Romanzo di Fabio Ciabatti e Luca Nutarelli
Le foto di Emilio Periglio sono di Tito Kurtz
Laudato sie, mi’ Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
…
Laudato si’, mi Signore, per sor’Acqua.
la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Francesco d’Assisi, Il cantico delle creature
1. La talpa e il serpente
Cristo che sete. Una fontanella. Quello che ci voleva. Quando hai sete non c’è nulla di meglio. Una bella sorsata. E un po’ d’acqua sul viso per riprendermi. Che c’ha da riprendermi quello là? Cavolo di turista con sandali e pantaloncini d’ordinanza, ma non hai proprio niente di meglio da filmare? Boh, forse sono molto pittoresco. Contento tu! Con tutto quello che potresti vedere a Trastevere.
Basta guardarsi intorno. Questa parte del quartiere è davvero un rizoma architettonico: viuzze, piante d’edera che avvolgono interi palazzi, finestre che lasciano intravedere soffitti a cassettoni, biancheria intima svolazzante, balconcini ricavati nei posti più impensati e (cazzo, quasi la prendevo!) merde di cane spalmate sulla strada che ti guardano arroganti, pronte a saltarti al collo.
Nella piazza nessuna cacca in vista. Seduti intorno alla fontana sempre i soliti: turisti, tossici e artisti di strada, cioè di piazza.
Meno male, un tavolino libero al San Callisto.
– Ciao, che prendi?
Che prendo? Vediamo, vediamo. È mattina, mi sento ancora rincoglionito, quindi un bibitone di caffè. Certo però fa già un caldo della Madonna zoccola, quindi un bel peroncino.
– Un caffè doppio e un peroncino, grazie.
Rilassiamoci un po’. Ci vuole una ciospa. Cartine, tabacco, tutti presenti. E via con il ciosp ‘n’ roll. In fondo oggi non devo mica lavorare, e a dire il vero neanche nei prossimi giorni. Di luglio, con il bene che mi voglio, non è proprio il caso di fare eccessivi sforzi. Non che gli altri mesi mi concilino l’attività. Vabbè, forse è la volta buona che rileggo ‘sta diavolo di tesi che mi porto sempre nella borsa e magari mi laureo pure nella sessione autunnale. E pensare che è praticamente finita. Dovrei rileggerla, limarla qui e là, renderla più leggibile (ecco questo dovrei proprio farlo), riordinare note e bibliografia et voilà, tutto sarebbe pronto. Essere ed eterno spinoziano nella produzione postfordista: bello il titolo, mi è sempre piaciuto un sacco. Quanto al contenuto… ma dai, forse mi sto buttando giù. Magari rileggendola suona meglio dell’ultima volta. Proviamo.
“Marx definì per il capitalismo la distinzione tra capitale costante — l’insieme degli elementi materiali e tecnici accumulati dalla produzione e conservati nello sviluppo – e il capitale variabile — l’elemento che rianima ciò che è stato accumulato e di questo fa la base di una nuova accumulazione. In realtà questa distinzione riguarda l’intero campo materialista, cioè il mondo. La produzione costruisce infatti il mondo seguendo una traccia di cui la temporalità è sostanza.”
Madonna che coglioni… sì, pero è filosofia tozza questa, mica Pippo Baudo! Andiamo avanti che poi va meglio.
“Sul “prima” di questo processo continua ad accumularsi il lavoro morto, il tempo concluso della creazione; il “poi” è rappresentato dal lavoro vivo, ossia dai corpi che creano verità attraverso la prassi. Sull’orlo del tempo il lavoro vivo è così la potenza del mondo, di quello che è già stato e che ora è rivivificato; di quello che apparirà dal nuovo lavoro vivo creatore.”
Mi sa che m’ero fatto un bel cannone prima di scrivere ‘sta roba. Però niente male. Checché ne pensi quel cazzo tonto di un relatore: “Forse un po’ troppo oracolare per una tesi. Non le sto contestando il contenuto, sia ben chiaro. Esistono già alcuni filoni di ricerca in questa direzione. Ha già letto qualcosa di Antonio Monti? Potrebbe fornirle qualche suggestione interessante. Dia un occhiata anche a Ketteposse, la rivista della quale è direttore. La prossima settimana lo incontrerò in un convegno. È una jam session di studi spinoziani. Gli accennerò al suo lavoro se ne avrò modo. Potrebbe essere interessato. Non le assicuro nulla, però. Sa, Monti è un po’ come una star hollywoodiana della filosofia. Comunque, Monti o non Monti, per evitare problemi in sede di discussione, sarebbe meglio smorzare un po’ i toni. Non crede?”
