di Riccardo Valla
James White era nato a Belfast nell’aprile del 1928 ed è morto nell’agosto del 1999, privando la fantascienza inglese di uno dei suoi autori più amati dal pubblico, anche se la critica specializzata – la quale, tra gli inglesi, pare tenere conto soltanto di Disch – si è sempre disinteressata delle sue opere. Il solo che venne notato, ai suoi tempi, è un romanzo del 1966, Incontro nell’abisso (The Watch Below), storia di un gruppo di superstiti che si crea un habitat autosufficiente in alcuni sezioni di una grande nave da carico affondata. A dare respiro alla vicenda è l’incontro con un gruppo di extraterrestri che si nasconde nel mare per studiare la Terra. Anche se la storia è un po’ claustrofobia, la vicenda parallela dei due gruppi è narrata in modo corretto e convincente e deve essere quella che ha ispirato a Crichton una delle sue storie.
Del resto, nel fatto che nessuno parli di White non c’è niente di strano: siamo in uno dei ricorrenti periodi in cui gli esperti di fantascienza si atteggiano a letterati, e parlano solo degli autori “letterari” e di Dick in particolare (nello stesso tempo le riviste accademiche che si occupano di fantascienza sono sommerse da articoli sulla Svastica sul sole e si lamentano perché nessuno manda loro qualche studio su Sturgeon o su Simak). Perciò, per paura di non essere à la page, degli autori americani di trent’anni fa si parla poco e di quelli inglesi ancor meno. Eppure c’erano ottimi scrittori, da Bob Shaw con le sue storie di Orbitsville e del “vetro lento”, a Barrington Bayley con le sue intelligenti variazioni sulla natura del flusso de tempo (La caduta di Chronopolis), a David Compton, autore di quell’Occhio insonne che ispirò un film di Tavernier e che anticipa tutta la tematica della TV delle persone comuni e della vita privata come spettacolo per le folle: un romanzo forte e intenso e straordinariamente profetico. Ma viene trascurato lo stesso John Brunner, che ebbe rinomanza all’epoca in cui pubblicò Tutti a Zanzibar, ma che oggi nessuno si ricorda di citare come autore di un altro dei libri fondamentali sulla TV del futuro, l’ironico ma non meno profetico L’orbita spezzata, e di uno dei primi romanzi sui pirati della “rete”, Codice 4GH, un testo cyberpunk con parecchi anni d’anticipo su Gibson. D’altronde anche varie opere minori di Brunner dovrebbero avere interesse per il lettore d’oggi, soprattutto quelle che dimostrano per assurdo i mali della società, come Eclissi totale. Ma è anche importante Il telepatico, con la sua particolare immagine della realtà virtuale: messaggi telepatici che i protagonisti si inviano e che saturando tutti i “sensi” creano una realtà “interna” indistinguibile da quella esterna, Il tema è stato ripreso molte volte, ma mai con la chiarezza e la semplicità di Brunner.
Da tempo la critica si è dimenticata di questi autori, ma in parte la dimenticanza è un effetto della grande effervescenza di quegli anni: intorno al 1970 anche alla produzione media, e non solo a quella degli autori più noti, corrispondeva un’elevata qualità. Sono gli anni di Pohl, di Niven e Pournelle, della Bradley, di Farmer e Vance, di Zelazny, ma anche di Silverberg e di Malzberg, di Lafferty e di Spinrad, e anche autori come Koontz mostrano una quantità d’idee che sarebbero molto più adatte al gusto d’oggi che a quello di allora. In un certo senso anche gli anni intorno al 1970 furono un’Età dell’Oro: in breve tempo e grazie a nuovi autori che venivano da studi di tipo letterario e umanistico, la fantascienza si riprese dal calo del periodo 1955-65, quando gli spunti degli anni 40 e 50 – il classico viaggio nello spazio e l’incontro con gli extraterrestri – avevano esaurito il loro richiamo. Quegli spunti avevano suscitato l’interesse del pubblico che credeva nella ricostruzione dopo essere usciti da una guerra mondiale che sembrava voler abolire ogni futuro e verso il 1950 avevano dato origine a un grande boom della fantascienza. Col boom, però, quegli spunti avevano suscitato l’attenzione di Hollywood. Diffusi in tutto il mondo grazie a una serie di film altamente spettacolari – dagli Uomini sulla Luna a Il pianeta proibito – erano infine morti per troppa salute, ossia avevano esaurito la ricettività del pubblico. Come quei lieviti della birra, la fantascienza era stata spenta dal suo eccessivo successo (e non, come si suol dire, dalla delusione del pubblico per le prime navicelle sovietiche: ossia, detto in modo sbrigativo, la gente non smetteva di comprare “Urania” perché c’era un cane in orbita, ma perché aveva già visto al cinema quello che leggeva nel fascicolo).
