L’ISTRUZIONE NEL TERZO MILLENNIO, OVVERO COME HO IMPARATO A NON PREOCCUPARMI E A MARINARE LA SCUOLA
di Claudio Asciuti
La scuola come oggettualità solipsistica: per una scuola asettica, neutrale e apolitica. E senza libri.
Il contrario della socializzazione é il solipsismo, se vogliamo, e la scuola, fra le tante cose, sarebbe anche solipsistica. Per rimediare a ciò, si batte da anni il tasto sul lavoro collettivo, sull’interdisciplinarietà, sulle co-presenze, sul lavoro di équipe; termini di confronto che andavano benissimo negli anni Sessanta-Settanta, quando davvero ogni insegnante regnava incontrastato nelle proprie ore e sulla propria cattedra, ma divenuti obsoleti in un mondo in cui la necessità dell’istinto gregario produce il mostro del branco. Basti pensare ai modelli di “contagio sociale” in campo valutativo: al genitore che s’interroga perché il suo figlio faccia schifo, poniamo, in filosofia, e vada bene di altre materie, non gli si risponde che potrebbe studiare più filosofia e meno inglese, o che è perfettamente normale che un individuo non raggiunga la pienezza delle performance in tutti i campi. Si trovano soluzioni. Si dice che non è portato. I più meschini chiedono pietà, e spesso sono costretti a modificare la propria valutazioni dai colleghi convinti che se uno è bravo in un tot di materie, deve esserlo in tutte.
Howard Gardner, nel 1983, in Formae Mentis (Frames of Mind) lanciò per primo l’idea di un’intelligenza molteplice, riprendendo un po’ i temi della psicologia comportamentale che organizzava la performance dell’allievo in gerarchie, nonché i lavori di Thrustone e di Guilford. Nulla di piagetiano, quindi, nessun schema di lettura orizzontale per abilità che si presuppongono semplicemente comuni a ogni individuo nella stessa misura, ma la semplice ed elementare constatazione che non necessariamente matematica e italiano, inglese e latino, educazione fisica e tedesco devono produrre risultati simili. Molti anni dopo Gardner ha riproposto il tema: le abilità dell’intelligenza umana si riferiscono alle forme relative a: intelligenza spaziale, musicale, corporeo-cinestetica, interpersonale e intrapersonale, logico-matematica e linguistica, più quella naturalistica, spirituale ed esistenziale.
Ma la scuola non recepì (e non recepisce) la diversità. La scuola è asettica, neutrale e apolitica, e l’unica diversità accettata é quella dei cosidetti portatori di handicap, che dopo gli anni delle classi differenziali e quelli dell’ integrazione selvaggia o integrazione italyan style (Piero Meazzini), continua ad esser punta trainante, sebbene anche la diversità razziale cominci a prendere piede, e comunque il governo per non sbagliare tenta di spingere anche questa fetta di studenti verso il privato, tagliando a destra e manca. Così la scuola continua, piagetianamente, a considerare l’intelligenza un fatto orizzontale. E se l’intelligenza è orizzontale, cosa meglio di costruire un modello di apprendimento che sia altrettanto orizzontale, che non preveda cioè un approfondimento?
In questo senso vanno lette la caduta del libro e della fruizione uni-direzionale, nascita dell’ipertesto e lo sviluppo del computer, l’uno con fruizione omni-direzionale, l’altro con feedback immediato e “asettico”. Un modo per esser tutti eguali, sebbene nessuno lo sia.
Diversi scrittori di fantascienza, hanno messo in luce questo problema. Ray Bradbury, autore di una delle più celebri utopie negative, Fahrenheit 451 (Idem, 1953) scrive la storia del mondo futuro in cui i vigili del fuoco, anziché spengere gli incendi, li appiccano ai libri, il cui possesso é reato; in quel futuro l’insegnamento in TV e nelle ore di lezione in vivo gli studenti non fanno domande ma ascoltano e tacciono. La storia del romanzo è famosissima, e ne facciamo solo cenno: Guy Montag, uno dei “vigili del fuoco”, inizia la sua ribellione solitaria, viene scoperto, braccato, fino a quando non riesce a rifugiarsi fra i barboni che circolano instancabilmente ai perimetri delle città. Ognuno di loro è in realtà un uomo-libro, qualcuno che per preservare la cultura di un tempo ha appreso a memoria una più opere. Reato è possedere libri, non apprenderli e gettarne via il supporto materiale.
