Origini, ragioni storiche e capisaldi del cinema “polizziottesco” italiano
di As Chianese

“Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”. Durrenmatt, Giustizia
“…Mi ci romperò la testa… disse a voce alta”. Sciascia, Il Giorno della Civetta

profili_02.jpgIl commissario Sarti è stanco, si guarda attorno fuori dai finestrini con circospezione ed è nervoso… cosa che lui sa essere solo un’ aggravante per la delicata situazione che si stà trovando a vivere, per questo sporco mestiere che aveva scelto di fare. Nell’auto, al suo fianco, c’è un giovane altresì nervoso, ma per diversi motivi. Dovrà fare la spia a uno sbirro e questo non gli stà bene, è maledettamente difficile riuscire a lavorare adesso in questo paese, tutti hanno paura di tutto e tutti non vogliono passare per “infami” anche quando li si paga profumatamente. Ma la fame, la miseria e la rabbia sono più forti dell’omertà, della paura ed il ragazzo parla, il commissario tira un sospiro di sollievo poggiando finalmente meglio la schiena sul sedile perché, grazie a quelle informazioni su Brescianelli e la banda dei marsigliesi, lo spettro di ritornare confinato in Sardegna scompare immediatamente, e si fa più vicino il momento in cu potrà riportare la piccola e malata Camilla tra le braccia della madre.

Potrà finalmente sbattere tutti insieme in gattabuia quella banda di criminali e quello strano tipo che puzza, Sergio Marazzi detto “er Monnezza”, che si è dovuto portare appresso per le indagini lasciando beatamente che si scannino tra di loro. Per un attimo la vita torna a sorridere al caro vecchio Sarti, con quel soffio al cuore che non si decide mai a farsi curare e con la mano sempre pronta sulla pistola. Tende una banconota di grosso taglio al ragazzo, in uno slancio di inatteso buonismo:

– Tieni, compratici un bel paio di scarpe.

Il ragazzo lo guarda con un sorriso a fil di labbra, ha l’aria di un dritto, di quelli che non durano troppo, e sembra quasi che spavaldamente lo compatisca:

– Ma quali scarpe! Adesso co stì sacchi me ce compro subito una bella 7.65, l’ho vista proprio ieri, nuova…

(…)

