di William S. Burroughs
Quando ci abitavo, alla fine degli anni Quaranta, Città del Messico aveva un milione di abitanti, l’aria pulita e frizzante e il cielo di
quella speciale sfumatura d’azzurro che si intona tanto bene con gli avvoltoi
volteggianti, il sangue e la sabbia: quel crudo, minaccioso, spietato azzurro
messicano. Città del Messico mi era piaciuta fin dal primo giorno. Nel 1949 ci
si poteva vivere con pochi soldi, era abitata da una numerosa colonia di
stranieri, c’erano bordelli e ristoranti leggendari, combattimenti di galli e di
tori, e tutti i passatempi immaginabili. Da soli si viveva bene con due dollari
al giorno. Il mio processo a New Orleans per possesso di eroina e marijuana si
stava mettendo così male che decisi di non presentarmi all’udienza in
tribunale, e affittai un appartamento in un tranquillo quartiere borghese di
Città del Messico.
Sapevo che non sarei potuto tornare negli Stati Uniti per
cinque anni, non prima cioè che il reato fosse caduto in prescrizione, perciò
chiesi la cittadinanza e mi iscrissi ad alcuni corsi di archeologia maya e
messicana all’università locale. La legge per la sovvenzione agli studi dei
reduci mi pagava i libri e le tasse universitarie, più un assegno di
settantacinque dollari al mese. Pensavo di dedicarmi all’agricoltura, o magari
di aprire un bar vicino al confine americano.
La città mi piaceva. In quanto a sudiciume e miseria le zone
dei bassifondi davano dei punti a quelle delle città asiatiche. La gente cagava
ovunque per strada, poi si sdraiava e ci dormiva in mezzo, con le mosche che
entravano e uscivano dalla bocca. I più intraprendenti, non di rado lebbrosi,
accendevano fuochi agli angoli delle strade e cucinavano ripugnanti, fetide,
abominevoli sbobbe che distribuivano ai passanti. Gli ubriachi dormivano sui
marciapiedi della strada principale, e nessun poliziotto li disturbava. Mi
sembrava che in Messico tutti conoscessero perfettamente l’arte di farsi gli
affari propri. Se qualcuno voleva andarsene in giro con il monocolo o con un
bastone da passeggio non esitava a farlo, e nessuno lo degnava di un’occhiata. I
ragazzi e i giovanotti camminavano sottobraccio e nessuno ci faceva caso. Non
perché la gente non si curasse di quel che pensavano gli altri; semplicemente a
un messicano non veniva in mente di poter esser criticato da un estraneo, né di
criticare il comportamento altrui.
Il Messico era in sostanza una civiltà orientale che
rifletteva duemila anni di malattie, miseria, degradazione, stupidità,
schiavitù, brutalità e terrorismo psicofisico. Era sinistro, tetro e caotico,
quel particolare caos che c’è nei sogni. Nessun messicano conosceva davvero un
altro messicano, e quando un messicano uccideva qualcuno (e accadeva spesso), si
trattava in genere del suo migliore amico. Chiunque ne avesse voglia poteva
girare armato, e ho letto di parecchi casi in cui dei poliziotti ubriachi,
sparando agli avventori di un bar, erano stati colpiti a loro volta da civili
armati. Un poliziotto in Messico aveva la stessa autorità di un tranviere.
