di Wu Ming 1
[Domenica 27 febbraio l’inserto domenicale di Liberazione dedica uno speciale a Malcolm X, con vari interventi su Malcolm e l’hip-hop, Malcolm, Gramsci e la cultura afroamericana etc. Da pochi giorni, su input del nuovo direttore Piero Sansonetti, Liberazione ha cambiato formula e formato, arricchendosi di contenuti e collaborazioni. Un esperimento da tenere d’occhio. Qui di seguito, in anteprima, uno degli articoli di Wu Ming]
La “X” che rimpiazza il cognome di Malcolm è la stessa delle mappe dei pirati: indica dov’è sepolto il tesoro. Il tesoro da scoprire è la dignità, e accanto allo scrigno c’è l’ascia di guerra: la memoria.
La rinuncia al cognome da schiavo, contrassegno di un antico stupro, mette in discussione il presente, l’identità imposta, il ruolo che ci assegna il copione dei vincitori. La messa in discussione è radicale, cioè va alle radici, alla riconquista della memoria negata.
I tuoi avi erano merce, 100% forza-lavoro da sfruttare fino all’esaurimento. Non sei arrivato in America a bordo del Mayflower, il mito fondativo non t’appartiene. In fondo all’Atlantico ci sono i resti di chi non sopravvisse alla traversata sulle navi negriere (il Middle Passage). Compagni di sventura dei tuoi avi, gettati a mare perché morti o malati, zavorra umana, brandelli di carne tra i denti degli squali.
No, il mito non t’appartiene, i “padri della Patria” usavano la frusta su tuo nonno e tu ne porti ancora i segni. George Washington possedeva trecentosedici schiavi. Thomas Jefferson ne aveva centottantasette, e più di un figlio mulatto.
I tuoi avi erano uomini-bestiame, muli scambiati con barili di melassa, ma non erano stupidi: si fingevano tonti per imbrogliare il driver man e lavorare meno. Fingevano di dire idiozie, di non saper parlare, yes, massa, you’se right, you jes right, massa e intanto parlavano in codice per non farsi capire, creavano una lingua, una cultura, un mondo.
La “X” che rimpiazza il cognome dei Black Muslims degenera in intruppamento, spersonalizzazione, paranoia. Malcolm diventa più grande, sempre più grande, e la Nation of Islam si fa sempre più angusta. All’alienante mito fondativo dei bianchi razzisti la Nation ha sostituito un mito altrettanto alienante, e ancor più bislacco e razzista: quello del perfido Yacub esiliato dall’Eden sull’Isola di Patmos, che fa esperimenti e produce l’uomo bianco come Uentermensch, scarto dell’uomo nero.
Così Malcolm abbandona la setta e porta con sé la “X”, la schiude a nuovi orizzonti man mano che s’evolve il suo rapporto col passato.
Per Malcolm la memoria è conflitto perenne, è l’immagine del passato che sfavilla imprevista in un momento di pericolo. “In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla”, dice. “Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico”, ribadisce, “non ha smesso di vincere”.
In realtà non sono frasi sue, sono di Walter Benjamin, ma il succo è quello. La molla che ci spinge è il desiderio di riscattare gli antenati asserviti, solo in un secondo momento pensiamo ai discendenti liberati. “Un uomo non sa come agire finché non capisce contro cosa sta lottando. E non capite contro cosa state lottando finché non capite cosa vi hanno fatto.”
Non c’è memoria condivisa. Non ci può essere. Non si può chiedere allo schiavo di onorare il ricordo dello schiavista. Partigiani e “ragazzi di Salò” non sono sullo stesso piano. Questo non significa restare prigionieri del passato, in cattività nella gabbia dell’odio e della sete di vendetta. Certo, il ricordo della schiavitù può diventare un ghetto mentale, ma è importante sapere che, nel momento del pericolo, un ricordo sfavillerà ai margini del tuo campo visivo, tu allungherai la mano e a tentoni troverai il passato, la memoria della dignità dei tuoi avi, delle lotte, dei trucchi per fregare il driver man. Di questo si nutre la volontà di riscatto, e di poco altro.
La riflessione di Malcolm è proiettata in avanti, si sforza di andare oltre. Può costruire davvero molto, sul fondo di consapevolezza che ha raggiunto.
“Quelli che cercando la radice del male si sono imbattuti nei rapporti di proprietà, sono discesi sempre più profondamente, attraverso un inferno di atrocità sempre più profonde, finché sono giunti là dove una piccola parte dell’umanità aveva ancorato il proprio spietato dominio”, diceva Bertolt Brecht nel 1935, contestando chi cercava di attaccare il fascismo puntando l’indice contro le sue atrocità e definendole “gratuite” o “immotivate”. Al contrario, quelle atrocità erano necessarie, servivano a difendere ben altro, qualcosa che stava sotto e dietro il fascismo. “Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà!”, era l’invito finale dello scrittore tedesco.
Malcolm, liberatosi delle dottrine razziste di Elijah Muhammad, comprende sempre di più che gli orrori della schiavitù, della segregazione, del colonialismo interno Usa, non dipendono dalla “malvagità” dei bianchi (i “diavoli dagli occhi blu”), non sono gratuiti né immotivati, anzi, sono necessari alla difesa dei rapporti di proprietà. Chi mantiene il ricordo della schiavitù al centro della propria riflessione, giungerà più facilmente di altri alla critica della proprietà. E’ semplice quanto fare due più due: tutta l’esperienza afro-americana è influenzata dall’essere stati proprietà di qualcuno. Qui la memoria diventa pre-requisito della critica. L’ultimo Malcolm (1964-65) corre sempre meno il pericolo di restare prigioniero del passato, è anzi orientato a farne un uso sempre più creativo e radicale. Andare “alla radice del male”. Scavare nel punto indicato con la “X”.
Le pallottole che lo uccidono, il 21 febbraio 1965, pongono fine a un’entusiasmante, sbalorditiva ricerca del tesoro. L’evoluzione di Malcolm avrebbe riservato al mondo tante sorprese. Troppe, per chi pensa che nessun percorso – viaggio iniziatico, riscoperta della memoria o esplorazione del futuro – debba proseguire al di là del cartello: “Proprietà privata”.
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