di Caterina Graziadei
È raro potersi stupire all’ennesima rilettura e ancora più raro emozionarsi. Così succede leggendo la nuova traduzione che Paolo Nori [nell’immagine a destra] ha dato del romanzo di Michail Lermontov Un eroe dei nostri tempi, dove le innovazioni si annunciano già dal titolo, nel plurale che muta il singolare “del nostro tempo”, con cui una tradizione ben salda esprimeva la contemporaneità, fedele all’originale russo. L’autonomia delle scelte di Nori colloca la sua traduzione accanto alla traduzione di Rebora del Cappotto gogoliano o a quella di Landolfi per La Dama di picche di Pushkin. Così spicca l’aver reso in un dialetto d’invenzione, plasmato su una cadenza meridionale, la parlata del ragazzo cieco in Taman’, che Lermontov sottolinea come “piccolo russo”, restituita finora con un italiano corretto o appena alterato. Dunque, sin dall’acquisto in libreria, il lettore che abbia consuetudine con questo testo straordinario (è d’abitudine datare dalla sua stampa nel 1840 l’inizio del romanzo psicologico russo), si aspetta qualcosa di nuovo, una scoperta. Non verrà deluso.
Anzi, per chi sia solo un lettore e si accosti a questo classico, ecco la sorpresa di un italiano duttile, piano e nervoso al contempo, perfettamente aderente al russo di Lermontov, come la famosa camicia invocata da Benjamin per il prototipo del traduttore. Ed è la camicia, o meglio la biancheria di Pechorin, il punctum del terzo paragrafo della postfazione, dove Nori fissa “un’immagine fortissima destinata ad accompagnare il personaggio nella coscienza del lettore fino alla fine del libro”, ovvero ci ricorda di quella biancheria che noi di nuovo intravediamo “di una pulizia accecante”, mentre spunta dalla “polverosa finanziera di velluto, allacciata solo nei due bottoni più bassi”. Potrebbe essere un’elegante trasposizione letteraria della ritrattistica ottocentesca (da Ingres, a Gericault fino a Brjullov, ben noto a Lermontov, a sua volta buon pittore dilettante) con quel particolare tratto di biacca che si staglia dal fondo scuro. Invece diviene altro, segno, procedi diviene altro, segno, procedimento letterario per la considerazione che “rivelava le abitudini di un uomo come si deve”, con cui si chiude la prima parte del ritratto. Riconosciamo il giovane ufficiale Pechorin di stanza nel Caucaso, che funge da cornice per i singoli episodi à emboîtage, dove Lermontov alterna tre voci narranti, tre sguardi che dirigono il lettore nella scoperta di una singola anima. Nori lascia poi voce allo zar Nicola I, censore di Pushkin e di Lermontov, nonché loro indiretto carnefice, ne alterna le contraddittorie lettere alla consorte Aleksandra Fëdorovna con i giudizi di critici del tempo e con il sagace commento di Nabokov il quale, nello smontare l’abile congegno di questo romanzo a incastro (cinque racconti con false chiuse e inversioni temporali tanto ben dissimulate da sfuggire a una prima lettura), aveva sorpreso Pechorin nelle attitudini di un voluto antieroe, spesso malaccorto, còlto più volte a origliare come un gaglioffo, dotato del correttivo di una costante autoironia. Il tipo del giovane dandy annoiato e funestato da spleen, acedia, una venatura di nichilismo, era già moneta corrente nelle lettere europee, dagli eroi byroniani all’Adolphe di Constant, all’Octave di de Musset fino all’insuperato modello russo, l’Onegin di Pushkin. Con Pushkin e con il suo eroe Lermontov ingaggia un tacito duello (scena dominante e decisiva nella cultura russa del primo Ottocento) trasferendo in una prosa trasparente la qualità del capolavoro in versi del maestro-rivale. Sposta l’azione da Pietroburgo e dalla campagna nel Caucaso, riveste l’eroe dell’uniforme