[Wu Ming:] Si è concluso il progetto di narrazione collettiva “La prima volta che ho visto i fascisti”, lanciato il 21 marzo scorso sul n.7 di Giap (VIa serie). Abbiamo raccolto e montato quarantasei testimonianze spediteci in poco più di un mese. Ne è venuto fuori un vero e proprio libro di ottantadue pagine, che ora diffondiamo sotto licenza creative commons. E’ scaricabile dal nostro sito in formato pdf (354 kb). In anteprima, la prefazione.
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Quel che segue è un eterogeneo insieme di testimonianze: pagine di diario, frammenti, racconti, reminiscenze, visioni febbrili. Testi curati o tenuti per anni in un cassetto della mente, rovesciati sulla pagina d’istinto, di getto, senza preoccupazioni di estetica o di stile. Persone dai diciotto ai sessant’anni ci narrano storie, esperienze d’infanzia, ustioni e abrasioni della pubertà o della tarda adolescenza, primi incontri con la violenza, col “fascismo-sostantivo” (il fascismo storico) o col “fascismo-aggettivo” (epiteto da usare lato sensu), col “vetero-“, col “neo-“, col “post-” e col “cripto-“fascismo, col “microfascismo” quotidiano (insidiosa logica della prevaricazione), col fascismo trauma personale e familiare, stanza privata dei cimeli e degli orrori, refolo d’aria viziata.
Variabili e costanti: Roma, Trieste e Latina consueti focolai di fascismo; l’Emilia-Romagna e la Toscana “rosse”; il liceo, porta-finestra spalancata sulla vita “là fuori”; manifestazioni, attacchinaggi, “strappinaggi”, cariche di celere, agguati dietro gli angoli; padri, madri, nonni, bis-nonni, soprattutto nonne, nonne che non vogliono vedere i nipoti vestiti di nero.
La selezione da parte nostra è stata minima, l’editing quasi esiziale, l’ordine dei racconti è quello in cui li abbiamo ricevuti. Ve n’è di molto belli, e di sgraziati. In alcuni di essi non vi è traccia di buon gusto, e il loro impatto “inelegante” è antidoto al veleno del “nuovo senso comune post-antifascista”.
In luogo del buon gusto, un pugno di piccole, disturbanti verità, una delle quali è: non c’è “memoria condivisa”. La memoria della vittima non è la stessa del carnefice, e occorre impedire ai carnefici di spacciarsi per vittime, come da troppo tempo accade: non più torturatori e delatori, bensì vittime dei partigiani del “triangolo rosso”; non più collaborazionisti e miliziani, bensì vittime delle “foibe titine”; il Duce e Claretta vittime a Piazzale Loreto etc.
L’ineleganza di questi testi, a ben vedere, è la stessa di Piazzale Loreto. Non bisogna distogliere lo sguardo quando si passa di là, perché si tratta di un memento: per quanto potenti, i tiranni cadono, prima o dopo. Sic transit.
Memento duro? Certo. Come duro fu il cingolo della “gloria mundi” fascista sulla cassa toracica di chi venne travolto, come dura è la nascita dei popoli.
Non cadiamo nelle trappole: questo Paese ha cominciato a imbarazzarsi per Piazzale Loreto piuttosto di recente, col graduale “sdoganamento” del punto di vista di chi vi fu appeso per i piedi. La condanna di quell’episodio si è fatta strada da destra, ha attraversato gli schieramenti, e oggi arriva anche a “sinistra”. Si tratta quasi sempre di una condanna che astrae dal contesto.
Oltre a quello del “sadismo sulle povere spoglie”, c’è un altro argomento magico, introdotto a suo tempo da “terzisti” ante litteram: a infierire sul corpo del tiranno ci sarebbe stata la stessa gente che l’aveva applaudito un mese prima. Episodio di “gattopardismo militante”, insomma, azione finalizzata a un lesto riciclaggio sotto le nuove bandiere.
Fanfaluche. Piazzale Loreto fu scelto perché un anno prima, dieci agosto del ’44, vi si era consumato un eccidio di quindici partigiani. I corpi distrutti dalle raffiche erano rimasti a terra per tutto il giorno per esser visti dai passanti. Montavano la guardia militi fascisti, a impedire che chiunque rendesse omaggio, deponesse un fiore, dicesse una preghiera.
Il ventotto aprile del ’45, in quel piazzale convennero soprattutto persone che ricordavano l’oltraggio, e prima e dopo quel giorno avevano subito lutti, coprifuoco, bombardamenti, retate, propaganda reiterata, esposizioni di cadaveri di antifascisti.
Di fronte a quel distributore di benzina, la guerra tornava a boomerang a devastare i corpi di chi i corpi li aveva fatti sorvegliare, rinchiudere, devastare (Carlo e Nello Rosselli, squartati con decine e decine di pugnalate), profanare, li aveva spediti in guerra a decine di migliaia, ad affrontare l’inverno russo con stivali di cartone pressato.
Piazzale Loreto non è solo barbarie, è anche speranza. I potenti cadono, e più erano saliti in alto, più chiasso fa il tonfo, e più a lungo ne rimane l’eco nelle orecchie. Ancora oggi se ne sente il riverbero, lo testimoniano questi racconti.
– Ah, ma continuate a occuparvi di cose di sessant’anni fa, quando passerà questo passato di ideologie, quando lascerete vivere in pace questa nazione?