Ma come è nata la caccia al libro? Bradbury, che non è certo un pericoloso sovversivo ma caso mai incarna il vero spirito liberal dell’americano diffidente di ogni sistema sociale, imputa ciò alla necessità di rendere tutti eguali; poiché nell’eguaglianza c’è la felicità, leggere libri e porsi problemi finisce con il rendere la gente infelice. D’accordo. Ma come funziona la scuola? Una giovane amica di Montag, Clarisse McClellan, ce lo racconta:
Un’ora di lezione davanti alla TV, un’ora di pallacanestro, o di baseball, o di podismo, un’altra ora di storia riassunta o di riproduzione di quadri celebri e poi ancora sport, ma capite, non si fanno domande, o almeno quasi nessuno le fa; loro hanno già le risposte pronte, su misura, e ve le sparano contro in rapida successione, bang, bang, bang, e intanto noi stiamo sedute là per più di quattro ore di lezione con proiezioni.
Clarice ci racconta inoltre che, bollata come un’antisociale, lei vorrebbe invece socializzare e confrontarsi con i propri coetanei; ma come è possibile farlo dinnanzi alle immagini TV?
(Il fatto che esista un centro sociale che si chiama Casa Montag, e che si tratti di un centro sociale di destra, faccia pensare a questo proposito dove e come la sinistra si stia allineando: se dalla parte della cultura o altrove).
Isaac Asimov propone uno mondo straordinariamento simile a quello di Bradbury, ma lo comprime in un racconto, Quanto si divertivano (The fun they had, 1952). La protagonista, Margie, scopre attraverso il ritrovamento casuale di un libro, oggetto oramai desueto, l’esistenza delle scuole; nel frattempo il suo maestro meccanico é stato rimesso in funzione e lei deve riprendere la sua lezione individuale, ancora incredula dinnanzi all’idea che un tempo esistessero insegnanti umani, e luoghi in cui ritrovarsi. I ragazzi, allora, chissà quanto si divertivano il suo commento.
I due scritti sono, come ho detto, stranamente simili. Il libro é qualcosa che non ha più un valore in sé, sostituito dalla tecnologia moderna; ma anche la scuola ha cessato di averne come forma socializzante oltreché di agenzia educativa Inoltre l’idea sviluppata da Asimov dell’istruzione singolarizzata attraverso il maestro meccanico, se é debitrice all’idea delle celebri “macchine per insegnare” (da quella di Pressley, 1926, a quella di Skinner, del 1954) precorre gli standard dell’educazione individualizzata e dell’uso del computer.
Oramai tutti noi troviamo, nei nostri libri di testo, dischetti contenenti programmi da inserire nei computer, per far sì che i nostri studenti leggano attraverso il monitor. Chi è cresciuto avendo alle spalle la centralità del libro nel contesto scolastico farà fatica a pensare che tutti i genitori – in un mondo sempre più computerizzato – richiedano che la scuola produca non sessioni di lettura ma di audiovisivi. Il fatto che lo studente medio con gran sforzo riesca a leggere solo fumetti, e che possa giungere all’esame di stato senza aver mai letto un libro é la prassi, ma noi continuiamo ad acquistare computer. Lo stesso genitore che spende indifferente manciate di bigliettoni per comprare il cellulare al figlio e pagare la sua bolletta telefonica, geme e si lamenta all’idea di acquistare un libro. La scuola dichiara che é stata fallimentare l’esperienza della lettura, e propone ipertesti sostitutivi.
Perfino la vecchia e amata tesina stata é sostituita da un iper-testo, la cui leggibilità è molto alta, ma la cui complessità e minima. La semplificazione obbligatoria fa sì che delle celebri (quanto famigerate) fasce della tassonomia di Bloom, sole le più basse possano essere analizzate in un iper-testo, al di là delle magnificazioni dei ciberno-dipendenti, nonostante le disperate difese dei modernisti a oltranza. Mentre il libro ha un percorso di lettura unidirezionale e concatenante, causativo e logicamente strutturato, l’iper-testo ha un percorso a feed-back, con diverse aperture e la possibilità di esser colto hic et nunc in ogni apertura possibile.
