In un libro di Tagliagambe, tra letteratura e filosofia, indagati i meccanismi del pensiero. I romanzi dello scrittore russo portano in primo piano il rapporto tra i vari livelli dei processi mentali. Un secondo cervello che funziona come un’interfaccia tra il mondo fisico e quello delle costruzioni culturali
di Fabio Bacchini
C’è stato un tempo in cui la letteratura e la filosofia sono andate molto d’accordo. Ma, secondo le malelingue, ciò è avvenuto principalmente perché la filosofia era una filosofia non sufficientemente rigorosa nel ragionamento e nella terminologia: una forma, essa stessa, di letteratura. Negli ultimi cento anni, una parte della filosofia ha deciso che era ora di svestire i panni della disciplina inconcludente e ciarliera, e che valeva la pena essere meno vaghi, e molto più esatti. E’ nata la «filosofia scientifica», che si propone di giungere «mediante l’analisi logica a conclusioni precise, articolate, e attendibili come i risultati della scienza contemporanea» (la definizione è di Hans Reichenbach). Secondo le malelingue, la filosofia scientifica paga un prezzo costante per riuscire ad essere chiara e razionalmente approvabile: essa risulta eccessivamente algida a chi le si accosta in modo non professionale, e «non tocca davvero il cuore» delle persone.
Ogni tanto, appaiono dei libri che riescono a mettere a tacere le malelingue. Si tratta di libri di argomento filosofico-scientifico che risultano al tempo stesso coinvolgenti, dal punto di vista emotivo, e impeccabili, dal punto di vista intellettivo. Questi libri riescono a condurre il lettore lungo un percorso argomentativo privo dei fumi, delle nebbie e dei disonesti giochi di prestigio della cattiva filosofia – e, al tempo stesso, lo fulminano, o lo appassionano, o lo rapiscono. Guardacaso, una caratteristica ricorrente di questi libri felici è il loro coraggio nel riprendere i contatti con la compagna di viaggio di un tempo, la letteratura. Mentre di solito si ritiene che una «filosofia scientifica», per essere tale, debba rinunciare a metafore, punti esclamativi e riferimenti a storie e personaggi romanzeschi, i testi di filosofia scientifica più riusciti sono quelli che riescono a far interagire scienza e letteratura, macchine di Turing e il Signor Granchio, Mach e L’Uomo Senza Qualità, misteri della coscienza e Orwell, e perfino biologia evoluzionistica e Mickey Mouse.
Naturalmente, affinché la letteratura risulti utile alla filosofia, essa va presa sul serio. Silvano Tagliagambe, nel suo ultimo libro Il Sogno di Dostoevkij. Come la Mente Emerge dal Cervello (Raffaello Cortina Editore, pagine 362, euro 24) la prende molto sul serio. Dostoevskij non si limita a comparire nel titolo: egli è uno dei protagonisti della trattazione, e le sue tesi sul funzionamento della mente sono discusse a fondo nel libro. Tagliagambe lo tratta né più né meno che come un filosofo: un filosofo che, scrivendo Le Memorie dal Sottosuolo e Delitto e Castigo, voleva opporsi alle tesi sostenute da Secenov, allora celeberrime in Russia, secondo cui la mente può essere ridotta a pura fisiologia, e secondo cui la coscienza non è altro che un riflesso. Tagliagambe spiega che quella polemica, che divampò a Pietroburgo a partire dal 1863-64, è il primo esempio di dibattito filosofico fra riduzionisti e anti-riduzionisti riguardo alla mente, che tanto ha infuocato in seguito le pagine delle riviste specializzate inglesi e americane.
Tagliagambe recupera una perduta perla di saggezza che animava gli scritti del «filosofo della mente» Dostoevskij: non tutto lo psichico è cosciente, e accanto ai processi mentali visibili e controllabili vi sono quelli, sotterranei e tenebrosi, dell’inconscio. Certo, anche un riduzionista come Secenov può riconoscere l’esistenza dell’inconscio: ma il suo inconscio è insulso, privo di autonomia, e coincide con un meccanismo di stimolo-risposta. Se i pensieri e le decisioni fossero solo reazioni fisiologiche agli stimoli esterni, come pretendeva Secenov, allora non esisterebbe una spiegazione per quelle «rivoluzioni dello spirito» che, improvvisamente, giungono a sconvolgere la vita e la personalità degli individui. I romanzi di Dostoevskij mettono in campo proprio questo fenomeno, che rappresenta una sfida per ogni teoria della mente: il sovvertimento imprevisto, la «resurrezione», l’emergere di una «nuova concezione della vita». Quando Raskol’nikov, alla fine di Delitto e Castigo, accede all’«aurora di un avvenire rinnovellato» e a «una nuova vita», ci mostra il risultato di un processo nascosto ma ormai innegabile: l’azione «sotterranea» e soprattutto attiva dell’inconscio.
