di Corrado Stajano
L’inganno, nel disegno di legge dei senatori di Alleanza Nazionale che reclama il riconoscimento della qualifica di “militari belligeranti” per quanti servirono dopo l’armistizio dell’8 settembre dalla parte di Mussolini, è riscontrabile fin dalle prime righe della relazione n.2244. Nel sommario del ddl si parla infatti di “quanti prestarono servizio militare dal 1943 al 1945 nell’esercito della Repubblica sociale italiana (Rsi)”. Poi, nel primo articolo della legge scompare la parola esercito e si dice: “I soldati, i sottufficiali e gli ufficiali che prestarono servizio nelle Repubblica sociale italiana sono considerati a tutti gli effetti militari belligeranti (…)”. Questo significa che a godere della qualifica di “militare belligerante” potranno essere non soltanto gli uomini delle quattro divisioni – Littorio, Monte Rosa, San Marco, Italia – formate nei lager tedeschi, ma anche gli uomini e le donne delle bande criminali, i torturatori, i briganti neri, tutti quanti seminarono il terrore e si macchiarono di delitti efferati nelle ville tristi delle città, la banda Koch, la legione Muti, la banda Carità, le Brigate nere, la Guardia nazionale repubblicana.
Il governo legittimo era al Sud. Il Parlamento si appresta ad approvare quindi una legge che viola la Costituzione antifascista nata dalla lotta di Liberazione. Rappresenta un segno grave, dare un riconoscimento, anche se più di sessant’anni dopo, a chi prese le armi contro lo Stato che si era ricostituito e al quale restarono fedeli, per esempio, più di mezzo milione di ufficiali e di soldati, internati nei lager nazisti.
La questione è giuridica, non soltanto politica. Troppo facile per Gianfranco Fini dire che il fascismo fu un male assoluto, che le leggi razziali furono un grave errore, visitare compunto le Fosse Ardeatine, andare oltre la svolta di Fiuggi, approdare in Israele dopo una lunga anticamera e poi indulgere a un gesto mistico-nostalgico come questo del ddl sui “militari belligeranti” che offende la memoria di milioni di persone tra passato e presente. Qual è il vero Fini? L’uomo della moderazione, come vuole apparire oggi, o il giovane fascista di un tempo, lo stesso che nel 1988 partecipò al cinema Adriano di Roma a una manifestazione in comunanza con Jean-Marie Le Pen, leader dell’estrema destra razzista francese, e che il primo aprile 1994 dichiarò in un’intervista ché “Mussolini è il più grande statista del secolo”?
L’iniziativa di An sembra una rivalsa di vinti risentiti, una vendetta consumata proprio in occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione, mentre vengono boicottati e discriminati gli Istituti storici della Resistenza e vengono ridotti i fondi per il loro funzionamento. Un’iniziativa parlamentare ipocrita, questa in cammino, perché nel breve testo che accompagna il disegno di legge è scritto che il riconoscimento della qualifica di “militari belligeranti” “prescinde da qualsiasi considerazione di carattere ideologico” e non comporta “alcuna rivalutazione politica delle ideologie che erano alla base di quell’ordinamento”. Non ci vuol molto a capire che tutto questo non è vero. La presenza dei postfascisti al governo e il clima destroide del regime berlusconiano hanno favorito la benevolenza di non pochi amatori dell’ambiguità che si sono prodigati a offrire attestati di coraggio e di fedeltà ai figli della Repubblica di Salò, rappresentazione del fascismo più cupo al servizio dei nazisti, i quali usavano nei loro confronti un sommo disprezzo.