Tutti i funzionari erano corruttibili, l’imposta sul reddito
era molto bassa e le cure mediche estremamente economiche, perché i dottori
mettevano annunci sui giornali e facevano sconti. Si poteva curare una gonorrea
con due dollari e quaranta, oppure comprare la penicillina e iniettarsela da
soli. L’automedicazione non era regolamentata, e aghi e siringhe si compravano
dappertutto. Questo al tempo di Alemán, quando la mordida regnava
sovrana, e una piramide di bustarelle saliva dall’ultimo poliziotto di ronda su
fino al Presidente. Città del Messico era anche la capitale mondiale del
crimine, con la più alta percentuale di omicidi pro capite. Sui quotidiani si
leggevano ogni giorno notizie del genere:
Un campesino è appena arrivato dalla campagna, sta
aspettando l’autobus: pantaloni di tela, sandali ricavati da un copertone,
grande sombrero, macete alla cintura. C’è anche un altro che sta aspettando, in
giacca e cravatta, e guarda l’orologio borbottando irosamente tra sé. Il campesino
sfila il machete dalla cintura e stacca di netto la testa all’altro. più tardi
dirà alla polizia: “Aveva uno sguardo muy feo e alla fine non sono
riuscito a trattenermi ”. Ovviamente l’uomo era
seccato per il ritardo dell’autobus e guardava se lo vedeva arrivare, quando il campesino
fraintende il suo atteggiamento e, detto fatto, una testa rotola nel canale
di scolo, con un ghigno orribile e i denti d’oro in bella mostra.
Due campesinos siedono sconsolati sul ciglio della
strada. Non hanno soldi per la colazione. Ma ecco un ragazzo che conduce alcune
capre. Uno dei due campesinos raccoglie un sasso e sfonda il cranio del
ragazzo. I due portano le capre al villaggio più vicino e le vendono. Quando la
polizia li arresta stanno facendo colazione.
Un uomo vive nella sua casetta. Uno straniero gli chiede la
strada per Ayahuasca. “Ah, da questa parte, senor”. Trascina lo straniero in
lungo e in largo: “Per di qua”. All’improvviso si rende conto di non avere
la più pallida idea di dove si trovi la strada, e poi che gliene importa?
Perciò raccoglie un sasso e uccide l’importuno.
I campesinos si facevano valere con sassi e machete.
Più sanguinari erano i politicanti e i poliziotti fuori servizio, ciascuno con
la sua .45 automatica. Si imparava in fretta a buttarsi per terra. Ecco un’altra
storia vera. Un Político armato viene a sapere che la sua ragazza lo tradisce,
che si vede con qualcuno in un certo locale. Un ragazzotto americano è appena
entrato e si è seduto vicino a lei, quando il macho si precipita dentro: “CHING0A!”.
Tira fuori la sua .45 e fredda il ragazzo direttamente sullo sgabello del
bar. Trascinano il corpo fuori e poi per un bel tratto di strada. Quando
arrivano i poliziotti il barista si stringe nelle spalle e passa lo straccio sul
bancone insanguinato, limitandosi a dire: “Malos, esos muchachos!”.
Ogni paese ha i suoi Stronzi, tipo il poliziotto del Sud che
fa una tacca sulla pistola per ogni negro ammazzato, e il macho messicano
strafottente, quanto a puro squallore, è certamente al vertice. E molti
borghesi messicani sono anche peggio degli altri borghesi del mondo. Ricordo che
in Messico le ricette dei narcotici erano di un giallo brillante, come le
banconote da mille dollari o il foglio di radiazione dall’esercito. Una volta il
vecchio Dave e io cercammo di usare una ricetta che lui aveva legalmente
ottenuto dal governo messicano. Il primo farmacista da cui provammo si ritrasse
inorridito a quella vista: “No prestamos servicio a los viciosos!”.
Passammo da una farmacia all’altra, stando sempre peggio: “No,
senor … ”. Dobbiamo aver camminato per chilometri.
“Mai stato in questo quartiere ”.
“ Be’, proviamone ancora una ”.
Alla fine entrammo in una farmacia che era soltanto un
minuscolo buco nel muro. Tirai fuori la receta e una signora con i
capelli grigi mi sorrise. La farmacista lesse la prescrizione e disse: “ Due
minuti, senior”.
Ci sedemmo ad aspettare. C’erano dei gerani alla finestra. Un
ragazzino mi portò un bicchier d’acqua, e un gatto mi si strofinò contro la
gamba. Dopo un po’ la farmacista ritornò con la nostra morfina.
“ Gracias, senor”.
Adesso il quartiere sembrava incantato: piccole farmacias in
un mercato, fuori cassette e bancarelle, sull’angolo una pulqueríà. Chioschi
che vendevano cavallette fritte e zucchero candito alla menta nero di mosche.