Oggi siamo arrivati a una situazione in cui i nuovi lettori conoscono solo gli autori pubblicati negli ultimi due o tre anni, ossia finché il volume non è esaurito, e a interrogarli si scopre che non hanno mai letto storie come Ammazzare il tempo di Sheckley o Qui si raccolgono le stelle di Simak, o buona parte di Silverberg. Ora, finché il nuovo lettore, non conoscendo le opere degli scorsi decenni, esalta qualche autore di questi anni ed esagera magari un po’ con i superlativi, il fatto è comprensibile, ma è meno comprensibile che la stessa cosa succeda a molti “esperti” sia italiani sia statunitensi.
D’altronde, anche a esaminare i testi di allora, si scopre una differenza con quelli di adesso, legata al fatto che oggi tutti scrivono con il computer: i romanzi di allora erano più “rivisti”, perché passavano attraverso varie correzioni, dell’autore, del redattore editoriale, e se c’era una prima versione a puntate su una rivista, le correzioni si raddoppiavano. Insomma, i romanzi di quegli anni erano affascinanti oggetti d’artigianato fatti a mano.
E gli artigiani inglesi, rispetto a quelli statunitensi, avevano una tradizione che dovrebbe avvicinare al nostro gusto le loro opere: un maggiore interesse per i puzzle logici (la differenza che c’è nel giallo tra la Christie e Hammett), una tendenza a presentare situazioni della vita di tutti i giorni. È questo un filone che, nonostante le doppie pubblicazioni al di qua e al di là dell’oceano, rende la fantascienza inglese intrinsecamente diversa da quella americana. Infatti, mentre in quella americana c’è sempre alla base un’immaginazione scientifica con grandi macchine, grandi astronavi, grandi armi, grandi scienze, dato che essa deriva dalla tradizione di Hugo Gernsback, E.E. Smith e John Campbell, quella inglese deriva da Wells e non ha mai avuto la passione per la macchina o la scienza in quanto tali, ma solo come espediente per mostrare l’umanità che se ne servirà. Questa discendenza è pienamente visibile in John Wyndham, che prese a scrivere un tipo di storie alla maniera di Wells dopo essersi accostato a vari altri generi di fantascienza, da quello della “razza perduta” (Il popolo segreto), sulla scia di Haggard e di Merritt, a quello interplanetario-avventuroso di Avventura su Marte. Wyndham iniziò la sua fase wellsiana con L’orrenda invasione, che è una storia di crollo e ricostruzione della civiltà sul tipo della Guerra dei mondi e anche le sue raccolte di racconti hanno un sapore wellsiano. Analogo a L’orrenda invasione è il successivo Il risveglio dell’abisso, anch’esso una classica storia wellsiana di distruzione della civiltà.
Negli stessi anni in cui Wyndham trovava la misura a lui più congeniale, cominciava l’attività il personaggio a cui è maggiormente legata la carriera di James White: l’editore John Carnell, il quale iniziò nel 1949 la pubblicazione della più importante rivista inglese di fantascienza, New Worlds. Nella ventina d’anni che seguirono, la rivista subì numerose trasformazioni: dalle copertine dilettantesche delle origini a quelle di Brian Lewis dei medi anni ’50, per poi passare a copertine fotografiche o astratte; infine, quando Carnell la lasciò, divenne l’organo ufficiale di Ballard e Moorcock per le loro esuberanze “new wave” (che a dire il vero erano più goliardiche che altamente letterarie come volevano far credere), ma negli anni centrali della direzione di Carnell James White ebbe un suo ruolo di primo piano, tanto che Carnell scelse lui per celebrare con una sua nuova storia l’uscita del centesimo numero.
Nonostante la sua importanza, New Worlds non ebbe sempre la vita facile, perché a farle concorrenza c’erano le edizioni inglesi delle riviste americane: Amazing ebbe per vario tempo un’edizione inglese uguale a quella americana, Astounding inglese presentava una selezione del materiale americano; e a partire dal 1953 ci fu un’edizione inglese di Galaxy, anch’essa una selezione del materiale americano. E in un certo senso era americano anche l’unico concorrente inglese, ossia le varie edizioni pubblicate sotto il nome di “Vargo Statten”, perché erano storie apparse originariamente negli Stati Uniti. Si trattava delle opere dello scrittore inglese John R. Fearn, che a partire dalla seconda metà degli anni ’30 era stato un regolare collaboratore delle riviste americane. In America pubblicava sotto il proprio nome e sotto vari pseudonimi, in Inghilterra usava “Vargo Statten”. In Italia alcuni suoi romanzi sono stati pubblicati dai vecchi “Romanzi di Urania” come se fossero di un autore francese: evidentemente sono stati presi dall’edizione francese della collana Fleuve Noire. Erano oneste “space opera”, non prive di un certo genio nella descrizione degli ambienti e dei personaggi: ricordiamo con simpatia La forza invisibile e Il maestro di Saturno. È il tipo di storia che di solito associamo a Murray Leinster; l’invenzione di Fearn non è allo stesso livello, e l’inglese non ama dilungarsi in quelle paradossali spiegazioni scientifiche con cui Leinster si copre le spalle, ma nel racconto a ruota libera, inventare per inventare, Fearn lo batte sicuramente. (In letteratura, nella novellistica, gli scrittori popolari hanno una loro posizione tra i minori: per esempio, gli Ecatommiti di Giraldi Cinzio non sono all’altezza di Dante e Boccaccio, ma nessuno si sognerebbe di cacciarlo via dalle storie della letteratura. Nella fantascienza, invece, autori che hanno una vasta produzione e hanno avuto un buon successo sono considerati indegni di attenzione perché troppo ingenui. Quelli che invece scrivono in modo impegnativo, non hanno interesse letterario perché sono eccessivamente complicati. Insomma, restano solo Dick e Disch.)