Questa, descritta brevemente, è una delle scene più significative ed emblematiche di uno dei capolavori del cinema polizziottesco italiano: Il Trucido e lo Sbirro (1976) per la regia dello specialista Umberto Lenzi. Un film dove fa il suo esordio il macchiettistico personaggio del “monnezza”, interpretato da un Thomas Milian all’apice di un istrionismo coatto che lo porterà, dopo essersi aggirato per anni con l’aria da bellone sui set dei vari Bolognini, Visconti, Cavani e Pasolini, si ad alti livelli di popolarità ma che segnerà anche il suo inesorabile, personalissimo, declino. Il Trucido e lo Sbirro è un grande successo di pubblico, sicuramente il punto massimo d’arrivo di un filone che può contare parecchie perle ed un capostipite d’eccezione: quel La Polizia Ringrazia (1972) firmato da uno Steno, il pater familias Stefano Vanzina, in eccezionale stato di grazia, per una volta dimentico della commedia. Proprio con questa pellicola iniziamo ad evidenziare le analogie e soprattutto le differenza con il poliziesco “hard boiler” americano più che col noir e il polar francese. Sicuramente per entrambi è comune la derivazione prettamente letteraria, la scuola dei duri, i personaggi, di grandi autori d’oltreoceano come Dashiell Hammett, Raymond Chandler e Mickey Spillane, commistionata con i tetri universi e le lancinanti malinconie del mai troppo osannato Giorgio Scerbanenco. Si rispecchia proprio nelle parole di Chandler, inventore dell’indimenticabile detective Marlowe, la classica e abusata figura del commissario di ferro di tanti polizziotteschi nostrani: “Nell’arte occorre sempre un principio di redenzione. Può essere pura tragedia se è alta tragedia, può essere ironia, pietà o aspro riso del forte. Ma sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, che non è un tarato, che non è un vigliacco. Nel poliziesco realistico quest’uomo è il detective. E’ l’eroe, è tutto. Un uomo completo, un uomo comune, eppure un uomo come se ne incontrano pochi. Deve essere, per usare un’espressione un po’ abusata, un uomo d’onore per istinto, per necessità, per impossibilità a tralignare. Deve esserlo senza pensarci e, certamente, senza mai parlare troppo. Il miglior uomo di questo mondo è abbastanza buono per qualsiasi altro mondo”.
merli_04.gifIn Italia, nel panorama dei generi cinematografici, si è sempre cercati di attingere dall’estero ma nello stesso tempo di personalizzare e rendere altamente estetizzanti i dettami di qualsiasi capolavoro. Così i nostri poliziotti incorruttibili, interpretati a turno dal grintoso Maurizio Merli, dal tenebroso Claudio Cassinelli o dal fascinoso Luc Merenda, hanno sicuramente molto a che spartire col truce ispettore Harry Callaghan interpretato irriverentemente sul grande schermo, per la prima volta nel 1971 (Il Caso Skorpio è Tuo), da Clint Eastwood. Rabbia, coscienza sociale e idealismo sono i motori della giustizia perfetta e senza pietà tipica di certe nostre pellicole, dettagli che si uniscono ad un per nulla abbozzato affresco della società italiana dell’epoca, posteriore al grande boom degli anni ’60, coi fantasmi del terrorismo e di un nuovo fascismo, travestito da movimento sociale, pronti dietro l’angolo. Se Il Cittadino Si Ribella (1974) di Enzo G. Castellari richiama alla memoria le situazioni del Cane di Paglia (1971) di Sam Peckinpah è sicuramente merito di un naturale processo di rielaborazione dei canoni che la nostra, allora forte, industria cinematografica si è sentita in dovere di attuare. Non c’è niente di altamente politicizzato, questo perchè il polizziottesco è anche un genere che deve la sua violenza, in cui alcune scene, in alcuni snodi narrativi e nelle psicologie di alcuni personaggi, derivante fondamentalmente dallo spaghetti western e dal mito del pistolero (del commissario?) triste, incorruttibile e arguto. La-banda-del-gobbo.jpgE’ incredibile come certa critica, vedendo la forza e la tenacia con cui i poliziotti davano la caccia al malfattore di turno, abbia tacciato il lavoro di un regista come Umberto Lenzi di fascismo, la cosa analoga successe anche al Don Siegel di Callaghan, quando invece adesso c’è da scorgere una vena anarcoide e kubrickiana in cult movie come Milano Odia: La Polizia non può Sparare (1974), Roma a Mano Armata (1976) e La Banda del Gobbo (1978), tutti impreziositi dalla presenza di un istrionico Thomas Milian. Ma d’altronde, letterariamente parlando, anche i personaggi dello stesso Giorgio Scerbanenco avevano subito l’accusa di fascismo: Carlo Lucarelli, uno dei più grandi estimatori dello scrittore ucraino di nascita e milanese d’adozione, su questo punto chiarisce dicendo che: “…Io non ci credo. Credo che sia l’arrabiatura e l’abbruttimento di chi ha visto troppa miseria, come lui stesso…”*. Nel primo film della citata trilogia lenziana, assistiamo alla genesi, alla crudeli scelte e all’epilogo della carriera di un giovane e violento disadattato nella mala milanese. Praticamente una sorta di Arancia Meccanica metropolitana, che anticipa la costruzione drammatica dello Scarface che Brian De Palma realizzerà nove anni più tardi, nel 1983. Roma a Mano Armata è il “palcoscenico”, invece, dove si “esibisce” la cattivissima figura del gobbo: Vincenzo Moretto (Milian), poeta della strada e della morte, che si troverà a fronteggiare con la sua malvagità i mille piani del commissario Leonardo Tanzi (Merli) per assicurarlo alla giustizia, anche quando ci si mette di mezzo la psicologia e il tentativo di recupero sociale dei criminali. Questo è un film particolarmente significativo per tutto il genere, sicuramente seppure è scontata la derivazione letteraria a metà tra Spillane e Gadda, perchè insegue più la dinamicità e il fatalismo della kubrickiana Rapina a Mano Armata (1955) mista all’action movie statunitense. Ma mai nel cinema italiano si era fatti i conti con una figura spietata come il gobbo, forgiata praticamente da un celebre personaggio di un film di Carlo Lizzani: “Gobbo” che tornerà più vendicativo che mai nel terzo film, dove si ritroverà a fare i conti con una banda di infami che ha cercato di ucciderlo durante un colpo. Siamo lontani anni luce, per fortuna, dai provinciali e televisivi Racconti del Maresciallo di Mario Soldati. E’ il momento in cui si affermato due sceneggiatori fondamentali del nostro cinema di genere, visitatori di tutti i generi, gli eclettici Ernesto Gastaldi e Dardano Sacchetti. Il primo proveniente dagli horror gotici, dai set di Riccardo Freda e Mario Bava, passando da una lunga collaborazione con Sergio Leone filtratagli attraverso Tonino Valerii, ha anche cercato di dare una visione politicizzata e realista della realtà italiana post ’68 con quel Milano Trema: La Polizia Vuole Giustizia (1973), film diretto da Sergio Martino dove compare la spietata figura di un editore fascista, interpretato dal bravissimo Richard Conte, implicato in loschi traffici e capace di corrompere la giustizia. Certo non siamo davanti ad una pellicola di quelle socialmente impegnate di Francesco Rosi o Elio Petri, ma è lodevole il modo in cui Gastaldi imbastisce attorno alla polizia e alla procura milanese una sorta di complotto politico che si risolverà con il classico duello a suon proiettili con tanto di inseguimenti in Alfetta.
Sacchetti invece è uno sceneggiatore che ha da sempre preferito il dinamismo di certe scene, le forti psicologie tagliate con l’accetta dei suoi personaggi, ai complicati snodi narrativi. Sua fu l’idea portante del secondo, fortunato, thriller di Dario Argento Il Gatto a Nove Code (1972). Come a lui si devono i deliri lovecraftiani o gore dei più riusciti film horror di Lucio Fulci, percorsi che l’autore aveva gia sperimentato con encomiabili risultati prima con Mario Bava (Reazione a Catena) e poi con suo figlio Lamberto (Dèmoni). A lui si deve, alla sua lunga collaborazione con Umberto Lenzi, sia il personaggio del Gobbo che quello di Monnezza, che si ritroveranno fratelli ne La Banda del Gobbo dopo essere stati protagonisti rispettivamente dei suoi capolavori Roma a Mano Armata e Il Trucido e lo Sbirro. Film in cui emergeva una forte rabbia sociale del popolo nei confronti della borghesia.
Alla lista degli sceneggiatori “storici” del genere si potrebbe ascrivere anche il talentuoso Massimo De Rita, autore dei più riusciti poliziotteschi di Castellari, si segnala come autore anomalo di film in cui non è sempre la polizia ad essere eroica, è il caso del Fabio Testi bodyguard in Vai Gorilla! (1976) di Valerii e dello spaurito, ma sempre ligio ad dovere, commissario Jervolino de Il Camorrista (1985) di Giuseppe Tornatore, che ha il volto glabro di Leo Gullotta. In Tv, prima di approdare alle sicure produzioni per tutta la famiglia, De Rita scriverà la prima serie de La Piovra (1984) che, con Damiano Damiani alla regia, porterà sul piccolo schermo l’ultimo commissario di ferro: il Corrado Cattani interpretato da Michele Placido.