Ragazzi appena arrivati dalla campagna con abiti bianchi immacolati e sandali di
corda, le facce di rame brunito e occhi neri selvaggi e innocenti: animali
esotici, di un’abbagliante bellezza asessuata. Ecco un ragazzo dai tratti
angolosi e la pelle scura, odoroso di vaniglia, una gardenia dietro l’orecchio.
Sì, hai trovato un Johnson, ma per trovarlo hai dovuto traversare Merdaville a
guado. E sempre così. Proprio quando pensi che la terra sia popolata
esclusivamente da Stronzi, incontri un Johnson.
Un giorno bussarono alla porta alle otto di mattina. Andai ad
aprire in pigiama e trovai un ispettore dall’Immigrazione.
“ Si vesta. Lei è in arresto ”.
A quanto pare, la vicina aveva sporto una lunga denuncia per
schiamazzi e ubriachezza molesta, e c’era anche qualcosa che non tornava nei
miei documenti, e poi dov’era questa moglie messicana? I funzionari
dell’Immigrazione erano assolutamente decisi a sbattermi in galera in attesa di
espellermi in quanto straniero indesiderabile. Ovviamente si poteva sistemare
tutto con un po’ di soldi, ma il mio interlocutore era il capo del dipartimento e non si
sarebbe accontentato di noccioline. Alla fine dovetti scucire duecento dollari.
Mentre tornavo a casa dall’Ufficio Immigrazione provai a immaginare che cosa
avrei dovuto pagare se avessi fatto davvero degli investimenti a Città del
Messico.
Pensai ai problemi che avevano continuamente i tre americani
proprietari dello Ship Ahoy. 1 poliziotti capitavano sempre lì per una mordida,
e poi veniva l’ispettore sanitario, poi altri poliziotti ancora che
cercavano un pretesto per farsi un po’ di soldi. Portavano via il cameriere e lo
pestavano a sangue. Volevano sapere dov’era nascosto il corpo di Kelly, quante
donne venivano violentate nel locale, chi spacciava la marijuana. Eccetera.
Kelly era un americano fico a cui sei mesi prima avevano sparato nello Ship
Ahoy; si era ripreso e adesso era nell’esercito. Nessuna donna era mai stata
violentata nel locale, e nessuno ci fumava marijuana. A quel punto avevo
completamente abbandonato il mio progetto di aprire un bar in Messico.
Un tossicomane si cura poco della propria immagine. Porta
vestiti sporchissimi e logori, e non sente alcuna necessità di attirare
l’attenzione su di sé. Durante il mio periodo di tossicodipendenza a Tangeri mi
chiamavano “el hombre invisible”. Questa disintegrazione
dell’immagine di sé produce spesso un’indiscriminata fame di immagini. Billie
Holiday diceva che capiva di esserne fuori quando smetteva di guardare la TV.
Nel mio primo romanzo, La scimmia sulla schiena, il protagonista Lee è
integrato, sicuro di sé e di dove sta andando. In Checca è disintegrato,
disperatamente bisognoso di contatto, del tutto insicuro di sé e dei propri
obiettivi.
Naturalmente la differenza è lampante: Lee sotto l’effetto
della droga è desiderabile, protetto ma anche rigidamente limitato. La droga
non solo cortocircuita la carica sessuale, ma, a seconda delle dosi, ottunde
anche le reazioni emotive fino al punto di annullarle. Riandando al periodo in
cui si svolge Checca, quell’allucinato mese di feroce astinenza è
avvolto da un bagliore infernale, minaccioso e malvagio, che fuoriesce dai bar
illuminati al neon, la sordida violenza, la .45 sempre a portata di mano. Con la
droga ero come dentro una camera stagna, non bevevo, non andavo molto in giro,
mi limitavo a farmi e ad aspettare il buco successivo.
