di Eugenio Scalfari
Quando si dice la Chiesa, si dicono tante cose e tante diverse realtà con una sola parola: la comunità dei fedeli, le congregazioni religiose, i sacerdoti che amministrano i sacramenti, i vescovi successori degli apostoli, la Curia dei ministeri vaticani, il Papa che guida, decide, rappresenta in terra il legame tra le anime credenti e il Cristo che venne per indicare la via della salvezza e della nuova alleanza.
Ieri, mentre il Papa moriva, la Chiesa è stata tutte queste cose insieme. Il mondo dei fedeli, le famiglie, i giovani, i vecchi, i bambini, hanno pregato, hanno pianto, sperando irragionevolmente ma fervidamente di poter riascoltare quella voce nelle basiliche, nelle parrocchie, nelle piazze di tutto il mondo. Non solo i fedeli cattolici, ma i cristiani delle osservanze evangeliche, ortodosse, anglicane, gli ebrei delle sinagoghe, “fratelli maggiori” come li definì Giovanni Paolo.
Perfino nelle terre dell’Islam la vicenda di Karol Wojtyla è stata seguita con attenzione e rispetto. Nel mondo globale e mediatico la morte di un papa si è trasformata per la prima volta in un evento di commozione planetaria che ha oscurato ogni altra realtà.
Per la Chiesa è stata al tempo stesso l’ora del lutto e quella del trionfo. L’abbiamo visto, il lutto corale e profondo, nella veglia di settantamila anime racchiuse tra le grandi braccia del colonnato di piazza San Pietro con gli occhi fissi su quelle quattro finestre illuminate del Palazzo Vaticano, dietro una delle quali Giovanni Paolo lottava con la morte, assistito dai medici e dai suoi più prossimi collaboratori. E abbiamo visto l’Ecclesia triumphans sotto le volte del Laterano, con il corpo sacerdotale rivestito dai paramenti dorati della settimana pasquale, non ancora sostituiti dal viola delle celebrazioni funebri. Le grandi statue marmoree degli evangelisti e dei profeti facevano ala al sacrificio della messa solenne, al canto dei salmi, al mistero del pane e del vino trasformati dall’officiante nel corpo e nel sangue del Signore.
Questo abbiamo visto negli ultimi tre giorni. Ieri quella voce che ha risuonato nel mondo intero per ventisette anni, prima robusta, solenne, combattiva, pastorale; poi sempre più fievole, infine ridotta a un suono disarticolato, struggente, espressione d’un corpo crocifisso nella finitudine umana e volutamente esibito come esempio e testimonianza; quella voce si è spenta per sempre. Lascia nella Chiesa un vuoto incolmabile e in tutti i noi dolore e affettuoso rispetto. Ma invita anche alla meditazione su questo grande pontificato. Wojtyla ha rivestito la Chiesa con il mantello del suo carisma personale. Ora, dopo la sua scomparsa, la Chiesa è nuda. La sua forza e le sue debolezze appaiono in tutta evidenza insieme alla forza e ai limiti del lungo regno di Giovanni Paolo II, che ci obbligano all’esame e al ricordo.
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Ricordo ancora l’annuncio dato dal cardinale Felici dal balcone del palazzo pontificio subito dopo la fumata bianca che annunciava l’esito felice del Conclave del 1978: “È stato eletto Karol Wojtyla che ha assunto il nome di Giovanni Paolo II”.
I milioni di persone che seguivano l’evento da piazza San Pietro e dalle televisioni di tutto il mondo pensarono per qualche secondo che si trattasse di un africano, in pochi capirono che quel cognome era polacco. Comunque, ai non addetti ai lavori risultava del tutto sconosciuto e interrompeva la lunghissima sequenza dei pontefici italiani.
Il nome assunto, tuttavia, sembrava iscriversi nella linea della continuità: riprendeva quello del Papa Luciani appena morto dopo poche settimane di regno e si ricollegava ai due pontefici che l’avevano preceduto nel segno del Concilio Vaticano II, cioè della nuova Chiesa, ecumenica, tollerante, pastorale, aperta alle voci della modernità e della collegialità.
Insomma riformista, se vogliamo usare una definizione calzante anche se non propriamente canonica. Invece cominciava una rivoluzione durata ventisette anni.