No, non credo! Io sarò ieratico, ma lui, l’esimio professor Bruno Cermugnati, in quanto a stile accademico non è certo un modello. Lasciamo pure perdere il look… no, per carità, è un bell’uomo di cinquant’anni, ma ogni giorno il suo ciuffone di capelli brizzolati sembra subire una scarica elettrica di intensità superiore. Ma che dire del suo ultimo programma – “L’uomo e le macchine, le macchine e l’uomo”- con le poesie giovanili di Marx come testi d’esame? Ma lui fa il suo mestiere. E io il mio. Anche se non so bene quale sia, il mio. O forse è solo pigrizia. Non mi è mai piaciuto sprecare energie sull’inchiostro versato dalla mia stampante a spruzzetto. Tutto sommato così non è niente male la mia tesi. Sì, sì, in fondo mi piace.
“Oggi, infatti, non vi è nulla di quel che è prodotto che non sia prodotto attraverso il comune: nessuna merce che non sia divenuta servizio, nessun servizio che non sia relazione, nessuna relazione che non sia cervello, nessun cervello che non sia comune. E con questo passaggio storico siamo nel pieno della metafisica spinoziana.”
Ecco il caffè. Finalmente. Rigorosamente amaro, come un vero zapatista dell’Assoluto. E vai con la spremuta di cicorione. Ammazza che schifo! Quasi come la mia faccia. Che brutta cera! Dovrebbero vietarli ‘sti vassoi d’acciaio di prima mattina. O almeno avvertire: “Attenzione: pericolo di rispecchiamento”. Vabbè, oramai il trauma c’è stato, tanto vale guardare in faccia la realtà: occhi neri, quasi come le occhiaie, barba da bandito, capelli lavati con shampoo alla nitroglicerina e asciugati con la fiamma ossidrica. Però a modo mio sono bello. Diciamo un tipo. Ecco, così, con lo sguardo da filosofo maledetto e la ciospa in un angolo della bocca. In fin dei conti quel cavolo di turista non aveva tutti i torti. Sono un soggetto interessante. Degno di una mostra fotografica. Ecco la didascalia: “Filosofo maledetto. Roma, 1 luglio 2003, ore 10.30”.
Adesso però il filosofo maledetto ha bisogno di fumare. Cazzo, non ho l’accendino. Un fumatore, datemi un fumatore. Fantastico, una nuvoletta di fumo esce dal Manifesto. Una fumatrice di sinistra. Quello che ci voleva.
– Scusa hai d’accendere per favore?
– Sì certo, se lo trovo. Stava sul tavolino.
– Eccolo là, dietro il bicchiere … non quello dell’acqua, quell’altro, il succo di frutta.
– Ah eccolo! Tieni.
– Grazie mille, mi hai salvato la vita. Stavo per entrare in crisi di astinenza.
– Figurati, per così poco.
Ah! La prima boccata mattutina non si scorda mai. Almeno fino al mattino seguente. Certo, la tipa mica male! E poi il pearcing sul labbro e le sue tette estive danno al bar San Callisto un’aria davvero gioiosa. Io invece mi sento un po’ strambo.
Cristo! Che sono ‘ste macchie sul libro di Monti e Hunt? Caffè? Boh, vattelappesca, forse le mestruazioni del gatto. Senti come batte il cuore! Sembra che abbia fatto chissà che. Sarà un po’ di tachicardia, un po’ d’ansia. Anche la testa mi fa un po’ male e poi non è che stia proprio ferma. O forse è il moto rotatorio della terra che ogni tanto diviene percepibile. In fondo è normale. Beviamoci il peroncino che toglie via l’amaro del caffè, sciacqua la gola e rischiara il cervello. Che rabbia, però, un libro nuovo nuovo. Mah, meglio non pensarci, se no m’incazzo: odio i libri sottolineati e spiegazzati, per non parlare di quelli… sì di quelli griffatti da Venusia, gattaccia scostumata! Lasciamo perdere, oggi è una bella giornata, di quelle che mi piacciono tanto, da dedicare all’ozio creativo, che se poi non è creativo ‘sti cazzi. Un giorno perfetto per leggere Imperium. Forse leggere è un po’ arrogante. Diciamo sfogliare. D’altra parte siamo nel postmoderno e la logica lineare è troppo riduttiva. Sì, sì, troppo riduttiva. Mica possiamo ancora credere nelle grandi narrazioni, quelle che bisogna leggere dall’inizio alla fine.
