di Fulvio Papi
Un filosofo, come molti altri, sente spesso parlare della crisi della politica come una pratica inadeguata rispetto ai problemi più importanti del nostro vivere contemporaneo. La politica, nel caso migliore, diventa un’area auto-referenziale del discorso che, solo in poche circostanze riesce ad essere occasione per la formazione di una comunità omogenea. Nel sociale appaiono aree di politicità generazionali, locali, ambientali, ciascuna con una propria retorica incapace, per lo più, di valicare i propri confini. Ma per tradizione la polis da costruire è una, e, sebbene nel mondo contemporaneo quest’osservazione sia talmente fragile da apparire una metafora fuori luogo, essa segna il perimetro di una domanda intorno a quali siano le condizioni per cui il desiderio di essere politici possa disegnarsi come una politica. Non si tratta, come vedremo, di un codice normativo e rigido che sarebbe ridicolo, ma dell’esplorazione dell’orizzonte che si accompagna a un comportamento intellettuale e pratico che cerca la strada difficile della politica.
Politica: saper fare per realizzare uno scopo
La mia tesi è molto semplice. La politica va concepita come un quadro d’azione in un contesto determinato, è quindi una invenzione nel senso che la parola può avere in Leonardo da Vinci, un saper fare per realizzare uno scopo, secondo una pluralità di relazioni e di saperi contingenti, dominabili da un’esperienza più o meno elaborata, ma non riducibile nell’ambito di una teoria. L’invenzione politica, come tecnica operativa, era del resto caratteristica di Machiavelli che, nella sua invenzione, faceva confluire una serie di saperi più astratti e meno astratti, più durevoli e più contingenti. Poteva persino essere una forma di pensiero del primo Cinquecento.
Si può certamente parlare di politica dal punto di vista di una scienza politica, come sapere oggettivo dell’insieme di elementi che costituiscono la pratica politica. Questo sapere è tipico della grande tradizione occidentale della conoscenza. Ma quando si parla di politica come azione, il problema è completamente diverso: non si tratta di descrivere istituzioni o procedure, mostrando il rapporto tra la loro finalità e la loro efficacia, ma di mostrare come si possa elaborare, inventare un’azione politica, tenendo conto di un insieme di fattori che la qualifichino come azione politica.
Per dare un’idea chiara di che cosa sto dicendo, ricorderò che c’è stata una celeberrima relazione, propria del tempo appena trascorso, tra ontologia storica o storicismo e azione politica. Sulla concezione del mondo come storia non mi trattengo, perché è certamente molto nota. Cerco invece di vedere come questa visione della storia interpretasse, in un quadro teorico, alcuni fattori fondamentali di quella costellazione di elementi che è propria dell’azione politica. Il linguaggio in cui veniva considerata la relazione tra storia e politica era di tipo filosofico: rendeva piuttosto facile sia l’apertura che il controllo intellettuale della scena politica. Tutto il contrario del caso che dovremo affrontare, dove l’invenzione si deve valere di una pluralità di saperi, dislocati ciascuno nel suo spazio, e non compresi per nulla in una unitaria e organica teoria, come avveniva con la teoria filosofica della storia e della politica. Ricordiamo nell’essenziale la costellazione di elementi che erano propri dell’azione politica, pensata come propria dell’agire politico.
Il fine era l’instaurazione di una nuova forma di vita sociale, come evento reso possibile dalle contraddizioni immanenti nella realtà storica. L’élite politica, illuministicamente, non solo garantiva il rapporto corretto tra teoria e prassi, ma faceva proprio il compito di mostrare pubblicamente la correttezza di questo rapporto, così creava una cultura che era una cultura politica. Il contesto fondamentale, la dialettica storica, era quella dei rapporti di calsse: il quadro storico-istituzionale era quello che ostacolava o favoriva la stessa azione politica, secondo l’opzione teorica che considerava quale mezzo più idoneo, quello democratico o quello rivoluzionario. In questo caso avevamo una invezione politica che si basava su un quadro teorico piuttosto articolato tra analisi economica e sociale, coerente e trasparente a se stesso. Da questo quadro derivava la visibilità della realtà storica nella forma della identità di un soggetto che configurava l’azione politica come derivante da una necessità.
Questo era il disegno condiviso e, al suo interno nascevano le dispute intorno all’efficacia dell’una o dell’altra azione politica. A sua volta, questa scelta diventava il metro della ortodossia intellettuale, e quindi della moralità, della fedeltà, del livello della coscienza. Tra le varie infamie che potevano caratterizzare il tradimento, la più drammatica era certo il misconoscimento del proprio compito storico.
