di Sandrone Dazieri
Enzo è immerso nel buio. Un buio punteggiato di immagini che non riesce a capire. Piastrelle decorate a fiori, onde, l’ombra di un uomo che passa da una porta. Un po’ alla volta riesce a sentire il suo corpo. E’ disteso in un letto. Nudo. No, non è nudo, indossa qualcosa. Una camicia da notte, gli sembra. Ha qualcosa sulla fronte, e sente male. Ha male alla testa, male alle orecchie, tormentate da un ronzio cupo, rimbombante. Cerca di alzare la mano destra per toccarsi il viso. Una mano, gentile, afferra la sua. Una voce dice. — Piano. Con calma. Le abbiamo medicato la fronte, non si tocchi.
Enzo apre finalmente gli occhi. E’ in una stanza bianca, una stanza d’ospedale. Riesce a mettere a fuoco i due uomini ai piedi del letto: sono due medici, con il camice bianco. — Come si sente? — chiede il più anziano dei due, un medico da libro di testo, con il pizzetto bianco e gli occhiali cerchiati d’oro sul naso.
Enzo apre la bocca per parlare. Ne esce solo un suono strozzato. Ci riprova. — Che cosa mi è successo? — riesce a dire.
Il secondo medico, sulla quarantina con i capelli biondi, si avvicina per guardarlo meglio. Gli punta negli occhi una luce fastidiosa. — Ha urtato contro un muro ed è svenuto. — Dice quando ha finito il suo esame.
— Muro? Quale muro? — chiede Enzo.
— Non si ricorda nulla? — chiede il medico anziano.
— No. Io…
— Si ricorda come si chiama?
— Enzo. Enzo Elia.
— Quanti anni ha?
— Quarantacinque.
Il medico giovane sorride, un po’ tristemente. — Bene. La testa funziona. Cerchi di dirmi qual è il suo ultimo ricordo.
Enzo si sforza, chiude gli occhi. Di nuovo le piastrelle decorate, questa volta attorno alla porta metallica di un ascensore. Poi ancora l’ombra scura dell’uomo che sale sull’ascensore. Adesso c’è qualche particolare in più. Capisce che l’uomo non è solo in ombra. E’ completamente vestito di nero, anche la camicia. Ha una borsa in mano. Lo vede uscire dall’ascensore in piena luce, il volto sempre confuso. Poi ancora l’uomo nero che cammina sul bordo di una piscina, tra persone in costume stese a prendere il sole. Per qualche motivo, l’immagine gli sembra importante. Di più. Capisce che lo spaventa. L’uomo vestito di nero gli fa paura. Vorrebbe vederne il volto, ma non ci riesce. E questo gli sembra ancora più spaventoso. Enzo comincia a tremare. Riapre gli occhi, l’immagine svanisce.
— Non lo so — dice. — Non riesco a capire. Ho paura.
Il medico anziano gli stringe la spalla con simpatia. — Il resto dei ricordi le arriverà un po’ alla volta. E’ normale. Non si preoccupi e pensi a riposare.
— Dove mi trovo?
— Lei è all’ospedale Castiglione. Vicino a Positano. L’hanno portata qui dopo l’incidente. I feriti più gravi sono stati trasportati a Napoli… — S’interrompe.
— Feriti? Altri feriti? Ma cosa è successo?
Il medico anziano esita. Poi, lentamente: — Una bomba. Lei è stato fortunato, molto fortunato.
Enzo rimane senza parole. Chiude gli occhi.
Era una bomba rudimentale piazzata sotto un tavolo di Palazzo Murat, nel centro di Positano: sei tubi di esplosivo da miniera collegati a un timer da cucina. A palazzo Murat c’era una festa privata per il novantesimo compleanno della contessa De Briniis. Invitati del bel mondo, soprattutto finanza e moda. Alle dieci di sera stavano facendo il primo brindisi, quando il timer era scattato. L’esplosione li aveva sollevati in aria con le loro flute di champagne e la torta a sette strati. Dieci erano morti sul colpo, altri cinque durante il trasporto in ospedale. La maggior parte dei feriti lievi, oltre un centinaio, erano stati tra i curiosi che assistevano all’evento pressati oltre le transenne. Dopo l’esplosione si erano messi a correre in preda al panico lungo gli stretti vicoli che dal centro di Positano scendono verso il mare. Enzo era tra questi. Doveva essere inciampato e la folla lo aveva calpestato.
Enzo, però, non si ricorda. Le informazioni le ha prese dai giornali, o è riuscito a ricavarle dai poliziotti che lo hanno interrogato. Un sacco di poliziotti, in divisa e in borghese. Lui a tutti ripete quello che sa. Cioè niente.
Non si ricorda nemmeno di essere andato a Positano. E’ rimasto indietro di un mese abbondante, l’esplosione gli ha cancellato un pezzo di vita. Non sapeva nemmeno che fosse già luglio. L’ultimo che interroga Enzo, mentre si prepara per lasciare la stanza dell’ospedale, non è italiano. Parla bene la lingua, ma Enzo intuisce un leggero accento inglese abilmente dissimulato. Forse è della Cia, o qualcosa del genere, anche se non si è qualificato. Ha risposto alla curiosità di Enzo con un sorriso finto e un cenno di diniego. In compenso, è molto curioso su quello che Enzo ha da dire. E’ molto interessato ai suoi incubi, anche. Vuole sapere tutto dell’uomo nero. — Davvero non si ricorda il suo volto? — chiede per l’ennesima volta.