Eppure la gente, per dirla in modo giovanile, ci sballa. Ci sballano gli studenti video-dipendenti, i professori di lettere che hanno sofferto sempre di complessi di inferiorità con i colleghi scientifici, i genitori che navigano in Internet per raccogliere i materiali adatti alle tesine dei figli. Un libro non lo si tocca neanche con il preservativo, potrebbe infettarci tutti. I facili slogan berlusconiani ricordano che Inglese, Internet, Imprese sono l’universale antalgico ai malesseri della scuola. La sinistra, supina, si umilmente ma con gioia. Le multinazionali venditrici di programmi e computer sentitamente ringraziano entrambi. Le case editrici rendono obbligatorio il testo scolastico, alla faccia degli articoli sulle libertà dell’insegnamento, e la legge punisce pesantemente chi viola la legge sulla riproducibilità. Uccidere un individuo può costarti meno che fotocopiare un libro o copiare un programma. Ma il libro non lo legge nessuno. Tanto vale bruciarli, come fecero i nazisti. O forse è meglio non insegnare nemmeno più le cose a memoria agli studenti, per tema che quando i libri saranno stati sostituiti da altri e più evanescenti supporti, ci sia il rischio che qualcuno abbia imparato tecniche di apprendimento. E che si impari qualcosa. Fahrenheit 451, magari.
Anarchico è il pensiero: al di là della destra e della sinistra.
Se qualcuno decidesse infine di riformare (ma sul serio) la scuola, cosa dovrebbe chiedere ad essa? Quali dovrebbero essere cioè i modi e i temi da inserire, le materie, lo stile cognitivo, il sistema di apprendimento?
Lasciamo la parola alla fantascienza. Che come abbiamo visto, senza bisogno di commissioni, di riunioni sindacali, di riformisti e controriformisti, di vati più o meno pedagogici, ha prodotto qualche interessante indagine sul problema. E una serie di soluzioni di estremo interesse; lo psicologo comportamentista Burrhus Frederic Skinner, il cattolico conservatore Raphael Lafferty, l’ anarchica di sinistra Ursula Le Guinn. Quattro posizioni molto diverse, dal punto di vista politico quanto esperienziale, da quello filosofico a quello psicologico.
Burrhus Frederic Skinner, il massimo teorico del comportamentismo, pubblicò nel 1948 Walden Due (Walden Two) doveroso omaggio all’idea di David Thoreau, e del suo Walden, classico del libertarismo e della pedagogia. Walden Due é un romanzo che descrive l’esperimento demiurgico di un gruppo di scienziati esperti nella “ingegneria comportamentale”, e che noi chiameremmo ora psicologia cognitivo-comportamentale; un mondo non violento, ecologico, ottimizzante, sprovvisto di denaro e di proprietà. La scuola funziona su un sistema ignoto ai nostri pedagogisti, cioè allo sviluppo verticale dell’apprendimento e non orizzontale; non esistono classi, ma bambini che a seconda delle loro capacità frequentano corsi dove imparano non materie, ma tecniche dell’apprendimento e del pensiero. Inoltre i bambini iniziano a lavorare fin da piccoli, e quindi importanza enorme ricopre il lavoro nelle officine, nei campi e nei laboratori, in linea con l’idea che dovrebbe essere posta a mo’ di epitaffio in ogni scuola:
l’istruzione già prefissata in anticipo, rappresentata da un diploma, é un esempio di notevole spreco che non trova posto a Walden Due. Noi non attribuiamo all’istruzione un valore economico od onorifico. O essa ha un suo valore intrinseco o non ne ha alcuno.
Coerentemente con quest’impostazione, Walden Due funziona attraverso una serie di linee guide che si riflettono nella poesia, nella letteratura, nel teatro e nella musica. La pratica dell’utopia cancella il passato e inventa il nuovo. Ma l’utopia è quella tecnocratica, che le sinistre, né comuniste né anarchiche, contemplano.