Una rivoluzione densa di contraddizioni, tenute insieme come un tiro di cavalli impetuosi e spesso discordi, da una mano che riesce a unificarne il vigore ma non la natura e le finalità. Solo la grande e multiforme personalità di Karol Wojtyla è riuscita nell’impresa di rappresentare al tempo stesso la Chiesa della tradizione e quella dell’innovazione, il Dio degli eserciti e il Dio della misericordia, l’apertura conciliare e il centralismo curiale, la lotta contro il comunismo e la critica incessante al capitalismo, la mano tesa verso gli ebrei “fratelli maggiori” e la sintonia con l’Islam; infine l’attenzione rivolta ai non credenti e la reiterata condanna contro la civiltà dei Lumi e contro l’autonomia della ragione.
Se a questa profonda duplicità del messaggio di Papa Wojtyla si aggiunge una modalità di showman quale non s’era mai vista prima sulla cattedra di Pietro, unita alla propensione ai bagni di folla, ai viaggi planetari, al teatro di massa come forma di comunicazione, all’imponenza del rito utilizzato in tutte le immense risorse che esso possiede nell’epoca della televisione, avrete i contorni d’una figura eccezionale e il vuoto non colmabile che si è spalancato dopo la sua scomparsa.
Il suo successore, chiunque sarà, si troverà alle prese con un’eredità schiacciante che non può essere portata avanti nella sua globalità. La Chiesa di Wojtyla non può succedere a se stessa, si conclude con lui, su quel sepolcro, con quell’immenso funerale di popolo.
È stata una rivoluzione disperata nel tentativo di arginare la laicizzazione della società usando gli strumenti della modernità per frenare la modernità. Partendo da questa diagnosi, l’intero pianeta è stato considerato terra di missione; di qui un papa missionario in viaggio perenne, che ha percorso il mondo in tutte le sue longitudini e latitudini sfidando indifferenze, estraneità, ostilità, esponendosi alla violenza degli attentatori, predicando ovunque fratellanza e pace.
Lascia la Chiesa in uno stato di sbigottimento, nel mezzo di un crocicchio di strade che portano, ciascuna, verso obiettivi e modelli profondamente lontani l’uno dall’altro. Lascia una società che ha accolto con ovazioni il suo messaggio restando tuttavia impermeabile ai suoi contenuti.
Quest’uomo che credeva nei miracoli è stato un miracolo. Perciò non avrà successori. Mi auguro che l’eletto dal Conclave non apra il nuovo pontificato assumendo il nome di Giovanni Paolo, terzo della serie: sarebbe una trovata ipocrita e in qualche modo empia.
La Chiesa di Wojtyla è morta con lui. Il successore dovrà imboccare una delle tante strade che il pellegrino Karol ha percorso. Oppure restare fermo nel crocicchio galleggiando sulle onde di un tempo tempestoso.
Questo papa è stato grande, grandissimo. Ma la missione che intraprese venticinque anni fa è fallita. Da non credente lo dico con rispetto e rimpianto perché una ripresa reale dell’afflato cristiano avrebbe in qualche modo fertilizzato la modernità, i suoi contrasti, la sua vitalità intellettuale e morale; avrebbe contribuito ad arrestarne la desertificazione in atto.
Temo che l’occasione sia passata invano. E forse lo stesso protagonista che l’aveva creata porta, almeno in parte, la responsabilità del suo fallimento.
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Bisogna entrare nelle pieghe di questo lungo pontificato per comprendere la ragione di un esito che ha frastornato la cristianità dopo averla galvanizzata. Seguiamone dunque il percorso, così ampio, vario e in qualche modo sussultorio.
Poco dopo la sua elezione comincia la fase del papa polacco, come viene subito denominato dai media e dal vulgo. Non è propriamente una denominazione affettuosa: ci senti un senso di estraneità, quasi la presenza di un limite al suo ruolo universale. Il papa polacco, del resto, non fa nulla per nascondere questo dato della sua personalità; l’interesse per le sorti del suo paese predominano su tutte le altre cure del nuovo pontificato, ma ben presto questo contenuto nazionale esprime i connotati d’una grande sfida contro il totalitarismo comunista all’insegna dei diritti dell’uomo.
Il papa polacco diventa rapidamente il defensor libertatis, l’angelo che punta la spada contro il regno del male sotto la protezione di Maria e alla guida del cattolicissimo popolo polacco. Le tappe di questa battaglia sono ben note e culminano non solo nel trionfo di Solidarnosc a Varsavia ma, più tardi e consequenzialmente, nella caduta del Muro di Berlino e del regime sovietico.
