di Federica Vicino
[Qui tutte le puntate del romanzo]
VI.
Avverto uno scricchiolìo, un cling-clang di portellone a chiusura ermetica in fase di innesco.
L’onda gelida del reflusso organico scompare in pochissimi istanti. Tutto il liquido che carambolava giù con la violenza di un turbine si riduce ad un esile gorgoglio, dietro l’oblò a tenuta stagna che si serra con forza. Il pozzo è così stretto e profondo, che l’imboccatura dalla quale ci siamo tuffati è già invisibile.
Kerrer, poco più giù di me, con i piedi puntati contro le pareti umide, che adesso offrono all’attrito degli scarponi tutt’altra resistenza, impreca.
– Che succede?- chiedo, sempre consapevole d’aver fatto una domanda sciocca.
Lui appare seccato: mi osserva con un certo scetticismo nello sguardo. Provo a ricambiare l’occhiata e la tenuta della gomma sulla parete scoscesa del tubo rivela subito tutta la sua esiguità: scivolo giù quel po’ che basta a tuffarmi ancora una volta fra le braccia del mio supersalvatore.
– E sta’ attenta! — mi intima nell’afferrarmi.
– Che succede? — ripeto, tentando di fronteggiare come posso il senso di disperazione che mi sta assalendo.
– Hanno interrotto il travaso. — sibila Kerrer più piano che può, come se temesse di essere sentito — Strano.
– Forse si è esaurita la riserva di scolo… – blatero, nel miserrimo tentativo di convincere innanzi tutto me stessa.
– No, il condotto è stato chiuso.
Parole sacrosante, alle quali non so opporre se non un improvviso silenzio. Nel rimbombo del pozzo aspirante si sente ora solo un lieve gorgoglio che accompagna gli ultimi rigurgiti di liquame organico. Kerrer è intento a studiare la cupa eco che si rincorre dal basso in alto nel tubone. E’ come se dai rimbombi dipenda l’ovvia conclusione della lunga serie di ovvie premesse che ci si sono parate davanti finora. Per qualche strana ragione, anch’io sto facendo lo stesso: immobile, col fiato mozzato, l’orecchio teso, sono rimasta in ascolto di non so cosa ed in attesa di una ovvia conferma dei miei ovvi sospetti. Poi sento il primo dei mugolii… vicinissimo. Il secondo, inconfondibile. Un leggero passo felpato che attraversa i condotti con un ticchettìo aritmato. Il primo richiamo mi svuota lo stomaco: è un suono a metà fra lo squittìo del topo ed il latrato del cane da caccia, che conosco fin troppo bene; ma che nel chiuso delle condutture ha un’eco spettrale.
– Ci hanno trovato.
– Dovremo scendere un po’ alla volta — sibila ancora Kerrer in fretta — ma senza scivolare giù: in fondo al pozzo c’è la turbina aspirante, ed è meglio non arrivare a fare la sua conoscenza.
Ci mancava solo il sarcasmo!
– Ci hanno trovato! – ripeto, non so più con quale forza.
– A metà del pozzo c’è una canaletta laterale: dobbiamo riuscire a centrarla.
– Ci sono addosso! Non potremo mai…
– Una volta infilati lì dentro, saremo abbastanza lontani dal boulevard… e dalla milizia AC, spero.
– Non potremo sfuggire alle sentinelle guida!
Adesso finalmente mi guarda; forse ha sentito quello che sto dicendo, forse no. Forse mi guardava anche prima, ed ero io a non riuscire a vederlo. Mugolii, scricchiolii, tintinnare di zampette viscide che si arrampicano lungo le condutture mi riempiono la testa ancor più delle orecchie; ma riesco ad agguantare un attimo di lucidità.
– Dobbiamo raggiungere la canaletta. — ribadisce Kerrer.
VII.
La fuga riprende in verticale e al buio. L’umidità rende il tubo quasi impraticabile perfino per gli scarponi; ma lo sforzo appare ora stranamente più sopportabile.
– E’ perché il risucchio è cessato — spiega mister consapevolezza — La turbina è ferma.