Quando si toglie il tappo, tutto ciò che veniva tenuto a
bada dalla droga si rovescia fuori. Il tossicomane in astinenza è soggetto agli
eccessi emotivi di un bambino o di un adolescente, a prescindere dalla sua età
effettiva. E l’energia sessuale ritorna prepotentemente. Uomini di sessant’anni
fanno sogni erotici e hanno orgasmi spontanei (un’esperienza estremamente
spiacevole, agafante, come dicono i francesi, da far rabbrividire). Se il
lettore non lo tiene presente, la metamorfosi della personalità di Lee
sembrerà inspiegabile o psicotica. Bisogna inoltre tenere a mente che la
sindrome da astinenza ha una risoluzione spontanea, e non dura più di un mese.
E Lee attraversa una fase in cui beve troppo, esasperando tutti gli aspetti
peggiori e più pericolosi del malessere causato dall’astinenza: comportamento
spericolato, sconveniente, violento, piagnucoloso – in una parola, disgustoso.
Una volta disintossicato, l’organismo si riassesta e si
stabilizza a un livello pre-droga. Nel racconto questa stabilizzazione viene
infine raggiunta durante il viaggio in Sudamerica. Non ci sono oppiacei
disponibili, né altre droghe, dopo la tintura d’oppio di Panama. Il consumo di
alcol di Lee si è ridotto a un buon numero di superalcolici verso sera. Non
molto diverso dal Lee delle successive Yage Letters, eccetto per la
presenza fantasmatica di Allerton.
Così avevo scritto La scimmia sulla schiena, con un
intento relativamente semplice: mettere per iscritto nella maniera più semplice
e precisa le mie esperienze di tossicomane. Aspiravo a pubblicazione, denaro e
riconoscimenti. All’epoca in cui cominciavo a scrivere La scimmia sulla
schiena Kerouac aveva pubblicato La città e la metropoli. Ricordo di
avergli scritto una lettera in cui dicevo che adesso soldi e successo erano
assicurati. Come si può capire, a quei tempi non sapevo nulla di queste
faccende.
L’intento di Checca era più complesso, e anche ora
non mi è del tutto chiaro. Perché dovevo fare una cronaca così precisa di
quei ricordi estremamente dolorosi, spiacevoli, laceranti? La scimmia sulla
schiena l’ho scritto io, ma in Checca ho la sensazione di essere
stato scritto. Mi stavo inoltre sforzando di trovare un modo per continuare a
scrivere, per mettere le cose in chiaro; scrivere è come un vaccino. Appena una
cosa viene scritta, perde il potere della sorpresa, proprio come un virus perde
il vantaggio quando un virus più debole ha
creato anticorpi pronti a reagire. Così, mettendo per
iscritto la mia esperienza, ottenni una certa immunità da altre pericolose
avventure di questo genere.
All’inizio del frammento di manoscritto di Checca, ritornato
dalla camera stagna della droga alla terra dei vivi come un Lazzaro inetto e
demente Lee sembra deciso a farsi qualcuno. C’è un non so che di curiosamente
sistematico e asessuale nella sua ricerca di un adeguato oggetto di desiderio,
nello spuntare una possibilità dopo l’altra da un elenco che sembra compilato
con in mente l’insuccesso finale. A un livello molto profondo Lee non vuole
avere successo, ma è disposto a tutto pur di non rendersi conto che non è il
contatto sessuale quello che sta davvero cercando.
Ma Allerton rappresentava decisamente un qualche genere di
contatto. E qual era il contatto che Lee stava cercando? Visto a posteriori, un
concetto molto confuso che non aveva niente a che vedere con l’individuo
Allerton. Mentre il tossicomane è indifferente all’impressione che suscita
negli altri, durante l’astinenza può sentire il bisogno coatto di un pubblico, ed è chiaramente questo che Lee cerca in Allerton: un
pubblico, il riconoscimento della sua esibizione, che, ovviamente, è una
maschera, che sta a nascondere una spaventosa disintegrazione. Così si inventa
un modo frenetico di attirare l’attenzione che chiama “i numeri”: brutali,
comici, irresistibili. “t un Vecchio Marinaio, e ferma uno dei tre … ” .