Il libro di Tagliagambe è un lungo esame di come la mente possa essere attiva senza violare le leggi fisiche (ovvero, di come si possa riconoscere l’esistenza della mente senza cadere nel dualismo cartesiano). La mente è attiva nel senso che, quando percepisce gli oggetti del mondo, non è una tavoletta di cera che si limita a ricevere con docilità le loro forme, ma al contrario agisce e contribuisce prepotentemente a creare ciò che poi «vede» o «sente», selezionando alcune proprietà dal mondo, e impiegandole in virtù dei propri interessi. Secondo Tagliagambe, sono i «valori» (provenienti dai gorghi della storia evolutiva) che orientano questa «costruzione»: ed egli paragona con acume questi «valori» ai «metadati» che, assieme ai «dati» veri e propri, costituiscono qualsiasi oggetto digitale: senza metadati, che forniscono le istruzioni riguardo al modo corretto di decodificare il dato, nessun dato è fruibile, e un computer, pur possedendo l’informazione, non può usarla.
La mente è attiva anche nel senso che essa è capace di retroagire sul mondo fisico, modificandolo. Esaminando le più aggiornate teorie del funzionamento del cervello, Tagliagambe è in grado di dimostrare che la mente (definibile come il risultato dell’attività dell’«insieme dei circuiti cerebrali che gestiscono i comportamenti non automatici») non è solo un altro nome del cervello: essa può invece essere concepita come un «cervello nel cervello». Secondo Tagliagambe, il modo corretto di vedere la mente è dunque questo: una sorta di «linea di confine», un «meccanismo cuscinetto a due facce», una «barriera di contatto» fra l’ambiente fisico e l’universo della conoscenza. La mente sarebbe un’interfaccia: tra mondo fisico da cui tutti noi emergiamo, e mondo dei pensieri, delle teorie e delle costruzioni culturali, a cui faticosamente tendiamo allo scopo evolutivo di prevedere, trasformare e dominare quello stesso mondo fisico. In termini popperiani, il Mondo 2 (il mondo della psicologia) avrebbe la funzione di gettare un ponte fra Mondo 1 (il mondo fisico) e Mondo 3 (il mondo delle idee). La mente non è sede di un rispecchiamento (degli oggetti nel «teatro cartesiano» che è in noi), ma di una incessante frizione fra contenuti oggettivi di pensiero e realtà fisica, di uno sfregamento fra due dimensioni dell’esistenza che non si toccherebbero mai se non ci fosse la mente, a consentire loro di sfiorarsi. La mente non può quindi essere identificata col cervello: «per poter svolgere la sua funzione, l”‘interfaccia” non può identificarsi con l’una o con l’altra delle parti che deve mettere in comunicazione reciproca». Il Sogno di Dostoevskij è un libro molto ricco, in cui la vastissima cultura dell’autore viene messa al servizio del problema della natura della mente, senza imporsi limitazioni disciplinari. Tagliagambe, che è forse tra l’altro il massimo conoscitore di filosofia e scienza russa in Italia, saltella con disinvoltura da Edelman a Florenskij,. da Varela a Sestov, da Damasio a Vernadskij. E si trova ad affrontare, per inciso alcuni degli avvincenti enigmi che: assieme all’enigma del rapporto fra mente e corpo, tengono viva la filosofia: perché la matematica risulta «sorprendentemente efficace» (la domanda cara a Wigner), cos’è il tempo e come il suo mistero è connesso col mistero della mente, quali sono le caratteristiche «Oggettive» del mondo, quelle «indipendenti da noi». A questo riguardo, mentre in alcune pagine Tagliagambe concede che «le lunghezze d’onda» siano «qualcosa di oggettivo, la cui presenza vale a scongiurare il rischio» che il nostro modo di percepire e distinguere fra loro i colori poggi sul nulla, in altre pagine egli scrive che sono «un’innovazione e una creazione» non solo le qualità «secondarie», cioè le proprietà «dovute al funzionamento dei nostri organi di senso» – tipicamente: i colori -, ma «anche quelle tradizionalmente definite “primarie”, in quanto le si considerava possedute dai corpi osservati, la forma, il numero, la massa e il moto». Forse l’unico modo per evitare una contraddizione, qui, sarebbe aderire a quel «realismo interno» teorizzato da Hilary Putnam: una forma di realismo che ammette di avere senso solo dopo che sia stato attivato il filtro concettuale di un linguaggio (dice Putnam) o di una mente (dovrebbe dire Tagliagambe). Ma ogni buon libro di filosofia deve lasciare aperti più problemi di quanti ne chiuda. Questo di Tagliagambe risolve il problema di Dostoevskij, il quale giustamente non si capacitava che la descrizione «scientifica» di un pensiero – anche di un pensiero di Raskol’nikov – potesse essere questa: «… lì nel cervello, nei nervi… (oh via, che vadano al diavolo)… ci sono, ecco, una specie di codine, delle codine attaccate a questi nervi: bene, e non appena lì, queste codine si mettono a vibrare … ».
[da L’Unita’-31 AGOSTO 2002]