Enzo scuote il capo. — No. Non so nemmeno se esista davvero.
— Ma le fa paura.
— Sì. E’ così importante?
Il poliziotto sorride di nuovo. — Vede, signor Elia. Forse lei ha visto quell’uomo prima dell’esplosione, e forse lo ha visto fare qualcosa. Forse il suo, come si dice, subconscio?, ha registrato qualcosa che collega il suo uomo nero all’attentato. Lei adesso non se lo ricorda, ma potrebbe essere importante. Molto importante per noi. Provi ancora.
Enzo ci prova. L’uomo nero è ancora lì, nella sua testa, ma non riesce a capire perché. Lo ripete al poliziotto fino a quando non è così stanco che si metterebbe a urlare, come fa con sua moglie quando insiste a tormentarlo con i suoi rimproveri sciocchi e inopportuni. Solo a quel punto il poliziotto si congeda. Ha altre interviste da fare, come le chiama. Enzo rimane da solo con i suoi incubi e con il suo mese mancante. E con i dubbi su quello che deve fare.
Alla fine, decide di tornare a Positano. La polizia gli ha detto che ha preso alloggio una settimana prima all’hotel Le Agavi. La sua stanza è ancora lì, a sua disposizione. E se vuole spostarsi, ci sono un sacco di camere libere in tutti gli alberghi più esclusivi, anche quelli che normalmente occorre prenotare da un anno all’altro. L’attentato ha fatto scappare i vip come scarafaggi sotto la luce. Sono spariti gli yacht, le Ferrari, le star della musica leggera internazionale, gli attori, gli stilisti. Camminando per i vicoli, Enzo capisce che una cappa è scesa sul paese, una cappa di tristezza e paura. La maggior parte dei negozi e dei locali sono chiusi a tempo indeterminato. Anche lo Show Black, famoso per essere il luogo preferito da Denzel Washington, è desolantemente vuoto. Per strada pochi turisti in costume, pochi bambini che giocano, nessuna modella, velina o letterina. In compenso nel cielo volteggiano gli elicotteri dei Carabinieri, con un fragoroso rumore di pale che copre quello delle onde.
Enzo trova finalmente un bar aperto e si siede a un tavolino, cercando di non guardare la prima pagina del Corriere che recita “S’indaga sulla pista Irakena”. Ci sono un sacco di ipotesi sull’attentato, ma Enzo ha come l’impressione che nessuno sappia davvero che pesci pigliare. Nemmeno lui. Un mese mancante, una vacanza di cui non si ricorda. E il silenzio da casa.
Da quando si è risvegliato in ospedale ha cercato di chiamare sua moglie. Non ha mai risposto, né al telefono fisso né al cellulare. Per qualche ora, ha avuto il terrore che fosse rimasta coinvolta dall’esplosione, poi la polizia gli ha spiegato che era andato a Positano da solo. Niente moglie. Enzo si chiede se il rapporto tra loro sia arrivato finalmente al punto di rottura. Hanno litigato molto, nell’ultimo anno. Su tutto. E ogni volta, per Enzo era peggio. La sua rabbia saliva oltre il livello di guardia. Le sue urla svegliavano i vicini. Solo a pensarci, Enzo sente risalire l’odio per quella donna che gli sta avvelenando l’esistenza. Forse si sono lasciati. Sarebbe una liberazione, sarebbe l’unico regalo di quella storia assurda che lo ha coinvolto. Rientra all’albergo. Il padrone lo accoglie con un sorriso mesto e qualche frase di circostanza. Gli dà la chiave della camera. Enzo non si ricorda di lui o del posto.
Si dirige verso l’ascensore in fondo alla hall e per un attimo gli manca il respiro. Attorno alla porta metallica, ci sono le ceramiche colorate del suo incubo. Quelle dell’uomo nero. L’uomo nero era nel suo stesso albergo, con lui. Gli sembra di vederlo, spaventoso nel suo essere un’ombra, un presagio di morte.
Enzo lo segue, segue il suo incubo. Sale con lui al primo piano, cammina nel corridoio. L’uomo nero è un’ombra davanti a lui. L’uomo nero apre la porta della camera, la richiude. Enzo si blocca di fronte alla porta chiusa. Vorrebbe sfondarla, sta già per farlo quando vede il numero. Uno zero tre. Enzo guarda la chiave che ha in mano. Uno zero tre.
E’ la sua camera.
Ha di nuovo una vertigine, ancora più forte delle precedenti. Questa volta la vertigine porta nuove immagini. Sua moglie che grida, rossa in viso per la rabbia. Poi vede se stesso alzare una mano. Ha qualcosa in mano, qualcosa di duro, di metallico. Il volto di sua moglie scompare.
Enzo è di nuovo alla porta. Gira la serratura, entra nella camera. Si siede sul letto, barcollante sotto l’impatto dei ricordi che affluiscono. Ricordi di rabbia, di violenza. Il suo desiderio di farla finita in modo spettacolare, di trascinare con sé gli esemplari che più odiava del mondo dell’effimero. I ricchi, i modaioli. Quelli di cui sua moglie amava tanto leggere sulle riviste, guardare nei talk show. Non si rassegnava di aver sposato uno qualunque, un impiegato che non sarebbe mai diventato ricco o famoso.
Enzo rimane sul letto per ore. Forse per giorni. Quando la polizia finalmente va a prenderlo, si è addormentato stringendo tra le braccia il suo abito nero, stirato di fresco. Il suo abito buono.