A rincuorarmi c’è un sottile spiraglio di luce, che spunta poco più giù.
– E’ quella la canaletta?
Non ottengo risposta. Kerrer si inarca, flette le gambe e scivola nel nuovo cunicolo: è dentro per metà ed ora tende le braccia e mi fa cenno. Ho ancora negli occhi l’assurda acrobazia necessaria per centrare il foro d’ingresso.
– Coraggio! — mi grida contro wonderboy.
Io ho le gambe congelate e l’assoluta consapevolezza che mai e poi mai riuscirò a compiere evoluzioni tali da permettermi di incunearmi in quel budello rossastro; inoltre la presa dei miei scarponi è sempre meno sicura: per poter rimanere aggrappata alla parete devo fare forza sulle caviglie; il morso della sentinella guida, poco sotto il malleolo, mi duole da morire — e tutto mi porta col pensiero all’idea di una fine imminente.
– Muoviti, maledizione! — incalza Kerrer.
– Perché tanta ostinazione? — ribatto — Perché vuoi salvarmi ad ogni costo? Chi sei? Che cosa vuoi da me?
Per ogni parola ho aggiunto un ringhio, sempre più furibondo, sempre più disperato. Kerrer mi osserva interdetto; sento l’incalzare del tempo che trascorre: manciate e manciate di preziosissimi secondi, prima che il portellone venga riaperto e la turbina riprenda a funzionare, prima che le sentinelle guida tornino a fiutare la pista, prima che ogni sforzo sia vanificato… ma sono più che decisa a non fare più una mossa finchè non avrò capito che senso abbia tutto quello che mi sta succedendo. Supertrendyboy dev’essersene accorto: mi osserva e ancora mi osserva. Nel marasma di tensione scopro perfino che ha degli occhi indimenticabili — e questo mi preoccupa. Il connubio “stronzo” — “bello” mi ha sempre cacciato nei guai: mi sono innamorata poche volte, in vita mia, ma sempre di bellissimi stronzi. E ogni volta è stato un disastro. Ma anche per questo non c’è tempo. Tanto più che Kerrer si è scosso. Con una mossa fulminea ha estratto la sua santa pistola e adesso me la punta contro.
– Muoviti. — ripete, con un tono che inchioderebbe un dinosauro.
Non cedo. Ho una paura fottuta, ma non cedo: voglio vedere fino a che punto è disposto a spingersi.
La prova di forza dura comunque pochissimo: Kerrer carica il colpo in canna e ripete in tono —se mai fosse possibile immaginarlo- ancora più duro:
– Muoviti.
Io capisco che non è il caso di tergiversare oltre, ma prima ancora di riuscire a rimettere in moto arti e cervello, la caviglia ferita cede, un crampo mi congela il polpaccio, gli scarponi scivolano, la presa sfugge. Frano verso il basso come un inerte sacco di patate, e le mie urla di terrore sono niente rispetto al sinistro scricchiolare delle pulegge della turbina, che stanno tornando a mettersi in movimento. A metà della caduta c’è Kerrer, con le braccia già tese verso di me, ma tutto quel che la sua forza di volontà riesce ad ottenere è un colpo secco sul pugno che stringeva la pistola. L’arma scivola giù con un clangore metallico e io le vado appresso.
E’ la fine. La turbina spalanca le fauci e le acque reflue riprendono a scorrere in un gorgoglio frenetico: si avvolgono a spirale sulle pareti del canalone, e io con loro. E’ la fine. A nulla mi vale lo sbracciarsi di Kerrer, che mi urla di puntare i piedi contro il tubone con tutta la forza che ho in corpo.
– Devi fare attrito! — ripete — Prova con le braccia, con le mani! Punta i gomiti!