C’è poco da vantare le gesta delle guardie nere della Repubblica di Salò. Alcuni di loro, cresciuti nel tempo fascista, imbevuti di quella dottrina e di quella propaganda, credettero di riscattare la vergogna di un re fuggiasco arruolandosi nell’esercito di Graziani e nelle bande mussoliniane. Altri pensarono che la Rsi potesse far da scudo alla violenza nazista. Non accadde. Furono subalterni alla Ss e alla Wehrmacht, uguali solo nella violenza. Durante i rastrellamenti manifestarono tutto il loro zelo, bruciarono villaggi, impiccarono, fucilarono, stuprarono. Parteciparono alle stragi più efferate, furono presenti a Sant’Anna di Stazzema, con indosso la divisa tedesca. Tralasciando quel che accadde nelle caserme, nei covi, nelle sedi dei corpi speciali, accozzaglie criminali, dove il sadismo fu la regola.
L’esercito della Repubblica di Salò – la documentazione ormai è ricca – nacque come un corpo informe. Aderirono alla Repubblica 300 generali (63 soltanto a Roma). Rimasero, con 65mila ufficiali, disoccupati, senz’armi, senza soldati. Si creò la posizione di “ufficiale in disponibilità”.
Graziani cercava di consolarli: “Camerati, di fronte al conservatorio plutocratico capitalistico delle democrazie e al bolscevismo distruttore di ogni ordine, si erge, purissima e livellatrice, da tre decenni circa, l’Idea fascista con la soluzione del problema sociale che affatica da millenni l’umanità”. (…) “A questa Idea, che dovrà dare alla Patria il suo definitivo assetto sociale e nazionale, noi oggi, camerati dell’esercito repubblicano, giuriamo religiosamente e con purezza di intenti, sicura e diritta coscienza, assoluta fedeltà per la vita e per la morte”.
Le diserzioni cominciarono presto, i giovani di leva salirono in montagna sempre più di frequente. La militarizzazione del partito fascista repubblicano da cui nacquero le Brigate nere, il 21 giugno 1944 – 15mila uomini, non i 50mila previsti – e i 75mila militi della Gnr, con compiti di polizia e di repressione antipartigiana, agli ordini del generali Wolff, comandante delle Ss in Italia, non colmarono i vuoti.
La speranza di Mussolini era affidata alle quattro divisioni nate nei campi di addestramento in Germania, 65mila uomini. Erano volontari, giovani di leva, renitenti, partigiani rastrellati e perdonati. Tornarono in Italia, male accolti, nell’estate del 1944. Furono schierati sulla Riviera ligure, qualche reparto in Garfagnana. i tedeschi non si fidavano di quei soldati. Molti avevano aderito alla Repubblica di Salò per tornare a casa, altri, gli entusiasti, furono presi presto dal disincanto. A metà settembre i disertori della divisione San Marco erano 1.400, quelli della Monte Rosa un migliaio. Nel febbraio 1945, i disertori delle quattro divisioni, secondo una stima tedesca, toccavano il 25per cento degli organici. Il ministro degli Interni Buffarini Guidi dispose allora “le misure di rappresaglia contro i familiari dei disertori”: l’arresto, l’avvio in un campo di concentramento, il sequestro delle merci e il ritiro della licenza per i commercianti, la radiazione dall’albo per i professionisti, il licenziamento in tronco per i salariati.
“Chiamare “militari belligeranti” i militi di Salò è un controsenso storico prima ancora che politico”, ha scritto Gian Enrico Rusconi sulla Stampa del 12 febbraio. E Maurizio Viroli, sulla Stampa dello stesso giorno: “La proposta di legge che riconosce ai miliziani della Repubblica di Salò lo status di militari combattenti e li pone sullo stesso piano dei partigiani offende il più elementare senso di giustizia che impone, a chiunque abbia una coscienza morale, di non premiare chi opera o ha operato contro i più sacri diritti umani Tali furono i miliziani della Repubblica di Salò, perché combattevano per risuscitare un regime che aveva tolto agli italiani la libertà e si era macchiato dei più ripugnanti crimini in pieno ossequio alla politica del Terzo Reich. Nessun libro revisionista può cancellare questa semplice verità, e dunque la legge in esame al Parlamento offende la coscienza morale di ogni persona che crede nella dignità umana”.
[da l’Unità, 25 febbraio 2005]