Una pagina a caso et voilà:
“In sintesi possiamo distinguere tre diversi generi di lavoro immateriale.
– Il primo comprende i settori della produzione industriale che sono stati informatizzati trasformando gli stessi processi produttivi fino a renderli sempre più immateriali.
– Il secondo genere di lavoro è quello applicato alle attività analitiche e simboliche, dalle forme più creative a quelle estremamente ripetitive e seriali.
– Infine, il terzo genere è costituito dalla produzione e manipolazione degli affetti coinvolti in qualche forma di contatto umano (virtuale o reale).
Nel lavoro immateriale, in qualsiasi forma, la cooperazione è completamente immanente all’attività stessa. Gli aspetti cooperativi, cioè, non vengono imposti e organizzati dall’esterno come accadeva in altre forme di lavoro.”
Uhm… very interesting. Vediamo un po’ come vanno avanti su questa cosa. No Emilio, troppo riduttivo, e anche un po’ riduzionista, seguire sempre lo stesso passo. Lasciamoci guidare dal caso, che poi ha una sua necessità, soprattutto nelle calde giornate di luglio, con quelle tette che mi fanno l’occhiolino. Guardare e non toccare, Emilio. Pare facile. Come soffro! Basta soffrire. Ti sei già dimenticato di Ottavia?
Niente, non riuscirò mai a ricordare i nomi di tutti ‘sti pesci che abbiamo mangiato stasera. E in fondo chissenefrega! Sono qui nudo sul mio letto giapponese, con il Gazometro che si vede dalla finestra. Che cosa voglio di più dalla vita? A me il Gazometro ispira pensieri profondi, sembra un Colosseo postindustriale. È piaciuta pure a Ottavia la vista. È proprio una ragazza fantastica. Sembra un’atleta. Venticinque anni di salute e glutei sodi. Si fa fatica a credere che sia una dottoranda di sociologia. Forse quelli di sociologia hanno un rapporto più tollerante con lo sport. Da noi, a filosofia, ad eccezione delle partitine a minipingpong nell’auletta occupata, lo sport era tabù, quasi distruggesse il leggiadro fluire del pensiero. E i risultati, adesso che mi guardo, cominciano a vedersi. Per fortuna Ottavia pare che non se ne sia accorta. Forse perché l’ho ubriacata di parole. Come sempre. Ma con lei è diverso. L’ho detto un sacco di volte? E allora? Questa volta è proprio vero. Com’è bello sentirla parlare. Non è mai banale. Per forza, con tutte le cose che fa! Ma dove l’ha trovato il tempo per laurearsi così in fretta, fare il dottorato e occuparsi di immigrazione per tutte quelle ore al giorno! Boh! E poi sembra conoscere perfettamente l’arabo e il russo, oltre all’inglese, al francese, al tedesco e a chissà quant’altro. Ed è anche modesta. C’è voluta una rispostaccia a un paio di tunisini per farmi capire che parlava arabo. Mica me l’aveva detto! Chissà che le stavano dicendo. Probabilmente le avevano fatto degli apprezzamenti poco graditi.
Vuoi leggere le bozze della mia tesi?Bella e pure interessata alle mie ricerche. Non ci posso credere! Te le stampo su carta patinata con copertina di cachemire! No, no, troppo pacchiano. No. Meglio essere più semplici. Una bella stampata minimalista tutta per te. Basta che me la leggi tutta nuda dall’inizio alla fine, a voce alta. Con il Gazometro come sfondo. Vuoi cominciare dalla seconda parte, la prima ti interessa meno? Va bene, come vuoi, basta che non ti rivesti.
Mi vergogno un po’: ho cinque anni più di lei, mi devo ancora laureare e ho un principio di pinguedine allo stomaco. Comunque è mezz’ora che è china sulla mia tesi. È bello essere letti da una ragazza così. Mi dà quasi più soddisfazione della copula tradizionale. Mah, chissà, parlo così perché abbiamo appena fatto l’amore.