Niente di niente. Il polpaccio è paralizzato dal crampo, e l’altra gamba da sola può fare ben poco; le mani non trovano appigli e, nonostante il gelo del liquido di scarico, i gomiti mi vanno subito a fuoco. E’ la fine. E’ inutile, tutto inutile! Bisogna rassegnarsi all’idea: è la fine! D’altronde si sapeva: sono un fourth level, ormai, e come fourth level non è che avessi davanti un gran futuro. I fourth level, si sa, vengono eliminati; e a dire il vero morire così è sempre meglio che capitare nelle mani della Polizia Sanitaria o degli Agenti AC. Mi trastullavo nell’assurdità di simili pensieri di morte, quando un sordo rintocco, come di campana, mi risveglia di colpo. Sto ancora scivolando nel buio spettrale del budello di scarico e sto ancora gridando; di Kerrer sembra non esserci più traccia, la canaletta è molto più su della turbina, impossibile vederlo o sentirlo; ma la sua pistola è ancora parte del gioco. Incredibilmente.
Con l’eco del deng di un istante fa si spegne anche lo scricchiolio ininterrotto degli ingranaggi: si avverte solo un sibilo sottilissimo, rumore di acqua che defluisce ininterrotta, senza più nulla di metallico. Guardo sotto i miei piedi, che sono finiti dritti dritti fra le eliche del complicato marchingegno, e scorgo il solito lampo metallico della solita pistola di Kerrer incredibilmente incastrata fra i denti della turbina. La canna, infilata fra una puleggia ed un’altra, è orribilmente deformata, ma sembra reggere alla pressione. Il che ha un significato preciso: vuol dire salvezza. Incredibile.
Non so se meravigliarmi più di questo o dell’improvviso arrivo, in picchiata, di supertrendyboy Kerrer. S’è lasciato cadere nel tubone e ora osserva esterrefatto la sua preziosa arma infilata nel cuore dell’infernale meccanismo.
– Dobbiamo andarcene di qui. — mormora alla fine, e stavolta non oso contraddirlo.
Sfruttiamo la temporanea assenza di risucchio e proviamo a risalire il canalone di scarico: io per prima, come posso; lui dietro, facendo forza, ora verso l’alto, per me e per sé. Un’impresa titanica, che dovrà riuscirci.
Quando sbuchiamo fuori dalla canaletta esterna è notte inoltrata. L’Urban 16 è ancora scossa da ululati di sirena, ma dato che siamo a ridosso dei sobborghi potrebbe trattarsi di normale amministrazione: sulla via della nostra fuga infatti non incontriamo posti di blocco né niente del genere. Sembrerebbe che l’abbiamo scampata, ma non sono così sciocca da illudermi: la Polizia Sanitaria non può essersi scordata di noi. D’altronde è già da un po’ che mi sono imposta la calma ed una buona dose di realismo. Disillusione totale. Sono fradicia ed esausta, e il morso della sentinella guida trasuda pus sanguinolento: zoppicando penosamente continuo a seguire Kerrer che s’è infilato in quello che a vederlo sembra un capannone in disuso. Dentro è tutto polvere e gas; antichi macchinari rugginosi se ne stanno immobili nella penombra; il silenzio è assoluto, se si esclude il tonfo dei nostri passi.
– Che posto è questo? — domando.
E’ la prima volta che apro bocca dopo ore: la latta dei container inscatola i suoni. Kerrer fila dritto su per una scalinata metallica.
– Era una raffineria di ghiaccio sintetico. — risponde senza voltarsi — I Fuoriusciti la utilizzano come nascondiglio.
– I Fuoriusciti? Sei uno di loro?
L’ho detta grossa e l’occhiataccia di Kerrer me lo conferma.
– Sono uno che dà la caccia ai Fuoriusciti. — precisa.
E’ una risposta che dovrebbe raggelarmi, invece — in qualche modo — me l’aspettavo. L’ho detto: disillusione totale. Il dolore, la fatica, la lunga corsa non mi hanno impedito di ragionare. Supertrendyboy non è “super” per caso: troppo aitante, troppo organizzato nel fisico e nella psiche per essere uno qualunque che è capitato per caso sulla mia strada e ha deciso di salvarmi la vita. Tuttavia non ho elementi per giungere alla conclusione del ragionamento. E soprattutto stento a credere a ciò che è ormai più che evidente.
– Vuoi dire che… – blatero, ma Kerrer non mi dà tempo di finire.