L’esibizione diventa il numero di uno spettacolo: fantasie
sui Giocatori di scacchi, sul Petroliere texano, il concessionario di schiavi
usati Gus Culo-a-Pannocchia. In Checca, Lee dedica questi numeri a un
pubblico vero e proprio. In seguito, durante la sua evoluzione come scrittore,
il pubblico viene interiorizzato. Ma lo stesso meccanismo che ha prodotto Aj. e
il dottor Benway, lo stesso impulso creativo, è rivolto ad Allerton, costretto
nel ruolo di Musa plaudente, nel quale si sente comprensibilmente a disagio.
Ciò che Lee sta cercando è il contatto, il riconoscimento,
come un fotone che emerge dalla nebbia della non-sostanza per lasciare una
traccia indelebile nella coscienza di Allerton. Non riuscendo a trovare un
osservatore adeguato, Lee rischia una dolorosa dispersione, come un fotone
sfuggito all’osservatore. Lee non sa di essere ormai votato alla scrittura,
poiché questo è l’unico modo che ha di lasciare una traccia indelebile,
indipendentemente dal fatto che Allerton abbia voglia di stare a guardare oppure
no. Lee viene spinto inesorabilmente nel mondo della letteratura. Ha già scelto
tra vita e scrittura.
Il manoscritto si trascina fino a Puyo, la città alla Fine
della Strada… La ricerca dello Yage è fallita. Il misterioso dottor Cotter
vuole soltanto liberarsi degli ospiti inopportuni. Sospetta che siano agenti di
Gìll, l’infido socio che vuole rubare il suo geniale metodo per isolare il
curaro dal veleno composito delle frecce. Più tardi ho saputo che le industrie
farmaceutiche avevano semplicemente deciso di comprare il veleno in grandi
quantità e di estrarne il curaro nei loro laboratori in America. Il farmaco
venne presto sintetizzato, e adesso è una sostanza di uso comune presente in
molti miorilassanti. A quanto pare Cotter non aveva proprio niente da perdere: i
suoi sforzi erano già stati superati.
Un vicolo cieco. E Puyo può servire come modello per il
Luogo delle Strade Morte: un agglomerato senza sbocco e senza significato di
case con il tetto di lamiera sotto un acquazzone perenne. La Shell se ne è
andata, lasciandosi dietro i bungalow prefabbricati e i macchinari arrugginiti.
E Lee è alla fine del percorso, una fine già implicita nell’inizio. E lasciato
in balìa di distanze insormontabili, della frustrazione e della stanchezza per
un viaggio lungo e doloroso, inutile, le deviazioni sbagliate, la pista persa,
un autobus che aspetta sotto la pioggia… di nuovo ad Ambato, a Quito, a
Panama, a Città del Messico.
Quando cominciai a scrivere questa introduzione a Checca, ero
come paralizzato da un senso di profonda riluttanza, un blocco dello scrittore
simile a una cainicia di forza: “ Getto un’occhiata al manoscritto di Checca
e sento di non poterlo proprio leggere. Il mio passato è un fiume
avvelenato da cui ho avuto la fortuna di poter fuggire, e dal quale mi sento
immediatamente minacciato, anni dopo gli eventi narrati. Doloroso al punto che
ho difficoltà a leggerlo, figuriamoci a scriverne. Ogni parola e ogni gesto mi
fanno rabbrividire”. La ragione di questa riluttanza mi diventa più chiara
quando mi costringo a guardare: il libro è motivato e plasmato da un evento che
non viene mai menzionato, che è anzi evitato con cura: l’uccisione accidentale
di mia moglie joan con un colpo di pistola, avvenuta nel settembre del 1951.