La caratteristica storia di White vede l’incontro tra uomini ed extraterrestri, ma al di fuori delle consuete situazioni della fantascienza, che in genere vedevano due soli esiti dell’incontro: o uomini ed extraterrestri cominciano a spararsi addosso, oppure si alleano per sparare addosso a una terza razza. Il tipo di incontro descritto da White è molto più tranquillo e pratico e si svolge su un piano di collaborazione, un po’ come nei racconti che Simak scriveva da una decina di anni: le storie di Anni senza fine e gli incontri con extraterrestri che apparivano bei racconti di quegli anni e che gli avrebbero poi ispirato il romanzo Qui si raccolgono le stelle. Ma si tratta di un movimento con vari aspetti: da una parte gli alieni minacciosi, intenzionati a invadere la Terra e a impadronirsene risultavano poco credibili, e finivano relegati nei film dell’epoca, dall’altra c’erano scrittori come Sheckley che ironizzavano sulla figura dell’alieno guerrafondaio e l’altra faccia della medaglia, ossia quelli che tendevano a immaginare realisticamente gli alieni. Negli anni seguenti sarebbero apparse nella fantascienza molte razze di alieni plausibili e a modo loro affascinanti, tanto che apparve perfino un volume illustrato dedicato ad essi, La guida di Barlowe degli extraterrestri. Tra gli autori che maggiormente si sono distinti nell’immaginare questo tipo di razze spicca anche nel volume di Barlowe Piers Anthony, che nella sua serie dell'”ammasso locale” presenta un grande numerosi razze: i polariani, gli abitanti di Capella, una razza acquatica dotta di tre sessi, gli abitanti di Spica con i loro laser organici, una forma intelligente con il corpo di metallo e capace di muoversi mediante campi magnetici, un’altra dotata di un reattore organico che le premette di muoversi a getto. Tutte queste razze sono descritte nei loro pianeti d’origine ed entro una complessa società multirazziale.
Il primo di questi romanzi di White sul contatto tra razze è I visitatori occulti, del 1957, in cui gli esponenti di una razza extraterrestre vivono tra noi per studiare la terra; appartiene a questo filone anche Vita con gli automi, del 1961, in cui l’ultimo uomo vivente è affidato alle cure di robot intelligenti che cercano di ricostruire l’umanità. All’incontro tra razze appartiene anche il già citato Incontro nell’abisso, mentre la sua ultima opera, Il sogno del millennio, del 1973, arriverà a questo tema alla fine, dopo la discesa su un pianeta diverso dalla Terra, mentre la parte centrale del libro è occupata dai “sogni creativi” di uno dei personaggi, che attraverso questi “scenari” (dato che i sogni sono modelli di possibili situazioni) sceglie le proprie azioni.
L’opera più famosa di White resta comunque Stazione Ospedale, un gruppo di racconti scritti circa uno all’anno a partire dal 1957 e riuniti tra loro all’inizio degli anni ’60: la serie di racconti sul “Settore Generale”, il gigantesco ospedale spaziale altro il doppio dell’Empire State Building. La stazione ospedale è diventata famosa, tanto che tutte le volte che c’è una serie di incontri con extraterresti si parla di un “romanzo tipo Stazione Ospedale“. White prende lo spunto da due vecchie serie, quella di “Ole Doc Methuselah” di Hubbard e quella del “Med Ship Man” di Leinster, ma adatta il concetto di fondo a quello che è il vero protagonista dei racconti, ossia la sua classificazione delle forme di vita non umane, a seconda delle condizioni fisiche del loro mondo. Il sistema è un adattamento di un analogo sistema utilizzato da E.E. Smith per classificare le forme viventi non terrestri del ciclo dei Lensmen, anche se quello di Smith si basava su caratteristiche del corpo come il tipo di sangue, la posizione della testa, il numero degli arti. Nella formulazione di White il sistema è divenuto così ben congegnato da non avere indotto nessun altro scrittore a perfezionarlo, e resta tuttora il più plausibile di quanti ne siano stati immaginati.