di Nello Ajello
Si può dedicare un saggio critico a un amico scrittore che si ammira con affetto incondizionato, e di cui, nella vita ancor prima che nella letteratura, si condivide tutto, fino a considerarlo un esempio e un modello? Dedicando a Parise un libro intitolato Caro Goffredo (minimum fax, € 7), Raffaele La Capria dimostra che si può. Le preferenze, i tic, le bizzarrie dell’amico veneto vengono considerate dallo scrittore napoletano parte essenziale e preziosa dell’artista che Parise fu. Dopo la morte, che lo colse cinquantasettenne nell’agosto del 1986, i dati caratteristici della sua personalità gli appaiono come un lascito memorabile.
Oltre che una testimonianza, questo libro esile e malinconico – nel quale si intessono scritti che La Capria ha composto in tempi diversi – appare come una rivendicazione polemica di Parise uomo e scrittore. L’autore sintetizza ed esalta tutti i punti di dissenso (e non furono pochi) che Parise segnò nei riguardi della società italiana: specie negli ultimi anni di vita, ciò che La Capria chiama “idiosincrasie rispetto alle idee correnti del suo tempo” assunsero per l’autore dei Sillabari la consistenza di un motore ideale per attivarne la fantasia. Scrittore assai reattivo, antagonistico per indole e istinto, egli insomma si esprimeva “a rovescio” rispetto allo spettacolo che gli offriva il mondo.
Il catalogo delle allergie di Parise è assai fitto, e porta in cima una data, approssimativa ma non arbitraria, che è la stessa nella quale il sodalizio fra i due amici diventò più stretto: gli anni Sessanta, a Roma. Fu allora che ebbe inizio quella stagione dell’ “impegno” e della “contestazione”, che il romanziere vicentino avversava e irrideva, parlando e soprattutto scrivendo. In ogni ramo della cultura, e particolarmente in letteratura, l’invadenza dell’ideologia gli apparve intollerabile.
Crebbe progressivamente in lui – se vogliamo farne per un istante una questione di “scuole”, termine che egli aborriva – l’avversione verso quel “neorealismo” che aveva dominato quasi senza contrasti la narrativa nostrana del dopoguerra, e che ancora sopravviveva in forme abitudinarie e quasi costrittive. Anche senza obbedirvi, in un periodo della sua attività di narratore Parise era apparso meno drastico nel condannare questa sorta di ukase in ossequio al quale, per citare un’antica battuta di Alberto Arbasino, “magari per eccesso di buone intenzioni” si finiva “per confondere la buona letteratura con la Cassa del Mezzogiorno”.
Ma il Parise più vero è altrove (e La Capria lo sottolinea in ogni pagina): nel suo libro di esordio, scritto a ventidue anni, che s’intitola Il ragazzo morto e le comete e che il suo stesso autore definirà “lirico e cubista”, e all’altro estremo della vita, nei Sillabari numero 1 e numero due, distinti in un alfabeto – un racconto per ogni lettera – che la morte prematura del narratore interruppe alla “S”. E’ qui, in quest’opera ultima, che La Capria individua “uno dei risultati più alti della narrativa di oggi”. Nel lungo intervallo fra questi due momenti letterariamente felici – riferisce l’amico biografo – “Parise era uno scrittore famoso e applaudito, ma scontento”. Girava, senza afferrarlo, intorno al “perno del proprio lavoro”. Qualche suo libro d’allora sembrava a lui stesso peccare di un’eccessiva razionalizzazione, cioè di un difetto di poesia. L’eccesso di razionalità in arte: ecco l’errore che i due scrittori esecrano all’unisono. Non a caso, sia detto “per incidens”, La Capria considera mancato, fra i propri romanzi, Amore e psiche (1973), addebitandogli proprio quella pecca.
La complicità fra i due si fondava, senza possibili stridori, su motivi di arte e di costume quotidiano. Nei rapporti correnti di cui è fatta l’amicizia, l’autore di questo volumetto esplora l’universo dell’altro. Gli piace la sua aria di “ipnotizzatore” e di “rabdomante”. Gode la musichetta veneta del suo eloquio. Apprezza in lui l’alternarsi di “una corda seria e una corda pazza”. Lo incuriosiscono il suo anticonformismo, le sue stranezze, la sua visionarietà. Lo incanta soprattutto quell’intelligenza del cuore, così in disuso, cui Goffredo si appella.
Fra due scrittori così, la pratica insistita del “disuso” – frutto della non coincidenza con le consuetudini e i suggerimenti dell’ambiente e della cultura – può diventare un modo di vivere, una regola del pensiero. “L’arte è una farfalla senza eredi e capricciosa, si posa dove e quando vuole lei”, ovvero “la poesia va e viene”, si legge fra le citazioni da Parise che La Capria riproduce. Nel libro compare spesso una parola, l’ “ispirazione” (a volte scritta con la maiuscola), che ancora qualche decennio fa, “quando i sentimenti erano considerati reazionari”, era bandita dai consessi letterari. E da fondati indizi appare chiaro al biografo che non fu la morte, e non soltanto lei, a lasciare incompiuto l’edificio dei Sillabari. A determinare l’evento c’era stato un trauma, come lo stesso Parise aveva confidato in un’avvertenza ai lettori: “Alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato”. “E con la Poesia”, lo aiuta a concludere La Capria, “se n’è andato anche lui”.
Parise, che venne chiamato “l’ultimo grande scrittore vitalista italiano”, aveva avuto, tuttavia, sempre presente la morte. Sottoposto a dialisi dal 1981 in seguito a mali cardiaci e poi renali, aveva lasciato a Roma – città “di papi e di topi” – e si era trasferito per alcuni anni, gli ultimi, nelle montagne della sua gioventù. Senza più scrivere, sciando, andando a caccia. E aspettando la fine. Le sue lettere a La Capria, detto “Duddù” o “Dudù”, che chiudono il volume odorano di neve e di erba appena falciata. Sembrano un inno alla vita, alquanto incredulo, smentito dalla realtà. E perciò tanto più struggente.
[La Repubblica – 1 febbraio 2005]