Quando scrivevo Strade morte mi sentivo in contatto
spirituale con lo scrittore inglese Denton Welch, e avevo modellato direttamente
su di lui l’eroe del romanzo, Kim Carson. Interi paragrafi mi uscivano quasi
sotto dettatura, come in una seduta spiritica. Ho già scritto di quel fatidico
mattino dell’incidente che lasciò Denton invalido per quel che restava della
sua breve vita. Se si fosse trattenuto un po’ più a lungo qui, e non così a
lungo là, sarebbe mancato all’appuntamento con l’automobilista che colpì da
dietro la sua bicicletta senza alcuna ragione apparente. A un certo punto Denton
si era fermato a prendere un caffè e, guardando i cardini, in parte rotti,
delle imposte di una finestra del bar, era stato colto da un senso di
desolazione e lutto universali. Perciò ogni evento di quel mattino è carico di
un significato speciale, come se fosse sottolineato. Questa portentosa
preveggenza permea la scrittura di Welch: un pasticcino, una tazza di tè, un
calamaio acquistato per pochi scellini si caricano di un significato speciale e
spesso sinistro.
Leggendo il manoscritto di Checca provo esattamente la
stessa sensazione, con un’intensità quasi insopportabile. L’evento verso il
quale Lee si sente inesorabilmente trascinato è la morte della moglie per mano
sua, la consapevolezza di essere posseduto, della mano di un morto che aspetta
di scivolare sulla sua come un guanto. Così una nebbia minacciosa e malvagia si
alza dalle pagine, una malvagità che Lee, avveduto e ingenuo al tempo stesso,
cerca di allontanare con deliranti voli della fantasia: i suoi numeri, che fanno
rabbrividire a causa dell’atroce minaccia che vi si intuisce appena dietro o a
fianco, una presenza impalpabile come una foschia.
A Parigi Brion Gysin mi disse: “Perché lo spirito del male
ha sparato a joan per essere… ”. Un frammento di messaggio medianico
incompleto… oppure completo? Non ha bisogno di essere completato, se lo si
legge: “ lo spirito del male ha sparato a joan per essere ”, cioè per
mantenere la sua odiosa attività parassitaria. Il mio concetto di possessione
è più vicino a quello medioevale che alle moderne spiegazioni psicologiche,
con la loro dogmatica insistenza che tali manifestazioni debbano venire
dall’interno e mai e poi mai dall’esterno. (Come se ci fosse una netta
distinzione tra dentro e fuori). Mi riferisco a una precisa entità. E comunque,
il concetto psicologico potrebbe anche essere stato inventato dalle entità
stesse, poiché niente danneggia di più il possessore che essere visto come una
creatura invasiva separata dall’ospite che ha invaso. E questo fa sì che si mostri solo quando è
assolutamente necessario.
Nel 1939 cominciai a interessarmi ai geroglifici egizi e
andai a trovare un tizio del Dipartimento di Egittologia dell’Università di
Chicago. E qualcosa mi gridava nell’orecchio: “TU NON C’ENTRI NIENTE CON
QUESTO POSTO! ”. Sì, i geroglifici mi fornirono una chiave al meccanismo
della possessione. Come un virus, l’entità deve trovare un porto d’accesso.
In questa circostanza ebbi la prima chiara indicazione che
nel mio essere c’era qualcosa che non era me, e che non controllavo. Ricordo un
sogno di questo periodo: lavoravo come disinfestatore a Chicago, verso la fine
degli anni Trenta, e vivevo in una pensione nella parte più vicina al centro del North Side.
Nel sogno galleggio fino al soffitto in preda a un senso di morte e disperazione
totale, e guardando in basso vedo il mio corpo uscire dalla stanza con intenti
omicidi.
Chissà se lo Yage avrebbe potuto risolvere la situazione con
una delle sue folgoranti illuminazioni. Ricordo un cut-up che feci a
Parigi anni dopo: “ Crudi venti escoriati d’odio e sventura cannarono il colpo
”. E per anni pensai che si riferisse a quando la droga schizza dal lato della
siringa o del contagocce a causa di un’ostruzione. Brion Gysin mi indicò il
vero senso: il colpo che aveva ucciso Joan.