Un’espressione come quella che usò Lenin a proposito del “rinnegato Kautski”, si spiega solo in un contesto di questo tipo, dove la competizione per la correttezza della propria invenzione politica nel quadro della storia era fondamentale e violenta. Ma dello stesso tipo erano le critiche di Rosa Luxemburg a Lenin, o quelle sempre rivolte al leninismo della tradizione poudhomiana e socialista.
Furono polemiche che segnarono un tempo storico, ma ogni parte aveva la stessa convinzione dell’altra, di inventare una politica per finalità che appartenevano a una classe sociale, rappresentabile nel pensiero, ma perfettamente visibile nella pratica quotidiana. La classe operaia era visibile nella realtà sociale, come aggregazione lavorativa, come presenza territoriale, come costume collettivo, come circolazione del linguaggio: tutti elementi che derivavano dalla medesima relazione nel processo produttivo come forza-lavoro.
Lenin ebbe il suo modello vincente di invenzione che fu molto efficace nella contingenza più stretta, il momento della rivoluzione, ma piuttosto fragile e pericolosa per le sue conseguenze nella conduzione politica. Nell’ultimo dopoguerra Mondolfo, in Italia, più come filosofo che come politico, ebbe il suo momento inventivo della politica quando ritenne possibile una vittoria elettorale della sua parte, interpretando in una dimensione rigorosamente democratica la concezione gramsciana della egemonia. Non voglio qui fare questione di interpretazioni, ma si può dire che quivi si reinventava la politica dopo che la prospettiva rivoluzionaria era terminata nel fascismo.
Il giovane Althusser cercò di dare una lezione della “invenzione politica”agli storicismi della autocoscienza, della linearità del processo storico, della contraddizione essenziale, quando cercò di mostrare che la possibilità di un’azione rivoluzionaria era solo nel precipitare di una contingenza, dove il sistema delle cause, per usare un termine tardivo di Althusser, era aleatorio. Rimaneva il presupposto di una forza storica come fine, contesto, consenso che dovevano costituire una comunità politica. Tutte queste posizioni che ho voluto rievocare per avere dinnanzi il nostro passato, appartengono alla storia della filosofia. Sono tutte nei libri, proprio per quella critica delle armi che è l’accadere stesso del mondo. Ma l’inventare è finito?
Un quadro storico
Non c’è nulla da inventare solo se si condivide quello che, negli anni appena trascorsi, è stato il rovesciamento simmetrisco del rapporto storia-politica. Se è finita l’ontologia storica, se non esiste alcun soggetto politicamente organico e visibile, se ciò che costituisce il mondo è solo l’insieme delle prassi dominate dallo scambio economico con le sue regole dominanti e circoscritte, se non c’è alcuna etica possibile che valichi questa immanenza, se non c’è nemmeno felicità che possa essere immaginata o procrastinata diversamente, allora è del tutto ovvio che non esiste alcuna necessità di inventare la politica, perché il suo compito è già conforme all’essere sociale, è l’epopea del calcolo, il racconto mitologico della tecnologia non la tecnologia, un’enciclopedia conforme delle virtù intellettuali e morali, un imperativo dell’efficienza, tutte qualità del mercato che unifica materialmente il mondo al di là delle nebbie delle interpretazioni.
In un disegno di questo genere, peggio che nello stato di Hegel, ciascuno si assume la parte che gli è data, e la politica è un potere coerente con l’essere sociale. Sulla fine della storia cala una metafisica dell’identità, qualità del mercato, dove tecnica ed efficienza che, come si sa, non riescono mai a dire il senso di quello che fanno, ma diventano le immagini sensibili del bene. Una visione provvidenziale si sostituisce a qualsiasi forma di pensiero non esecutivo. In quella che è stata definita come l’epoca della fine delle ideologie, si diffonde l’ideologia più potente che si possa immaginare, quella che si identifica con la realtà.
Chi è critico, in primo luogo, è irreale, e poiché la realtà è buona, il suo animo sarà perverso. Sono esistiti altri momenti storici in cui la politica veniva ritenuta superflua, ma erano argomenti meno forti dell’attuale ideologia, perché non potevano diventare linguaggio socialmente omogeneo, dato che la forma sociale della vita aveva le sue differenze e le sue autonomie di costume e di orientamento culturale.