– Il capannone è abbandonato — s’è affrettato a spiegare, come animato da un improvviso bisogno di dialogo — ma alcune delle celle frigorifero, di sopra, funzionano ancora.
– Come fai a sapere tutte queste cose?
– I Fuoriusciti le usano per conservarci le dosi di vaccino pirata.
– Insomma, vuoi rispondermi? — mi spazientisco — Come fai a sapere tutte queste cose? Chi sei?
Ci guardiamo per un lunghissimo istante. Poi super-Kerrer tira un sospiro tutto umano, che visto addosso a lui mi sorprende non poco.
– Te l’ho detto chi sono: — aggiunge — sono uno che dà la caccia ai Fuoriusciti. Ora muoviamoci: devo iniettarti una dose di vaccino. Quella ferita non ha un bell’aspetto. — e mi indica la caviglia.
Deglutisco, in un sol colpo, saliva e stupore.
– Sei un agente AC… – mormoro.
Non ottengo risposta, ma in realtà non ne ho bisogno. Wonderboy — Kerrer corrisponde in pieno alla descrizione del perfetto agente AC: bello, sano e crudele, proprio come i miei compagni tirth level dell’ultimo ricovero coatto dicevano. Avrei dovuto riconoscerlo al primo colpo. Ricorrenti leggende metropolitane sul conto degli angeli custodi del benessere del Sistema parlano di aitanti ragazzoni abilmente mimetizzati tra la folla pronti ad entrare in azione quando meno te l’aspetti. E fin qui ci siamo: quel che non mi quadra è il fatto che stavolta super-Kerrer sia entrato in azione non contro il nemico tirth level di turno (leggi: la sottoscritta), ma contro i suoi benemeriti colleghi della Polizia Sanitaria. E questa è solo una delle centinaia di dubbi che mi affollano la mente, e per i quali dovrò trovare una risposta. Così mi affretto a raggiungere Kerrer, che ha già estratto da una cella frigorifero una dose di vaccino ed armeggia con la siringa. Fortunatamente è ancora disposto al dialogo: anzi, a voler essere precisi, non ha smesso di parlare un istante.
– La Polizia di Regime… – sta dicendo — roba da non credere! Tutte le informazioni su questa ridicola ribellione al Sistema provengono dalla Polizia di Regime. Un corpo di autentici idioti.
– Che significa?
– Spie. Utilizzano degli infiltrati, delle spie. Addomesticano la gentaglia dei sobborghi, più spesso la ricattano, ma la sostanza non cambia. I finti Fuoriusciti controllano i veri, capisci?
– E tu in questo bel quadretto che ruolo hai?
– Reclutamento.
– Reclutamento?
– Reclutamento.
– E la recluta, in questo caso, chi sarebbe?
Altro silenzio ed altro sospiro; ma stavolta non mi sorprendo. Lui prova ad avvicinarmisi, con la siringa ben salda nel pugno; io ho ritrovato lo smalto dei miei momenti migliori e mi ritraggo con decisione.
– Non ti credo. — gli soffio in faccia.
– Non importa. — ribatte tranquillo trendy-hero. E ancora avanza.
– Un AC che fa fuori quattro colleghi della Polizia di Regime… mi sembra proprio una stronzata.
Kerrer allunga una mano e prova ad afferrarmi, ma mi ritraggo ancora, e questo lo innervosisce. Mi aspetto una reazione di rabbia, invece il bel ragazzone a sorpresa si sbottona la camicia e si scopre la spalla destra: mi mostra quella che senza ombra di dubbio è la cicatrice di un microchip di controllo a distanza rimosso. Sono senza parole.
– Ero anch’io un fourth level, prima. — mormora lui — E, per rispondere alla tua domanda di poco fa, avevi intuito bene: in questo caso la recluta sei tu.
– Potrei non assecondare i tuoi piani.
– Non ti converrebbe.
– Potrei fuggire.
– Potresti morire. — di nuovo mi indica la caviglia — La ferita è infetta, devi vaccinarti se non vuoi fare la conoscenza con la peste.
Già, la peste dei sobborghi… l’avevo quasi dimenticata.