La prova più interessante di Raphael Aloisius Lafferty, invece si svolge sul lontano pianeta Camiroi e s’intitola Associazione Genitori e Insegnanti (Primary Education of the Camiroi, 1970). Un gruppo di insegnanti terrestri in visita per studiare il sistema scolastico. L’informalità governa Camiroi (“qualsiasi cittadino di Camiroi competente a svolgere qualsiasi incarico sul pianeta“) e per costituire un’Associazione Genitori ed Insegnanti i terrestri devono prendere a casaccio i primi passanti. Così costituita l’Associazione, si va in giro per le scuole (quelle private; di pubbliche ne esistono solo due in tutto il pianeta, ma le scuole sono finanziate dalla decima volontaria che tutti pagano) scoprendo le paradossalità di un insegnamento dove si insegna a leggere lentamente i libri per impadronirsi totalmente di essi, a costruire oggetti, a cantare, a diffamare i compagni esercitando l’arte della retorica, a costruire oggetti che vanno dagli occhiali alle astronavi; la disciplina viene tenuta calando i bambini riottosi in un pozzo o impiccandoli (solo uno su cento, ci assicurano i camiroi; versione locale della celebre asserzione maoista “Colpirne uno per educarne cento”). Una scuola, dicono, che non é liberale (perché il liberalismo presuppone la servilità) e neppure progressista (perché il progressismo é infantile). La commissione, sempre più estrefatta, dopo il suo giro di orientamento, ci propone un’impagabile curricolo di abilità e una serie di raccomandazioni:
“rapire cinque camiroi a caso e costituirli in AGI pilota qui sulla Terra, qualche costruttivo rogo di libri, specialmente nel campo dell’istruzione, impiccare saggiamente taluni studenti che si danno ammalati“.
L’ironia feroce di Lafferty colpisce il bersaglio dell’educazione, partendo dall’idea che la scuola di Camiroi funzioni perché funziona il mondo di Camiroi (non esistono campi di giochi per bambini, giacché hanno tutto il pianeta per giocare) e l’educazione affidata ad una collettività educante. E’ insomma l’esatto opposto dell’istruzione pianificata a cui siamo abituati. Il che, per uno che si dichiara appunto cattolico e conservatore non è male; significa semplicemente che, in quei paradossi metapolici che la storia permette, Lafferty rappresenta, come Bradbury, il liberal non progressista che però vuole liberare l’individuo dall’asservimento statuale, in un orizzonte tipicamente anarchico. Un anarchico di destra, insomma.
Ursula K. Le Guin autrice del celebre Un’ambigua utopia (The Dispossed. An Ambiguos Utopia, 1974), un classico non solo della fantascienza, ma anche del pensiero anarchico. Anarres é un mondo che vive in un regime di comunismo libertario, abitato dai profughi del pianeta gemello Urras, statalista e capitalista, ed é la realizzazione del sogno anarchico di Odo (per disegnare questa defunta leader, la Le Guin si ispirò a Emma Goldman) la cui filosofia sta alla base del sistema di Anarres. Naturalmente, neppure Anarres funziona bene (ed è per questo che Shevek, il protagonista, se ne allontana) ma comunque meglio di Urras dove la polizia attacca i dimostranti sparando dagli elicotteri.
Con pochi tratti la Le Guin disegna, dai ricordi di Shevek, il sistema pedagogico di Anarres: esso è straordinariamente simile a quello descritto da Skinner e da Lafferty:
I centri di apprendimento insegnavano tutte le tecniche che preparavano alla pratica di una qualsiasi arte: insegnavano canto, metrica, danza, uso della spazzola, dello scalpello, del tornio e così via. Tutto in modo pragmatico: i bambini imparavano a vedere, parlare, ascoltare, spostare, maneggiare. Non veniva fatta distinzione fra arte e artigianato: l’arte non veniva considerata come una cosa che avesse un suo posto nella vita, ma come una tecnica fondamentale della vita, come ad esempio la parola.
Il problema è che l’anarchismo della Le Guin appartiene ancora a quella generazione di mezzo che non ha risolto le contraddizioni interne al sistema. Il suo anarchismo è quello, un po’ triste e fondamentalmente bigotto, di quegli anni, in cui per fare la rivoluzione bisognava comunque soffrire a tutti i costi. Ciò spiega il suo breve accenno al sistema pedagogico e non mette in discussione i pro e i contro.
Sarebbe ovvio a questo punto considerare i tre autori come sostenitori di quello che si chiama in pedagogia “attivismo”, fautori dellle “scuole nuove”, dei “metodi non direttivi”. Gli accostamenti con i modelli più antichi di scuole attive (Cecil Reddie, nel 1899) quelli più anarchici (Gustav Wyneken, Francisco Ferrer) sono naturali, ma tenuto conto che stiamo parlando di autori statunitense, ricordiamo il “Piano Dalton” di Helen Parkhurst o la scuola di Winnetka di Walter Washburne. Tutte “fonti” a cui bene o male Lafferty, Skinner e la Le Guin si ispirano.
