di Giuseppe Caliceti
F. D’Adamo, Johnny il seminatore, Fabbri, 2005, pp.145, €. 12,00.
E’ possibile parlare della immane tragedia della guerra ai ragazzi? Deall’ipocrisia che nasconde chi giustifica e incita alla guerra? Del suo falso perbenismo?
Sì, almeno leggendo Johnny il seminatore, edito da Fabbri nella collana “Contrasti”, il nuovo atteso romanzo di Francesco D’Adamo, insegnante in una scuola milanese.
D’Adamo ha pubblicato diversi libri che hanno come destinatari privilegiati gli adolescenti. Il più celebre è Storia di Iqbal, una storia vera, quella di Iqbal Mashir, che venne assassinato in Pakistan a tredici anni dalla “mafia dei tappeti” per avere denunciato il suo ex padrone e avere contribuito a far chiudere decine di fabbriche clandestine e a liberare centinaia di bambini schiavi come lui: non a caso negli ultimi anni Iqbal è diventato un simbolo della lotta contro la schiavitù e il lavoro minorile.
Johnny il seminatore, il suo novo romanzo, edito qualche settimana fa da Fabbri Editori, ha un sottotitolo che è una vera e propria dichiarazione d’intenti: un romanzo contro tutte le guerre.
L’asciutta voce narrante del romanzo è quella di Belinda, adolescente insoddisfatta del suo corpo, che si sente diversa da tutti e da tutto. Belinda è la sorella di Johnny, il giovane che parte per andare in guerra. Nel giovane aviatore nasce presto un sentimento di ribellione, che diventa insopportabile quando viene incaricato di seminare le mine. Allora decide di tornare da dove è partito, al suo paese, affrontando i suoi compaesani, la retorica dell’eroe, dell’impegno sacro per la libertà imposta con la violenza a un popolo, la martellante e ottusa propaganda di una tv. E qui a volte sembra di vedere e ascoltare le tv e i giornali che anche noi abbiamo letto in Italia in questi anni. Per esempio quelli che ci hanno ripetuto che la guerra in Iraq non solo è finita, ma è stata vinta. Anche se rapimenti e morti si continuano a contare. Bambini e ragazzi — ma anche gli adulti – faticano a capirci qualcosa, di questa guerra che vede coinvolti anche i soldati italiani. E forse il romanzo di D’Adamo può aiutare tutti a capirci qualcosa di più, se si ha voglia di capire.
Colpisce che il luogo in cui Johnny è chiamato a combattere, il luogo in cui è in corso la guerra, sia identificato semplicemente con la parola “Laggiù”. Di che luogo si tratta? Di quale delle numerose guerre in atto oggi sulla terra di sta parlando? Di quella in Eritrea o Etiopia? In Afghanistan o in Iraq? In Sierra Leone, Angola, Namibia, Zimbabwe? In Uganda o in Ruanda? Nel Congo Brazzaville o in Liberia? In Costa d’Avorio o nella Repubblica Centrafricana? In Colombia, Algeria, Nepal, Birmania? In Cecenia? In Somalia? In Sudan? Nell’appendice al romanzo D’Adamo invita al lettore a non chiedersi dove si trova Laggiù, a che paese corrisponde. E spiega come tutti i diversi Laggiù che possiamo immaginare abbiano una caratteristica in comune: sono paesi poveri, abitati da gente povera, e c’è una guerra.
“Laggiù”, dunque. Forse perché né noi né l’autore, pensandoci bene, abbiamo bisogno di identificare una guerra con un posto. O perché D’Adamo cerca, se è possibile, di guardare un conflitto in base alla sua gravità. O perché, in fon dei conti, sappiamo tutti che la geografia di ogni guerra, più che nei luoghi, è tragicamente segnata sul corpo e lo spirito delle sue vittime.
Per ogni copia venduta 0,50 euro saranno devoluti a favore di Emergency.
(da Liberazione del 26 marzo 2005)