d’un ufficiale degli ussari (Lermontov era stato cornetta di reggimento) e relega il tono da novella mondana nel quarto racconto. Con il suo perfetto equilibrio tra descrizioni di paesaggio (un Caucaso non di maniera, una Cecenia impervia e crudele) e dialoghi rapidi con brevi meditazioni introspettive, sempre connesse con un andare, ritmate sul passo del viaggiatore-viandante, la prosa di Lermontov incanta per quella sua aura “daimonica”, come ne scrive Mirskij, per il carattere di “incisione a punta secca” che Cechov amava in Taman’. Nel racconto più lungo, in posizione centrale, La principessina Meri (una scelta di Nori la rinuncia ad anglicizzare il nome), Lermontov, fingendo una estrapolazione dal presunto diario di Pechorin, ambienta l’azione alle acque termali di Pjatigorsk, là dove, intreccio fatale di letteratura e vita, egli stesso nel 1841 troverà la morte in un vero duello, scambiando il ruolo con il ridicolo, smargiasso Grushnickij, l’alter-ego inopportuno che invece muore nel duello letterario con Pechorin. Nella Principessina Meri la tensione emotiva del lettore tocca un vertice, la fine del quarto racconto sembra infatti coincidere con lo scioglimento finale, mentre la fisionomia morale, la discussa amoralità del protago nista, appare ormai acquisita. È il punto dove molta critica, lettori avveduti e sottili del romanzo, come di recente Doris Lessing (che ne cura la prefazione per l’edizione inglese di prossima stampa per la Hesperus Press), pensano di avere il ritratto completo dell’eroe, meglio dell’antieroe, di essere autorizzati a parlarne, emettendo un giudizio, spesso di carattere psicologico o morale appunto, come toccò al suo primo censore imperiale, mentre lo scrittore Lermontov, che molti tratti propri aveva prestato a Pechorin, sorprende ancora per lo scarto riservato al lettore non impaziente nell’ultimo racconto, il quinto, Il fatalista. Qui si gioca la posta della vita e insieme il senso ultimo del preteso nichilismo di Pechorin. Connessione inattesa, ritroviamo “il povero Maksim Maksimyc”, il capitano che ci sembrava di aver lasciato per sempre al terzo giro dell’accidentato percorso del romanzo, nell’episodio che ne porta il nome, dove i tre narratori convergevano. Al vecchio soldato, spetta farsi portatore della saggezza e rassegnazione popolari, come lo era stato di semplice umanità nel primo racconto, Bela, dove si opponevano due modi di vita, due culture: la città, Pietroburgo, contro la natura selvaggia del Caucaso. Nel Fatalista, in simmetria speculare, Lermontov confronta Occidente e Oriente, l’interrogativo sulla predestinazione e sul libero arbitrio, adombrati nel tema del gioco e della sfida, ovvero la partita con il fato. La scrittura di Lermontov acquista adesso maggiore nettezza, essenziale come un sillogismo persegue un fine preciso, pone la domanda sul significato dell’esistenza e sull’agire dell’uomo, implicitamente la lega al conflitto storico e politico della Russia dopo l’insurrezione decabrista. Eppure, sullo sfondo tragico dell’evento singolo, la morte accidentale del deuteragonista Vulic, cogliamo solo per sottintesi la crisi di un’intera generazione, che ben collima con il titolo, condensando temi della cultura russa dell’Ottocento. Non si percepisce alcun gravame ideologico, nessuna legnosità dimostrativa. Il racconto procede rapido come una partita tra esperti giocatori, “rifugge dalle tirate romantiche” e rispetta piuttosto l’insegnamento esemplare di Pushkin , di “spiegare con semplicità le cose più normali”, riportato da Nori nella sua “Terza osservazione”, che noi leggiamo come una dichiarazione di poetica. In essa Lermontov si specchia su Pushkin, il traduttore su entrambi.