A Quito mi ero comprato un coltello da scout. Aveva
l’impugnatura di metallo e sembrava stranamente vecchio e annerito, come se
fosse uscito dal negozio di un rigattiere di fine secolo. Mi sembra di vederlo,
con l’argentatura che si scrosta su un vassoio pieno di vecchi coltelli e
anelli. Erano più o meno le tre del pomeriggio, pochi giorni dopo il mio
ritorno a Città del Messico, e avevo deciso di farlo affilare. L’arrotino aveva
un fischietto e taceva un percorso fisso, e mentire mi avvicinavo al suo
carretto il senso di lutto e tristezza che mi aveva oppresso per tutto il
giorno, tanto da rendermi faticoso persino respirare, si intensificò a tal
punto che mi ritrovai le lacrime che mi scorrevano sulle guance.
“ Ma cosa diavolo c’è che non va? ” mi chiesi.
Questa forte depressione e un senso di sventura ritornano
continuamente nel testo. Di solito Lee li attribuisce ai suoi insuccessi con
Allerton. “ Un enorme peso gli rallentava movimenti e pensieri. Aveva la
faccia rigida, la voce incolore”. Allerton ha appena rifiutato un invito a
cena e se ne è andato all’improvviso. “Fissò il tavolo, i pensieri
rallentati, come se avesse un gran freddo ”. (Leggendo queste parole ho
davvero freddo e mi sento depresso).
Ecco un sogno premonitore fatto nella baracca di Cotter in
Ecuador. “Era davanti allo Ship Ahoy. Il locale sembrava deserto. Sentiva
qualcuno piangere. Vide suo figlio, si inginocchiò e lo prese in braccio. Il
pianto si fece più vicino,
un’ondata di tristezza …
Strinse Willy forte al petto. Un gruppo di persone con
l’uniforme da carcerato. era immobile davanti a lui. Lee si chiese che cosa
stessero facendo e perché lui piangesse ”.
Mi sono costretto a ricordare il giorno della morte di Joan,
il senso opprimente di lutto e sventura… mentre camminavo lungo la strada
all’improvviso mi sono ritrovato con le lacrime che mi scorrevano sulle guance.
“Che cosa mi succede?”. Il coltellino da scout con l’impugnatura di metallo,
l’argentatura che si stacca, un odore di vecchie monete, il fischietto
dell’arrotino. Cosa ne sarà stato di quel coltello che non sono mai andato a
riprendere?
Sono obbligato a giungere alla terrificante conclusione che
senza la morte di Joan io non sarei mai diventato uno scrittore, e a rendermi
conto di quanto questo evento abbia motivato ed espresso la mia scrittura. Vivo
sotto la minaccia costante di essere posseduto, e un bisogno costante di
sfuggire alla possessione, al Controllo. Perciò la morte di Joan mi ha messo in
contatto con l’invasore, lo Spirito del Male, e mi ha trascinato in una
battaglia lunga un’intera vita, in cui non ho avuto altra scelta che scrivere la
mia via d’uscita.
Mi sono costretto a fuggire alla morte. Denton Welch è quasi
la mia faccia. Odore di vecchie monete. Cosa ne sarà stato di quel coltello
chiamato Allerton, di ritorno alla terrificante Margaras Inc.? La comprensione
è un fare formulato nella maniera più semplice? Il giorno della
sventura e della perdita di Joan. Trovate lacrime che scorrevano giù da
Allerton, si staccavano come da un pistolero del West. Che cosa stai
riscrivendo? La preoccupazione di tutta una vita per il Controllo e il
Virus. Dopo aver trovato l’accesso il virus utilizza l’energia, il sangue, la
carne e le ossa dell’ospite per fare copie di sé. Modello di dogmatica
insistenza mai da fuori mi stava gridando nell’orecchio: “ TU NON CENTRI
NIENTE CON QUESTO POSTO!”.
Una scrittura da camicia di forza accuratamente paralizzata
con intensa riluttanza. Per sfuggire alle loro -righe prescritte anni dopo gli
eventi narrati. Un blocco dello scrittore evitò la morte dijoan. Denton Welch
è la voce nebulosa di Kim Carson sottolineato messaggio spiritico interrotto.
Febbraio 1985