Positivisti e sainsimoniani puntavano chiaramente sul superamento della politica come prospettiva antiquata di un paese (la Francia) che ormai, se pure in ritardo rispetto all’Inghilterra, puntava alla trasformazione industriale e tecnologica, sulla base del patrimonio scientifico che era stato accumulato prima, durante e dopo l’egemonia napoleonica. Ci sono pagine di Comte evidenti: la politica è solo politica degli stati, così come si era manifestata dopo il Cinquecento: una politica di potenza nei confronti degli altri stati, che Hegel nella “Filosofia del diritto” indica come il conflitto delle volontà universali dei singoli stati. Il punto di vista industriale e sainsimoniano è quello di una società in sviluppo, capace non solo di autoregolazione con un minimo intervento dello stato, ma anche di indicare linee morali di integrazione sociale. È una rivoluzione della politica che, in Francia, prende questi aspetti culturali, ma che altro non è che la ripresa del diritto politico della società civile rispetto alla politica come prerogativa della struttura statuale (su cui si confrontò la grande filosofia politica del Seicento). Economia, scienza e tecnica trasformano il senso e lo scopo della politica. Era accaduto anche nella “old England”quando l’invenzione di nuovi contenuti del fare politico spettò ai benthamiani , che si proponevano di riformare il paese secondo le esigenze che derivavano dai nuovi rapporti sociali, senza mettere minimamente in discussione la potenza dello stato nelle sue relazioni internazionali.
Quando invece la rivoluzione industriale, nei suoi effetti a più lungo termine, provocò la formazione di una classe proletaria, “forza lavoro” al salario minimo per la propria riproduzione sociale, allora l’invenzione politica parve uno strumento inagibile per gli scopi sociali che nascevano dall’esperienza di esclusione e di povertà dei lavoratori della grande manifattura. La divisione più importante all’interno del nascente movimento operaio, intorno all’uso o meno dello strumento politico per la propria difesa, nasceva da una comune ripresa della concezione di David Ricardo che ripone nella quantità di lavoro la misura del valore delle merci. Per il movimento operaio si trattava di poter intervenire nel processo di distribuzione della ricchezza, secondo un’idea di giustizia che derivava direttamente dal ruolo decisivo del lavoro riconosciuto nel processo produttivo. Ma la p politica era proporzionata a questo scopo, o era solo una modalità dell’esercizio dei poteri della classe dominante? La politica poteva essere reinventata, sia nelle sue forme istituzionali che nei suoi contenuti, intesi come mezzi efficienti per trasformare la situazione sociale?
A cose fatte, a noi le risposte paiono semplici, ma questi temi furono decisivi nella cultura del movimento operaio inglese.
Esemplifico molto. Una figura come quella di Thomson si impegnò a fondo nell’associazionismo operaio e nelle varie forme di cooperazione sindacale, come strumenti propri, originali di autodifesa. Ma la sua formazione benthamiana gli consentì di continuare a credere nella possibilità di ottenere riforme sociali a livello legislativo. Il problema si spostava così verso l’obiettivo di ottenere una trasformazione del suffragio politico , e quindi una rappresentanza di nuovi interessi sociali. Occorreva inventare la trasformazione della legittimità politica per ottenere nuove forme di legislazione. Era una strada maestra. Ma il movimento operaio inglese era diviso: Hodskin, forse il più radicale dei socialisti ricardiani inglesi, riteneva che la politica appartenesse all’avversario di classe, e fosse invece necessario puntare più decisamente sulle forme difensive, proprie dell’associazionismo operaio. Forma sociale, costume, cultura del movimento operaio formavano un’identità scissa dalla pratica politica, cultura tipica di un altro orizzonte sociale, quello antagonistico. A noi queste posizioni appaiono un poco astratte nella scena delle idee politiche, ma furono, a livello del vissuto, esperienze molto difficili; basti immaginare il costo emotivo di trasferire la difesa di se stessi in una pratica da cui tradizionalmente si era emarginati. Inventarsi politici era una trasformazione delle radici della vita.
