THE RING

di Danilo Arona

Ring.jpg
Bassavilla non è solo una piccola dark city. Bassavilla è anche periferia, campagna, lande isolate nella nebbia, colline ricoperte di vitigni e storie oltre i confini della realtà. Non è esclusivamente Piemonte, beninteso, ma tutta quell’Italia extraurbana e secondaria che nutre l’immaginario dei tanti scrittori ai confini del noir, impegnati da anni a creare un genere in attesa di riconoscimento e definizione opportuna. Romagna, Sicilia, Veneto, non importa, ma è sempre “bassa villa”, twilight zone invisibile sotto i nostri occhi. Ho una storia veramente poco credibile da raccontarvi e, di sicuro, sarà legittimo non prestarvi fede. Però chi ha tempo da perdere può fare le opportune verifiche negli archivi dei giornali.

Oltre dieci anni fa, alla redazione di una Tv locale (Primantenna SuperSix), mi fecero vedere una videocassetta inquietante quanto quella “finta” del film The Ring. Si trattava di un servizio curato da un giornalista di Casale Monferrato in cui si raccontava con dovizia di dati e testimonianze a dir poco sconcertanti di una sorta di maledizione riferentesi ad una ristretta zona della Val Cerrina, zona tra le più belle e interessanti tanto sotto il profilo turistico che sul versante enogastronomico (tartufi!), situata più o meno a una trentina di chilometri da Bassavilla tra i confini provinciali di Asti e Vercelli. Stando a quel che si vedeva e si sentiva, una limitatissima estensione di questa fascia comprendente cinque paesi (che si chiamano Pozzo, Odalengo, Torre San Quirico, Cicengo e Murisengo) era interessata da molto tempo, almeno sin dalla fine degli anni Settanta, da una serie di morti non naturali, quasi tutte violente e tutte di persone alquanto giovani.
Inutile e imbarazzante fornire qui l’elenco anagrafico di coloro che hanno perso la vita in queste zone. Però il mistero, dal punto di vista statistico, era — e resta — sbalorditivo: più di dieci anni orsono il giornalista (si chiama Mario Giunipero) elencava non meno di una quindicina di morti, “per disgrazia” o presunta tale, avvenute in un lembo di territorio in cui sono disperse poche decine di famiglie. Peraltro nell’unico caso accaduto a molti chilometri di distanza dalla Val Cerrina il singolare teorema sembrava ancor più prolungarsi. Avvenne nel ’92 ed i giornali ne parlarono come di “un giallo irrisolto” o “strano incidente”: la ragazza, nelle vicinanze di Torino, precipitò in un burrone con la sua auto in circostanze talmente ambigue da far pensare agli investigatori alla copertura di un vero e proprio delitto. Se la cerrinese Silvana Biagetti, come si scopriva nella videocassetta in questione, era sepolta ad altri giovani nel cimitero di Cicengo, l’identico alone di mistero e di stranezza pervadeva molte delle scomparse accidentali capitate ai coetanei inumati accanto a lei: giovani uccisi dal phon, dall’auto e dalla moto, suicidi sopra un treno o all’interno di una macchina che brucia, annegati in piscina o in un laghetto. Disgrazie, sicuro, ma incidenti nei quali l’innaturalità di una morte ingiusta si accompagnava sempre al dubbio dell’inspiegabile, o quanto meno del poco chiaro. E, soprattutto, tutte lì, all’interno di un “cerchio” con un diametro di pochissimi chilometri
Mandai una copia della cassetta al giornale “Visto” che, allora, batteva una certa strada in merito alle storie di confine. Non se ne cavò nulla perché sostanzialmente c’era un’indagine scomoda e disagevole da compiere. Fox Mulder e Dana Scully, non esistendo ancora, non potevano imporre il loro modello a chicchessia. E, se fossimo in un romanzo horror, magari potrei svelarvi che la giornalista cui spedii la videocassetta morì in circostanze misteriose (una disgrazia?) sette giorni dopo averla vista e averne riso. Ma Suzuki non esisteva neppure ancora come scrittore. Da allora, però, mi misi a collezionare le stranezze della zona, prendendo atto con un certo sbigottimento che le morti si allungavano. E tutte quante erano disgrazie “strane”: il suicidio di un ventenne in una chiesa deserta, lo schianto di un motociclista dinanzi al cancello di casa propria, uno che si spacca la testa sul fondale di una piscina di tre metri.
