoi ?”, Doreen gli chiese quando lo vide di nuovo seduto al bancone. “Non dovresti essere a casa?”
“Dammi un altro caffè”, rispose lui.
Il signore accanto a Earl stava leggendo il giornale. Alzò lo sguardo quando Doreen versò una tazza di caffè per Earl. Lanciò un’ occhiata a Doreen mentre lei si allontanava e si mise a leggere il giornale.
Earl sorseggiò il caffè e attese che l’uomo dicesse qualcosa. Lo osservava con la coda dell’occhio. Il signore aveva finito di mangiare e aveva già spinto il suo piatto da una parte. Si accese una sigaretta, piegò il giornale e continuò a leggere.
Doreen arrivò, tolse il piatto sporco e gli versò dell’altro caffè.
“Che ne dice di quella, eh?”, Earl chiese all’uomo, accennando con la testa a Doreen che si allontanava lungo il bancone. “Non le pare una cosa eccezionale?”
L’uomo alzò lo sguardo dal giornale. Lanciò un’occhiata a Doreen, una a Earl e poi si rimise a leggere.
“Allora? Che ne pensa?”, insiste Earl. “Dico io: è o non è uno schianto? Che ne dice?”
L’uomo scosse il giornale, infastidito.
Quando Doreen si riavvicinò a loro, Earl diede di gomito al vicino e disse: “Le voglio dire una cosa. Stia a sentire. Le guardi bene il culo. E adesso stia a vedere. Potrei avere un gelato guarnito al cioccolato?”, ordinò ad alta voce, rivolto a Doreen.
Lei si fermò davanti a lui e tirò un gran sospiro. Quindi si voltò, prese una ciotola e la spatola per il gelato. Si chinò sopra al freezer e s’abbassò per affondare la spatola nel gelato. Earl guardò l’uomo e gli strizzò l’occhio quando la gonna di Doreen cominciò a risalirle sulle gambe. Ma lo sguardo dell’uomo incrociò quello dell’altra cameriera. Allora si mise il giornale piegato sotto il braccio e s’infilò una mano in tasca.
L’altra cameriera andò dritta da Doreen. “Ma chi è quel personaggio?”, le chiese.
“Quale?”, domandò Doreen, voltandosi con la ciotola del gelato ancora in mano.
“Quello là”, disse la cameriera indicando Earl con un cenno del capo. “Chi è quel buffone, eh?”
Earl sfoggiò il suo miglior sorriso. Continuò a sorridere finché non sentì che quel sorriso forzato gli stava deformando la faccia.
Ma l’altra cameriera continuava a osservarlo, mentre Doreen cominciava a scuotere lentamente la testa. Intanto l’uomo aveva posato qualche spicciolo accanto alla tazza e si era alzato in piedi, ma anche lui restava in attesa di sentire la risposta. Tenevano tutti gli occhi puntati su Earl.
“È un commesso viaggiatore. È mio marito”, disse infine Doreen, alzando le spalle. Poi piazzò il gelato davanti a lui senza nemmeno guarnirlo di cioccolato e gli andò a battere il conto.