Marx ereditò di fatto entrambe le posizioni del movimento operaio. La formula secondo cui il governo è il comitato d’affari della borghesia, riflette la posizione che rifiuta la pratica politica. Quando invece Marx reinvesta l’azione politica nello scenario teorico di una filosofia della storia, mantiene insieme l’autonomia della classe operaia e la possibilità di darsi un orizzonte di azione politica, legittimato proprio da questa autonomia. La politica così come è, non è altro che la gestione legittimata della struttura dello stato, degli interessi dominanti la sfera economico-sociale, rispetto alla quale, tuttavia, la classe operaia può assumere una figura politica, solo in quanto sia fedele alla sua figura storica, al suo “soggetto”, detto in filosofia. L’invenzione politica di Marx avviene certamente in una contingenza, ma si trascrive in un tessuto di natura teorica, nel sapere di una storia. A questo punto ci troviamo nella medesima posizione del nostro inizio.
Siamo nelle relazioni di una contingenza: contingenza la mia forma di pensiero che ha cercato di trovare la politica nella dimensione della invenzione, contingenze le relazioni del mondo che tento di vedere come luogo della invenzione politica. E so anche che un’invenzione suppone anche la propria possibilità, che non è mai data in assoluto, ma deve fare parte della costruzione stessa dell’invenzione. Ai due lati più lontani da questo punto sta il pensiero politico come utopia e dall’altra parte, l’identità assoluta tra possibilità e necessità, la negazione di un margine per la costruzione di una polis, cioè di una buona condizione comune del convivere. E qui troviamo che anche il critico per eccellenza , del Platone della “Repubblica”, Aristotele, che nell’analizzare le costituzioni non fa solo una descrizione , ma a ciascuna costituzione pone, in modo più o meno diretto, la domanda se le sue norme positive siano in grado di costituire una buona unità politica, secondo i propositi di quei legislatori e di quei cittadini. Specie in un tempo in cui l’arricchimento privato attraverso il commercio rischiava di distribuire costumi e poteri che potevano ostacolare quel processo naturale che conduce dalla famiglia alla polis. Le costituzioni erano certamente diverse e non venivano interrogate secondo una filosofica idea di bene che avrebbe costituito la città della giustizia, cioè la città secondo la sua essenza. Ma una costituzione rappresenta sempre un ordine che ha ragioni per essere preferito a un altro ordine, e queste ragioni appartengono a uno scopo che, realizzato, consente una vita migliore.
La società del rischio globale
Finora sappiamo solo che una invenzione politica si costruisce su scopi che rendano migliore la vita, e sappiamo anche che questi scopi devono appartenere a un campo di possibilità che occorre contribuire a costruire. Sembra poco, anzi possono sembrare solo questioni formali, ma io non conosco un’altra strada per affrontare con persuasione e con convinzione il problema che ci siamo posti. Avevo detto che l’invenzione della politica deve fare ricorso a una serie di saperi e di conoscenze diffuse e non a una propria teoria generale. Ora cercherò di descrivere in breve la situazione che Ulrich Beck chiama “società del rischio globale” nella quale noi viviamo. La scena della nostra contemporaneità è costituita da una serie di saperi specifici che non sono una teoria politica, potrebbero addirittura essere tutt’altro, ma offrono, nella loro articolazione, le linee di emergenza di una realtà che è indispensabile per inventare una politica.
La nostra scena è questa. Il dissesto ambientale e climatico che risulta dall’uso strumentale del mondo come risorsa puramente calcolabile secondo costi economici; le linee di catastrofe che sono prevedibili a livello planetario (va detto che l’idea di catastrofe è estranea al pensiero moderno); la economia monetaria, per il suo stesso carattere di rapida e mobile autovalorizzazione, crea continui squilibri a livello delle economie reali; la necessità nelle aree privilegiate dello spreco per una riproduzione veloce del capitale; l’esistenza, secondo proporzioni mondiali di debiti pubblici che rendono impossibile l’accumulazione necessaria, e, al contrario, la diffusione accelerata di modelli di sviluppo economico mimetici rispetto all’Occidente, ma che sono incompatibili rispetto all’ambiente naturale; la proliferazione di stati di guerra locali con forti indici di ideologizzazione e di riconoscimento; la precarietà e l’insicurezza del lavoro nelle zone ricche; la visione virtuale del mondo che è pubblicamente condivisa: un mondo immaginario attraverso le forme di comunicazione di massa. Solo questo sguardo mostra quanto sia difficile l’invenzione di una politica che non chiuda l’orizzonte sul proprio giardino. C’è il rischio reale di doversi arrendere e sostenere che la tradizione della politica nella quale ci siamo collocati non riuscirà mai a stabilire relazioni globali con un insieme così vasto, difforme, complesso di problemi, di ostacoli, di pratiche sociali consolidate, di desideri pietrificati, di poteri disseminati. Il nostro destino più facile da riconoscere appare quello di essere nel tramonto di ogni possibilità politica, compensata da quell’infinito occhio aristotelico della nostra tradizione che, come conoscenza, vede la pluralità delle culture, e attraverso questa consapevolezza, tutt’altro che futile, cerca di insegnare un’etica della convivenza.