È probabile che il ruolo di Wojtyla in questo sconvolgimento epocale sia stato sopravvalutato: il regime era ormai marcio dalle fondamenta, l’arrivo di Gorbaciov sulla scena l’aveva avviato verso la catastrofe finale.
Ma non c’è dubbio che il contributo del papa polacco sia stato estremamente rilevante sull’immaginario europeo e sui paesi dell’Est in gran parte cattolici (Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, Baltici).
Va aggiunto che la vera e propria crociata lanciata in nome dei diritti di libertà suscitò risonanze di grande amplitudine in un altro bacino cattolico, quello dell’America Latina, dove il clero animato dal messaggio papale si pose di fatto alla testa dei moti di rivendicazione della moltitudine dei poveri, con il miraggio di ripetere in quella parte del mondo il miracolo verificatosi con il crollo del comunismo. Solo che lì le forze avverse avevano diversa natura, si trattava dei militari istruiti a Westpoint, degli uomini d’affari legati alle multinazionali; insomma delle propaggini coloniali del capitalismo americano e del “cortile di casa” dell’unico impero di dimensione mondiale. Un impero, tra l’altro, dove il cattolicesimo ha radici deboli e manca della cassa di risonanza necessaria all’efficacia del messaggio.
Se il messaggio era flebile nel nord del continente americano, rimbombava invece come un tuono di tempesta nel sud. Ma qui nasce la prima vistosa contraddizione del pontificato di Giovanni Paolo: lo scontro con la “nuova teologia”, col basso clero, coi preti rivoluzionari, con quella parte dei gesuiti che, specie in centro America, si schierano apertamente con i ribelli armati in Nicaragua, Guatemala, Costarica, Salvador e in tutta la fascia caraibica che ha in qualche modo raccolto il messaggio di Castro e del Che Guevara.
Wojtyla non li segue su questa strada, anzi li ferma con estrema durezza, la sua religiosità contadina prevale sulla modernità della nuova teologia, ma la disputa va bene al di là d’una questione teologica, assume il rilievo della primazia del magistero papale su ogni altra ipotesi di assetto della struttura gerarchica nella Chiesa e si dispiega sul simbolismo religioso, sul ruolo della Madonna, dei Santi, dei Beati, sull’esistenza del Diavolo come dato di fatto attuale, sul gelo che cala tra l’alto clero sudamericano e i movimenti di liberazione contadina di quei paesi.
La drammaticità della crisi che ne deriva tra il Papa e i Gesuiti è lo specchio che riflette questa contraddizione e che culmina nella decapitazione di fatto del gruppo dirigente gesuita e il richiamo all’ordine della Compagnia. Da quel momento il braccio operativo della presenza vaticana nella società cessa definitivamente di essere identificato nell’Ordine fondato da Loiola, sostituito da un’associazione di laicato cattolico molto attiva tra i giovani e molto fattiva nel settore delle opere imprenditoriali, Comunione e Liberazione, e da una prelatura dotata di autonomia gerarchica e di poteri speciali, l’Opus Dei, dedita alla penetrazione e al proselitismo nei settori più esclusivi della finanza e del credito.
Una svolta verso l’integrismo cattolico che rivaluterebbe la politica della Chiesa preconcilare impersonata quarant’anni prima da Papa Pacelli? Per certi aspetti la risposta potrebbe essere affermativa, i segnali in quella direzione sono numerosi, ma Wojtyla non cessa di stupire e spiazzare i suoi esegeti: continua e anzi inasprisce le sue critiche al capitalismo finanziario, al “pensiero unico” di stampo liberista, al consumismo, al mercato come unico regolatore della distribuzione della ricchezza. In buona sostanza, regolata ormai la partita con il totalitarismo comunista, lo scontento cattolico si appunta ora verso gli Stati Uniti e verso la concezione della vita che di lì promana diffondendosi in tutto il mondo.
Dal 1991 (prima guerra del Golfo) a questi temi dei quali è pervasa la predicazione di Giovanni Paolo e che si ritrovano in quasi tutte le sue encicliche si aggiunge un pacifismo ad oltranza, senza se e senza ma si direbbe adottando una terminologia laica ma nella fattispecie del tutto appropriata. La discontinuità rispetto alla fase del papa polacco è palese.