Attualmente stiamo avendo una grossa riabilitazione cinematografica del poliziottesco. La riscoperta di autori cult come Fernando Di Leo, regista di un indimenticato film come Milano Calibro 9 (1973), che vede la sua opera riproposta su DVD, ha riportato alla graduale revisione di un filone che rischiava di essere dimenticato. Il pubblico è più attirato dagli inseguimenti, dalla spietata ferocia dei criminali e dalla tenacia dei commissari di questi film che da quelli della stagione politicamente impegnata degli anni ’70. Questi film sono invecchiati meglio, merito la non esplicita contaminazione politica, di tanti altri. Si preferisce Roma a Mano Armata al Cadaveri Eccellenti di Rosi, e tutto questo perché di più affascina la componente da action movie che determinò, all’epoca, il successo di certi titoli. Certo si potrà notare anche una sorta di riuscitissimo affresco della società degli anni ’70: gli abiti, le auto, le pettinatura… ma anche gli ambienti urbani che favoriscono la squallida provincia e i violetti sozzi della grande città.
Ma ancora oggi il poliziottesco, termine che Di Leo odiava perché secondo lui spregiativo nei confronti di un genere che doveva assolutamente appartenere al poliziesco se non al giallo/noir, viene analizzato e visto come una sorta di nostalgico “come eravamo” o peggio ancora con il sorriso a fil di labbra di uno spettatore che sicuramente più smaliziato di quello dell’epoca. Anche le recenti retrospettive tendono, mi viene in mente quella Veneziana dell’anno scorso, a mischiare il poliziottesco con la commedia scollacciata o lo spaghetti horror. Abbinamenti, pericolosi cocktail, che screditano un genere che ha ancora molto da dire. Il risultato è che si pensa ad esso, inevitabilmente, come a qualcosa di comico. Ed ecco che si fanno avanti i Vanzina, che ci proporranno a breve il loro ritorno del Monnezza. Come se l’Al Pacino di Insomnia (2002) non avesse imparato nulla, nei metodi poco ortodossi e nel carattere, dai nostri commissari di celluloide.