Se, però, si vuole esplorare la possibilità della politica non si tratta solo di tolleranza di tipo settecentesco, e nemmeno di rispetto kantiano, si tratta di avere drammaticamente presenti le difficili e spesso conflittuali condizioni del vivere terrestre. Non si tratta di sper contemplare diffrenze per educare la nostra vita, che è già difficile, si tratta di mostrare quali siano le condizioni positive per metterci, ancora una volta, nella tradizone dell’invenzione politica.
Politica oggi: la fine di ogni invenzione?
Dire che è possibile una pratica politica conduce a costruire politicamente una risposta essenziale. Alla società globale del rischio, dove il rischio si diffonde per mille rivoli, per lo più non visto, la risposta è la ricerca dovunque e comunque della “sicurezza della vita”. Quando dico sicurezza, mi viene in mente la filosofia politica di Spinosa (pensiero cui bisognerebbe guardare). Ma la sicurezza non può essere una parola da stampare sui libri, o da far navigare in internet, se vuol essere un obiettivo politico deve essere vista, sentita, immaginata, condivisa come problema collettivo. È necessario ritrovarci in questa collettiva e disagevole immaginazione di esseri estremamente bisognosi di sicurezza. Questo sentimento, questa emozione, è necessario nasca dovunque domina l’insicurezza, magari sepolta dalla fantasmagoria degli oggetti e dalla fragilità dei desideri. L’educazione all’aver bisogno della sicurezza è una interpretazione che valorizza la vita, e la valorizzazione della vita deve diventare un desiderio collettivo di essere, che richiede un essere collettivo. Il “deve” segna già un’opzione politica molto forte. C’è tempo, c’è ancora tempo per un’opzione di questo tipo? O siamo sul Titanus secondo la celebre metafora di Enzenberger? Non lo so.
So invece che un modo d’essere diviene collettivo se è in connessione con un valore che abbia la medesima estensione planetari. Nel patrimonio dei nostri valori occidentali (è un occidentale che parla non un soggetto universale) è il tema della giustizia che può, a livello planetario dare una misura collettiva della sicurezza. La giustizia è una relazione con l’alterità differente rispetto ad altri valori della nostra tradizione, come la libertà (che è il finale di tutte le nostre storie) o la democrazia (che è la condizione pubblica per noi migliore). La giustizia mette noi stessi, cioè coloro che enunciano il valore, in una scena di eguaglianza dove gli oggetti della relazione sono la carne, la fame, l’acqua, l’aria, le malattie, la durata della vita, il valore della via, dove la parola “valore” si può misurare in termini economici. È complicante parlare in termini di giustizia, rischia persino di destabilizzare la nostra identità, nella quale la parola giustizia sta spesso a un livello retorico non molto alto, compatibile con l’ingiustizia nascosta nella nostra vita. Dicevo prima che per gli operai inglesi della rivoluzione industriale era difficile pensarsi politicamente, lo è anche di più per noi. Mi pare proprio che la politica non possa essere una professione qualsiasi.
Ma le cose sono anche molto complicate, per quelle che sono le condizioni oggettive di un operare politico, quello che è il campo effettuale della invenzione. Qualsiasi nostra azione politica si trova ad investire quattro livelli quanto alla sua estensione: planetario, continentale, nazionale, locale. Nessuno di essi può essere ignorato e ciascuno deve mostrare una linea coerente con gli altri. La globalizzazione del rischio non ha scelte diverse, se la si considera veramente. Oggi non saprei dove altro collocare l’orizzonte di quelle “azioni innovative”, di cui, a suo tempo, parlava Hanna Arendt. La dimensione planetaria è dominata dalla espansione globalizzata della economia capitalistica; quella continentale, ovviamente ho in mente l’Europa, è uno spazio che va dall’economico al culturale, per tentare di far incontrare la normale forza impositiva planetaria e le sue leggi immanenti, con una energia sufficiente per produrne un addomesticamento, alla luce di forme di vita condivise; la dimensione nazionale si trova al centro di tensioni e di difficoltà che derivano dalla esposizione alla dimensione globale; infine la dimensione locale ha a che vedere con la immaginazione quotidiana, le identità e quindi le ansie e i timori. La realtà di una invenzione politica oggi passa attraverso queste estreme difficoltà. E ciò che è inquietante è che proprio l’insieme di queste difficoltà fa ritornare l’immagine della priorità della politica come “politicizzazione del mercato mondiale” come dice Ulrich Beck, o come bisogno collettivo di salvezza terrestre, come dico io con un pathos probabilmente inutile.