Sul piano degli accostamenti storici con i suoi predecessori prossimi o remoti si potrebbe osservare che la fase pacifista pone Giovanni Paolo molto più vicino a Paolo VI e soprattutto a Giovanni XXIII e a Benedetto XV che non a Pacelli.
Ma il pacifismo del 1991 risulta ancor più marcato e ricco di implicazioni del 2002, nei mesi precedenti e successivi alla guerra contro Saddam Hussein e alla sanguinosa e purulenta ferita dell'”Intifada” e della reazione militare israeliana. Questa volta infatti Giovanni Paolo non si limita a predicare la pace, il disarmo degli animi e il negoziato al posto della guerra, ma indica nominativamente l’America di Bush come l’elemento di turbolenza e nella teoria della guerra preventiva un fattore di destabilizzazione permanente al di fuori della cornice del diritto internazionale e delle istituzioni preposte al suo corretto funzionamento.
Negli ultimi anni del suo pontificato questi della pace, del negoziato, del multilateralismo, della superiorità della diplomazia sulle soluzioni militari, sono stati i tratti salienti della incessante predicazione di Giovanni Paolo.
A essi si sono affiancati i temi sempre presenti della tutela della famiglia, della scuola privata, della rigida moralità sessuale con riguardo anche alla fecondazione artificiale e all’omosessualità. Ma queste posizioni mutuate dalla tradizione non possono bilanciare la novità della svolta che – dopo la caduta del comunismo – ha visto in Wojtyla il solo grande antagonista dell’impero americano.
Il vigore con il quale ha tenuto questa posizione ricorda, se vogliamo ancora giovarci di assonanze con alcuni suoi remoti predecessori, i grandi papi politici che affrontarono la lotta contro l’impero e in genere contro il potere temporale dei regnanti quando si ponevano in contrasto con la supremazia spirituale della Chiesa. Ricorda Gregorio VII e Innocenzo III rivissuti in chiave moderna e nella dimensione di massa che caratterizza l’epoca nostra.
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Giovanni Paolo II è stato anche un papa mistico e papa poeta. Della sua capacità di tenere la scena e di interpretare i riti in chiave mediatica, in sostanza della modernità del suo carisma, si è già detto. Del resto le modalità irripetibili del suo pontificato sono sotto gli occhi di tutti e credo che molto a lungo vi rimarranno.
Eppure l’obiettivo di cristianizzare l’Oriente e di ricristianizzare l’Occidente è stato mancato. Giovanni Paolo si è tenuto lontano dalla Chiesa dei potenti, si è identificato piuttosto con la causa dei deboli e dei poveri, ma la sua non è stata la Chiesa scalza di Francesco. Ha lottato per i poveri ma non con i poveri. Ha venerato Teresa di Calcutta ma anche la pastorella di Fatima. Ha fatto santo Balaguer, fondatore dell’Opus Dei. Non ha capito la potenza delirante ma lucidissima del pensiero di Pascal. È stato un grandioso e sontuoso contropotere ma non un antipotere.
Questi sono stati i limiti che ha posto alla sua azione pastorale. Alla base della sua immensa popolarità c’è stato il ceto medio di tutto l’orbe cristiano, cioè proprio quella massa indistinta e accomunata dal consumismo e dalla ricerca di Mammona, il luogo sociale che giustamente egli considerava come terreno di missione ma che la sua missione non è riuscita a scalfire. In un certo senso è stato una luminosa meteora, una splendida stella cometa in transito, dietro la quale il buio si è ben presto richiuso.
Morto un papa se ne fa un altro e così la Chiesa è vissuta per duemila anni e continuerà ancora per molto. Ma le fronde di quell’albero sono ingiallite, le radici affondano in una terra sempre più sabbiosa e impoverita.
Karol Wojtyla ha fatto di tutto per morire sull’altare offrendo il suo corpo in sacrificio. Ma che vale il sacrificio di sé nel tempo fosco dei kamikaze?
Ha anche ammonito i peccatori annunciando con le parole di Geremia che Dio si era ritirato dal mondo disgustato dalle sue creature. Purtroppo gli uomini dimenticano prima la morte del padre che la perdita della roba. Era vero ai tempi di Machiavelli; è ancora più vero oggi. Dopo duemila anni di cristianesimo il mondo non è cambiato e il vitello d’oro è ancora l’idolo delle genti.
[da Repubblica, 5 aprile 2005]