Al contrario, noi ci occupiamo del presente. Dell’assalto alla costituzione formale per portare a termine l’arrembaggio a quella materiale, ai diritti civili e collettivi, all’eredità positiva di lotte sociali e sindacali che l’antifascismo l’avevano nella carne e nei nervi.
Negli ultimi trent’anni si è andato creando e imponendo un nuovo senso comune “anti-antifascista”, nutrito di banalizzazioni, minimizzazioni, luoghi comuni, riscritture storiche, clichés reiterati prima in nicchie di discorso e poi sul piano generale.
E’ in corso una riabilitazione del fascismo che va oltre la contingenza, oltre l’immediata attualità, oltre la sopravvivenza di questa o quella compagine di governo. E’ un’operazione partita molto prima di B********, e proseguirà anche dopo.
Certo, solo nel periodo 2001-2005 la RAI poteva mandare in onda la cerimonia di consegna del premio Almirante.
Solo un governo come quello di B******** poteva pensare di tagliare i fondi all’ANPI in vista del Sessantennale della Liberazione e, al contempo, proporre la pensione di guerra a repubblichini e reduci italiani delle SS.
Solo B******** poteva equiparare il confino degli antifascisti a una “villeggiatura”.
Solo nel clima posteriore allo “sdoganamento” del neofascismo si potevano definire “incidente di percorso” le leggi razziali del ’38, e arrivare a dire che “Almirante salvava gli ebrei”.
Solo l’ansia revanscista degli “sdoganati” poteva intitolare vie e piazze di diverse città a gerarchi e capimanipolo.
Solo nel paesaggio mediale deturpato dagli ecomostri di sottogoverno potevano affacciarsi sceneggiati televisivi in cui il nazifascismo scompare del tutto lasciando il posto a generici “italiani”.
Tuttavia, questo non è che l’apice di un processo iniziato fin dal Dopoguerra, movimento che prima di confluire nel grande fiume democristiano ebbe come prima, rudimentale espressione politica l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini, dopodiché prese forma su certi rotocalchi popolari a larghissima tiratura, pregni di languori monarchici e nostalgia piccolo-borghese, laboratori ideologici di un’Italietta che presto si sarebbe definita “maggioranza silenziosa”, ostile al movimento operaio, al conflitto, al pluralismo, al “culturame” (celebre neologismo scelbiano), alla stessa Costituzione. Una parte d’Italia mai stata antifascista, che consumava le opere di divulgazione pseudo-storica di autori come Montanelli, Cervi, Gervaso, Petacco, e pian piano creava mito revanscista sulle foibe, sull’esodo istriano-dalmata, sui regolamenti di conti dell’immediato Dopoguerra, in attesa di tornare a esprimersi senza pudori né ipocrisie, fuori dal ghetto del neofascismo (chi c’era rimasto) e fuori dalla – mai accettata – cultura della mediazione, dalla gabbia di ferro dei linguaggi “dorotei”, “morotei”, delle “convergenze parallele” etc.
Insomma, siamo molto oltre il “revisionismo storico”, di fronte a un’operazione ideologica a vasto raggio, pluridecennale, vero e proprio “rastrellamento del pensiero”. Questa non è stata soltanto la lunga premessa culturale alla situazione che stiamo vivendo, bensì la sua base strutturale, il reale presupposto di tutta la propaganda a seguire. I partigiani? Tutti comunisti pronti all’insurrezione, e tutti assassini. Nel ’45 hanno preso il potere e lo hanno mantenuto fino alla rivoluzione democratica del 2001, quando B******** e i suoi alleati han vinto le elezioni, con l’intento di cambiare la Costituzione “bolscevica” (“che limita la libertà d’impresa”, ipse dixit).
Quest’offensiva non cesserà con l’inevitabile caduta di B*******. Peccheremmo di “autonomia del politico” se lo credessimo. Il blocco socio-culturale che ha mandato al potere questi impiastri continuerà a lottare con la forza di stereotipi e tormentoni.
Purtroppo, nemmeno i “nostri” ambienti (chiamiamoli “radicali”, “di movimento”, “di sinistra”, you-name-it) sono impermeabili alle riscritture e banalizzazioni della storia: l’ideologia di cui sopra si fa strada anche tramite la condanna retroattiva e indiscriminata di ogni uso della forza. Da questo punto di vista, nel movimento c’è un grande banco di pesci pronto ad abboccare su questioni come le foibe etc. etc.
Nella notte in cui tutti i combattenti sono vacche e tutte le vacche sono nere, un attore d’avanspettacolo qualunquistico, fresco reduce dei “fasti” d’uno sceneggiato televisivo cripto-fascista, può essere invitato al congresso di un partito della sinistra a leggere lettere dei condannati a morte della Resistenza. Accostamento osceno, ma tout se tient, e tutto fa brodazza.
“In Italia più ancora che altrove, un’idea penitenziale del Novecento ha espunto dal discorso pubblico sul secolo scorso ogni considerazione valoriale, facendo tutto rientrare dentro il buco nero della nozione di carneficina […] Per una sorta di malintesa ricompensa postuma, i più vari profili di morti ammazzati del Novecento… sono stati riuniti in un unico, smisurato, pletorico limbo di vittime: milioni di uomini e di donne colpevoli soltanto del peccato originale di essere nati in un secolo di ferro” (Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004).
Wu Ming, 24 aprile 2005
N.B. Un ringraziamento va alla trasmissione di Radio Popolare Sherazade, che ha rilanciato via etere, via satellite e via web l’invito a spedirci racconti.