Noi viviamo in una società mondiale che è ben lontana dall’essere compresa in una statualità mondiale. Nel suo livello essenziale, sempre secondo l’importante analisi di Beck, l’invenzione politica deve focalizzare la necessità di stati transnazionali che consentano una cooperazione che avvenga sull’asse globalizzazione -localizzazione. Ovviamente l’invenzione politica è piena di detrattori e di nemici, molto di più di una filosofia che gode di una extraterritorialità, come parlasse in un sogno. Per avere chiara, una volta di più, la relazione tra filosofia, politica e invenzione vorrei considerare brevemente l’esperienza di un grande pensatore europeo come Habermas. Gli dobbiamo tutti una grandiosa riflessione di filosofia politica, che ha le sue radici nella teoria dell’agire comunicativo, che non condivido per la commistione che, di fatto, avviene tra la dimensione trascendentale e la dimensione della realtà. Al termine di una lunga, sapiente, puntigliosa peregrinazione filosofica, Habermas inventa invece una direzione politica contemporanea. Una politica europea, sostiene, può armonizzare elementi che derivano dalla sua tradizione di cultura politica, lo stato sociale, con il contesto sopranazionale della globalizzazione economica. È un’invenzione che ha suoi scopi e che propone di esser realizzata.
A complicare le cose nel quadro dell’invenzione manca ancora un elemento essenziale. Attraverso quale vettore, cioè come, un’invenzione del genere può essere realizzata? Altrimenti è una macchina ludica, uno spettacolo per il pensiero, una chiacchiera elevata per gente, come si dice, che si occupa di politica. Come entra nel mondo un’invenzione del genere? Il come della politica ha quasi sempre evocato “le mani sporche”. E anche ora non possiamo fare finta di niente. Anche se proprio queste osservazioni consentono di passare da una riflessione per pochi a un’eventuale consapevolezza collettiva. Gramsci, in un’altra epoca, diceva che “l’ideologia è una forza materiale”. Oggi, ideologia è la comunicazione di massa, il suo modo di far apparire il mondo, i suoi aspetti seduttivi, suggestivi, immaginari, la costruzione di specchi di sé che educano fini e desideri, la sua capacità di costruire una comunità che paradossalmente è formata da basse e tenaci individualità. Ora è proprio su questo campo che la politica deve costruire la sua possibilità di disegnare sicurezza della vita e giustizia come elementi fondamentali di una costruzione collettiva del se stesso. Un filosofo come Schelling aveva visto benissimo sulla funzione costruttiva dell’immaginazione, e la promozione di un immaginario come luogo della identità, capaci di riconoscersi, reciprocamente, in un consenso collettivo è un punto fondamentale di una invenzione politica nella contemporaneità. Occorre saper competere bene sulla qualità dell’immaginazione. È un tema essenziale anche se dal punto di vista filosofico può apparire una contraddizione, o un paradosso, poiché analisi razionale e persuasione, concetto e immaginazione devono armonizzarsi tra loro nella invenzione politica e nella prassi dell’invenzione, quando sono state spesso stili diversi di pensiero. Ma il modo di farsi della politica muta, e l’invenzione ha una relazione con il mondo che la coscienza personale può evitare di avere. In ogni caso una invenzione non è mai autoreferenziale, cerca sempre di riuscire nel mondo come dovrebbe esser di una politica.
Ho cercato di fare il possibile per disegnare un modello inventivo della politica, non è stato facile, ma ancora più difficile è farne un orizzonte che entri nella pratica politica. Dico solo un orizzonte, una direzione, un riferimento coerente che affronti le difficoltà enormi del fare politica quotidiano. Eppure con tutti questi limiti, queste necessarie prudenze, questa consapevolezza delle difficoltà che intercorrono tra la coerenza del discorrere e la urgenza e la necessità del fare, credo di poter dire, privo di qualsiasi presunzione, che qualsiasi élite che desidera essere una élite politica, deve passare di qui.