Se guardiamo poi ciò che essi scrivono, troviamo una straordinaria e intelligente somiglianza, al di là delle posizioni di fondo e delle differenze politiche. Tanto intelligente che non si riesce a capire come nessun pedagogista si sia mai ispirato alle loro parole, anziché costruire improbabili sistemi di programmazione e di valutazione, modelli di scuole sperimentali; sarebbe bastato leggersi uno dei tre, o magari Ivan Illich, autore del celeberrimo – e mai dimenticato – Descolarizzare la società, un testo del 1970 che seppur considerato adesso “datato” dai pedagogisti rampanti, continua ad esser centrato su alcuni punti essenziale della questione.
Illich, oramai, è “datato”. In un mondo che ha rinunciato all’idea della libertà (in cambio della sicurezza, dell’asservimento al capitale, dell’indulgenza religiosa, della fede politica) è invece il caso di riprenderlo in mano. Lidea di fondo della sua pedagogia é che la scuola, più che esser cambiata, debba essere risultato della de-scolarizzazione della società. Perché la società (qualunque tipo di società) funziona in un sistema autoreferenziale, cortocircuitante, in cui i termini dell’aspettativa sono quelli della produzione e del consumo: la scuola funziona attraverso una società che si automodella sulla scuola: la cultura diventa merce, l’apprendimento frantumazione del sapere e sua parcellizzazione, l’educazione un processo che programma il discente:
In altri termini, le scuole sono sostanzialmente simili in tutti i paesi, siano essi fascisti, democratici o socialisti, ricchi o poveri, grandi o piccoli. L’identità dei sistemi scolastici ci costringe a riconoscere la profonda identità, su scala mondiale, del mito, dei modi di produzione e dei metodi per il controllo della società, nonostante la grande varietà di mitologie nelle quali il mito si esprime.
La polemica di Illich contro le scuole pubbliche non ha nulla a che vedere, naturalmente, con quanto Pournelle e Sheffield, Berlinguer o Berlusconi o la Moratti sostengono; si tratta di diversi valori e funzioni dell’istituzione scolastiche, prese nella loro totalità. Per Illich Gentile è eguale a Makarenko, e il problema è liberare l’educazione dalla gestione del dominio (di qualunque sistema politico), e ridarlo alla gente, attraverso una meccanismo che sia centrato sulla scoperta autonoma, sull’apprendimento informale, sull’eliminazione di quel sistema di punizioni e premi (che Skinner chiamerebbe “rinforzi”, i sindacalisti e i liberisti in servizio attivo “incentivi”) atto a far funzionare l’apprendimento. Come direbbe Skinner, per uno suo intrinseco valore.
Il mio amore é nato a Thelema
Ogni tanto mi gingillo all’idea di scrivere anch’io un romanzo di fantascienza imperniato (o ambientato) sulla scuola del futuro. Un romanzo che partendo da piccole modificazioni (ad esempio una bella divisa eguale per tutti, in modo che la scuola non diventi occasione di passerelle e sfilate), e arriva a quelle medie (ad esempio prendere insegnanti e studenti e mandarli a lavorare nei campi o in una fabbrica per un po’ di giorni al mese), per giungere a quelli grandi (portarsi via dalla famiglia di origine, causa di molti mali, i ragazzi e affidarli per un po’ a insegnanti e educatori) e infine a quelli titanici: una scuola integralmente de-scolarizzata.
Una scuola de-scolarizzata anziché produrre studenti, educherà esseri umani. Non abituerà alla lotta per la sopravvivenza dell’uno-contro-il-mondo, ma alla solidarietà, magari anche alla misantropia, ma eviterà le ipocrite sfilate di oggi; non educherà al conformismo né all’anticonformismo, ma all’indipendenza di giudizio; non considererà la cultura come un valore di scambio per il profitto, ma come un patrimonio di autorealizzazione; e soprattutto, nel contesto di un villaggio globale sempre più collettivizzato, riaprirà il dibattito sull’importanza dell’individuo come unico facitore di sé stesso e dei propri destini, insegnando che l’uomo è solo, e che tale deve comunque sempre considerarsi, lontano dall’approvazione (del branco) e dalla disapprovazione (del fuori-branco). Cercherà, insomma, di rimediare ai danni che la società scolarizzata ha creato. Investirà nell’espressione dell’individuo quanto ne scuola ne investirà nella sua repressione.