– Il Regno! Interessante questa categoria. Me la spieghi meglio?
Cavolo se te la spiego, e se poi non riesco ad essere chiaro ricomincio da capo. Capelli neri corti, volto enigmatico (forse perfino un po’ diabolico), muscoli allungati. Avrà fatto arti marziali, chissà. Ad alcuni potrebbe non piacere tutta questa esibizione di forza in una donna. E tra quelli una volta c’ero anch’io. Mi piacevano ragazze piccoline, con le quali potessi giocare la parte del lupo intellettuale, un po’ blasé. Boh, sarà, ma a me Ottavia fa impazzire! Anzi, quasi non riesco a credere che una ragazza così venga a letto con me. Adesso però mi sto sottovalutando e non è giusto.
– A essere sincero questa è una delle parti che mi rimane più difficile da illustrare. Forse te ne sarai già accorta, ma la tesi, almeno nella prima parte, prende spesso spunto da alcune mie esperienze di vita. Anzi no, sono le esperienze della vita che si sono ispirate alla tesi, cioè al suo contenuto, voglio dire. Lavoro industriale informatizzato, d’analisi simbolica, lavoro affettivo: sono tutte esperienze che ho fatto in prima persona. Mica cazzi!
– E il Regno, questa entità misteriosa, ti è capitato di incontrare anche quello?
– No, in questo caso ho dovuto lavorare per pura deduzione. L’ho immaginato come un polipo piramidale, un’idra virtuale di poteri che non si rassegna al nuovo mondo che in esso stesso sorge. È come un angelo che vive in un involucro mostruoso credendo che tale guscio sia la sua vera essenza. Ma forse c’è di più…
– Cioè?
È caduta nella rete la mia venere palestrata. Adesso pende dalle mie labbra.
– Vedi, forse questa immonda schizofrenia biopolitica…
– Bioche?
– Biopolitica, cioè di un potere che va oltre la separazione statica tra individuo e potere. Il potere diventa biopolitico quando è capace di sussumere l’intera società scendendo fino nei suoi gangli vitali, nei suoi processi di sviluppo, nelle coscienze e nei corpi della popolazione. Mi spiego?
– Vai avanti.
– Sì, certo. Insomma, questa entità, questa immonda schizofrenia biopolitica, come dicevo, potrebbe aver partorito una nuova intelligenza adeguata alla mostruosità del suo metabolismo inibito. Forse l’angelo che il Regno portava in grembo è stato divorato e le sue energie vitali sono servite a produrre soltanto un cervello malvagio e perfettissimo che riproduce in eterno la schiavitù. Non so bene di che sto parlando, ma potremmo essere in presenza di una mafia lovecraftiana, di una potere che si muove in una dimensione parallela con il solo scopo di inibire il nuovo ordine sociale ed esistenziale che però è già realtà. Il Regno ha un compito estremo e lo realizza quindi con strumenti estremi e potentissimi.
Cavolo, non posso sputtanarmi adesso. Mi sento sotto osservazione. Quasi stia cercando di carpire ogni singolo atomo dei miei ragionamenti: – Sì, ma se c’è un Regno c’è anche un re. Chi sarebbe?
E invece manco per il cazzo. La realtà politica odierna è interamente multicentrica, stratificata, diffusa. Forse ispirandomi al passato avrei potuto usare il termine “Impero”. Già, Impero o più suggestivamente Imperium. In effetti, le funzioni che Hunt e Monti attribuiscono al loro Imperium potrebbero andare bene anche per il mio Regno:
“l’esistenza biopolitica della moltitudine possiede tutte le potenzialità per divenire una massa autonoma di produttività intelligente, un potere assolutamente democratico, come avrebbe detto Spinoza. Se accadesse effettivamente tutto ciò, il dominio capitalistico della produzione, sullo scambio e sulla comunicazione verrebbe spazzato via. Prevenire questa conseguenza costituisce la preoccupazione fondamentale del dominio imperiale.”
E brava la premiata ditta Hunt/Monti! Anche loro sono arrivati a collegare il filosofo pulitore di cannocchiali e microscopi al postfordismo. E io che credevo d’essere originale. Forse se mi sbrigavo di più con la tesi li fregavo sul tempo.
(1- continua)