di Alessandro Armato
Anche il realismo, in America Latina, non ha più nulla di magico. La letteratura dell’ultimo ventennio ha infatti demolito il mito del Nuovo Continente come terra magica e primigenia contrapposta al prosaico razionalismo e alla stanchezza della civilizzazione europea. Non sono stati scritti (o non sono stati ancora riconosciuti) grandi capolavori, ma il cambiamento di prospettiva è degno di nota. Il crollo del comunismo, l’agonia della rivoluzione cubana e il dilagare della globalizzazione hanno ridimensionato le aspettative ideali legate all’America Latina e hanno favorito un ritorno alla realtà. È tramontato il «realismo magico» e al suo posto è sorta una nuova letteratura che esce dagli schemi di un rigido «latinoamericanismo», prende atto della modernità e recupera quella che in fondo è l’essenza stessa del Nuovo Continente: l’ibridismo, il mestizaje, l’incrocio di popoli e culture differenti.
Il «realismo magico» era esploso negli anni Sessanta sull’onda dell’entusiasmo per la rivoluzione cubana e delle attese redentrici legate a Che Guevara e ai movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo. I suoi esponenti a quel tempo erano tutti simpatizzanti del regime castrista e presentavano un’America Latina immersa in un tempo mitico, ignara del progresso e priva di complicazioni intellettualistiche. Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa, Miguel Ángel Astúrias o Alejo Carpentier idealizzavano il carattere primitivo del continente sudamericano e lo proiettavano nell’avvenire rivoluzionario. Il loro socialismo tellurico, assieme all’indiscutibile qualità di alcune opere, ha avuto tanto successo da far entrare per la prima volta la letteratura latinoamericana nel mercato editoriale internazionale e ha creato quel fenomeno che nei manuali di letteratura va sotto il nome di boom literario latinoamericano.
Alla lunga però il «realismo magico» ha finito per esaurirsi come tutte le formule. Oggi è praticato solo dai sopravvissuti della vecchia generazione (per lo più ridotto a un fatto stilistico, come nel recente Memorias de mis putas tristes di García Márquez) e da alcuni epigoni di qualità discutibile come la messicana Laura Esquivel, l’autrice di Dolce come il ciccolato (edito in Italia da Garzanti).
Non ci sono nuovi Márquez all’orizzonte. L’America Latina magica degli scrittori del boom, venata di vecchie utopie antiprogressiste peraltro di origine europea, non è più compatibile con il presente. Macondo esiste ancora, ma convive con metropoli sterminate, autostrade, metro, tivù via cavo, internet, cellulari, Mtv, film hollywoodiani, fast food e fantasmagorici centri commerciali. È diventato McOndo, come recita il titolo di un’antologia di racconti di giovani scrittori cileni pubblicata in iberoamerica – guarda caso – da Mondadori.
Ognuno scrive a modo suo, ha i suoi temi e generi favoriti. Ma tutti accettano la modernità e la post-modernità come un dato di fatto (pur non la esaltantandola) e accantonano il vecchio mito dell’America Latina come luogo dell’utopia, come la terra del «buon selvaggio» dove è possibile costruire una civiltà nuova alternativa a quella del progresso esemplificata dall’Europa o dagli Usa.
In contrasto con la ruralità di opere come Cent’anni di solitudine, si moltiplicano i romanzi urbani dai tratti post-moderni. A volte sono crudi, come Satana (Einaudi, 2003) del colombiano Mario Mendoza, oppure vicini al noir come Donna in rosso (Guanda, 2002) di un altro colombiano, Jorge Franco Ramos.
Non mancano autori giovanilistici e commerciali come il cileno Alberto Fuguet de I film della mia vita (Marcos y Marcos, 2004) o il colombiano Efraim Medina Reyes di C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo (Feltrinelli, 2003), ma ci sono anche scrittori decisamente più solidi come il cileno Roberto Bolaño de I detective selvaggi e de La pista di ghiaccio (Sellerio, 2003 e 2004 ), il controverso Fernando Vallejo, fustigatore della società colombiana ne La vergine dei sicari (Guanda, 2002) o l’argentino Ricardo Piglia di Soldi bruciati (Guanda, 2000).
Che il mondo letterario latinoamericano sia in fermento lo rivela il proliferare di etichette con cui la critica si sforza di inquadrare i nuovi scrittori. Ci sono i colombiani del cosiddetto Baby Boom come i già menzionati Mendoza e Ramos, assieme a Enrique Serrano, Santiago Gamboa o Juan Carlos Botero. I messicani di El Crack come Sergio Pitol, Jorge Volpi, Ignacio Padilla, Ricardo Chávez Castañeda, Eloy Urroz, Pedro Ángel Palou, Vicente Herrasti o Alejandro Estivill. Oppure i cileni della Generación McOndo come il già citato Fuguet, Sergio Gómez e altri.
Ángela Ines Robledo, docente di Letteratura latinoamericana alla Universidad Nacional de Colombia, avverte che «molto di quello che sta accadendo è legato al fenomeno del mercato. I giovani autori devono fare i conti con un mercato globale, di massa, dominato da case editrici transnazionali. Il successo di uno scrittore latinoamericano passa per gli editori che hanno la loro sede centrale in Spagna. Le grandi case editrici esigono temi che qualsiasi lettore, in qualsiasi parte del mondo, possa comprendere. Oppure richiedono generi che si vendono bene come il romanzo poliziesco, il noir, il thriller, il romanzo storico. Non accettano opere troppo regionali, telluriche, autoctone».
Anche la letteratura di testimonianza ha un certo peso, soprattutto in quei Paesi negli anni Ottanta si sono risvegliati dall’incubo delle dittature. In Centro America le testimonianze delle persone di che sono state testimoni di fatti politici sono fondamantali. Un libro su tutti è la vita della leader indigena Rigobertà Menchú raccontata a Elisabeth Bugos in Mi chiamo Rigoberta Menchú (Giunti). «Attraverso l’oralità – spiega ancora Ángele Ines Robledo – si punta a cambiare la storia ufficia le e a incorporare nella società le voci dei perseguitati politici e delle minoranze indigene o afroamericane».
Nel Cono Sur (Cile, Argentina e Uruguay) le problematiche legate alle dittature militari, alle torture e ai desaparecidos vengono trattate in modo differente. Invece di ricorrere alle testimonianze si adoperano la letteratura fantastica, i sogni e gli elementi psicanalitici che abbondavano già in scrittori come Jorge Luis Borges, Ernesto Sábato e Adolfo Bioy Casares. Sono significative in questo senso le opere Luisa Valenzuela (Noir con argentini, Perosini, 2002), di Damiela Eltit o del già ricordato Bolaño, precocemente scomparso nel 2003 (Notturno cileno, Sellerio, 2003).
Mancano molte voci all’appello. Ma quello che si nota, nel complesso, è una letteratura post-yuppies e post-comunista, una letteratura delusa tanto dal progetto della modernità come dalle ideologie di sinistra, che cerca confusamente di ritrovare valori umani universali. Dopo che il vento della globalizzazione ha spazzato via le vecchie utopie, l’America Latina, col suo enorme bagaglio etnico e culturale, potrà sicuramente dire qualcosa in questo senso.
[da l’Avvenire]