Bene, questo romanzo si chiamerà Thelema.
Thelema (o Thelémè, per dirla alla francese; ma l’origine è il greco thèlema, nel senso di “desiderio”, e anche di “volontà”) è il nome dell’abbazia che l’eroe Gargantua> fa costruire al suo amico fra’ Giovanni Fracassatutto, uomo pio e religioso, grande spadaccino, buon bevitore, come ci fa capire Francois Rabelais, monaco se mai ce fu uno, ma chierico in tutto il resto.
Francois Rabelais è considerato universalmente uno dei più grandi scrittori di lingua francese, e la sua opera Gargantua e Rabelais, pubblicata per la prima volta nel 1542 a Lione, un capolavoro assoluto. Nella avventure eroicomiche che toccano ai due, si dipana un mondo fantastico che mescola i generi e inventa le soluzioni, anche linguistiche, più disparate; e di contro alla pedanteria dei letterati e dei teologi (che vengono definiti, di volta in volta, sorbonagri o sorboniti e continuamente irrisi) Rabelais lancia, forse per la prima volta nella storia l’idea di una pedagogia attiva e collettiva, ma sopratutto (concedetemi il bisticcio di parole) “aristocratica ” e “popolare” nello stesso tempo. Aristocratica perché sono ammessi a Thelema solo coloro i quali sono buoni, gentili, belli; popolare perché tutti vengono ammessi senza distinzione di censo o sangue, in età, ricorda Rabelais, variante per le donne dai dieci ai quindici anni, per gli uomini dai dodici ai diciotto. Uomini e donne che, se desiderano vivere assieme, sposarsi, e poi uscire dall’abbazia, lo faranno; anzi, l’educazione ricevuta farà sì che i loro matrimoni siano i più lunghi e i più amorevoli, i meglio riusciti. Pratica dell’utopia, e utopia dell’educazione (sentimentale).
Alcuni critici sostengono che similmente a Il principe di Machiavelli, anche Gargantua e Pantagruele deve essere letto come un teorema pedagogico incentrato sulla figura del futuro regnante. Può darsi. Io ricordo solo che in tempi recenti, il grande mago Alistar Crowley, To Mega Therion, La Grande Bestia, capo della Golden Dawn e dell’Ordo Templis Orientis, che non a caso aveva come motto “Fa’ ciò che vuoi, questa sia la tua legge”, fondò a Cefalù una sua abbazia di Thelema, prima di esser cacciato via dal fascismo in quanto persona sospetta. E ricordo che l’apporto alla pedagogia rabelasiana è condensato nelle frasi che introducono al capitolo cinquantasettesimo, Qual era la regola dei Telemiti nelle loro giornate.
Detto che la regola stabilita da Gargantua era “FA’ QUELLO CHE VUOI”, perché, come annota Rabelais, persone libere, bennate, ben istruite, che frequentano oneste compagnie, sentono per natura un istinto e una inclinazione che sempre li spinge ad atti virtuosi e li tieni lontani dal vizio, e che essendo ognuno libero di fare ciò che si sviluppa è una sana emulazione, ne viene fuori necessariamente la seguente idea:
Ed erano così nobilmente allevati, che non v’era nessuno tra loro e nessuna che non sapesse leggere, scrivere, cantare, suonare armoniosi strumenti, parlare cinque o sei lingue, e comporre in ciascuna di esse, sia in prosa che in versi. Mai furon visti al mondo cavalieri così prodi e galanti, così destri a piedi come a cavallo, più vivaci, più svelti, meglio atti a giocar con tutte le armi, di quelle che si trovavano là; e mai si videro dame più eleganti, meno bizzose, più dotte in lavori di mano e d’ago e in ogni altra cosa muliebre libera e onesta, di quelle che stavano là.
Ora basta. Mi metto al computer e scrivo davvero il mio romanzo, e poi lo mando al “premio Urania”, sicuro dell’immancabile vittoria finale che lo vedrà sbaragliare viaggi nel tempo, universi paralleli, gialli fantascientifici e storie cyberpunk. E dopo che ho vinto e me l’hanno pubblicato ne mando una copia al Ministero dell’Istruzione (non più pubblica). Magari a qualche volenteroso gli viene in mente che anziché la scuola per le veline, possiamo provare un progetto nuovo… Anche se prende spunto da un pedagogista vissuto seicento anni addietro.
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