Gli anni passavano e un giorno mi decisi. Presi la macchina e raggiunsi la zona. M’infilai in quel cimitero e lo respirai. Le poche lapidi raccontavano quasi tutte di gente giovane, fottuta sul più bello. Da chi non è possibile saperlo e neppure intuirlo, a meno di non far correre la fantasia popolare, quella che appunto parla di “maledizioni”. Ne uscii, fermamente deciso a scoprire perché nell’arco di una decina di chilometri si verificavano quella morìa e quella tempesta di sfiga.
Ovvio che non ci sono mai riuscito, altrimenti forse non starei qui a scrivere. Però, nel frattempo, mi sono accorto che persino fonti teoricamente asettiche come televisioni e giornali parlano di “maledizioni” in altre periferie d’Italia. E’ successo ad esempio a Borore (Sardegna), a proposito di un certo “binario maledetto” sul quale a più riprese, in po’ di anni fa, un certo numero di giovani ha scelto scientemente di andare a togliersi la vita. E’ accaduto anche in un grosso paese del Meridione, Scandale (tremila abitanti, provincia di Catanzaro), dove moltissimi ragazzi del luogo sono rimasti vittime di apparenti incidenti stradali dagli andamenti poco spiegabili. L’ultima di queste morti (la settima) è del novembre del 2003 e la parola “maledizione” deve aver circolato con tanta insistenza che l’arcivescovo di Crotone, Giuseppe Agostino, ha pensato bene di celebrare una sorta di messa riparatrice per invitare la comunità alla fede e per esortarla a non credere che sul paese sia calata una catena di morti ritenute collegate.
Nessuno sa scientificamente cosa sia una maledizione. Io so che spesso funziona e, in qualche caso imbarazzante, anche al di fuori delle “basse ville”. Un esempio al quale c’inchiniamo è quello degli otto personaggi implicati nell’uccisione di Ernesto Che Guevara. René Barrientos, presidente della Bolivia che ordinò di uccidere il Che, morì in un incidente aereo nel ’69. Due mesi dopo toccò al militare Honorato Rojas, ucciso da un commando di terroristi boliviani. Stessa sorte un anno dopo per il colonnello Zacharias Plaza. Eduardo Herrera, un altro militare che collaborò alla cattura del Che, morì nel ’70 in un incidente stradale. Nel ’71 ancora un commando giustiziò Roberto Quintanilla che aveva fatto amputare le mani del Che, mentre il tenente Selich, presunto autore della triturazione del cadavere, morì nel ’73. Nel ’76 toccò a Juan José Torres, ucciso a Buenos Aires, mentre l’ultimo della lista, il generale Ovando, se ne andò per una grave e fulminea malattia nel 1981.
Sicuro, non c’entra nulla con la Val Cerrina. Ma, senza scomodare religioni e superstizioni, è sufficiente l’antropologo a testimoniare che, laddove sussistono catene calamitose di “incidenti”, esistono all’origine della sequenza morti irrisolte (ingiuste, quantunque si tratti di un aggettivo arduo se usato a proposito della morte) che attivano fenomeni e disgrazie che poi la mente non riesce a non collegare.
Ad esempio, mi hanno raccontato che da qualche parte, in quelle zone, ci dev’essere un pozzo dove trenta o quarant’anni fa cadde, o venne fatta cadere, una ragazzina. E questo film lo abbiamo già visto. Il titolo parla di un cerchio, geometria infinita che racchiude il tutto, il vero e il falso, in questo gioco di scambi, assolutamente impossibile solo da teorizzare, tra immaginario e realtà. Eppure accade.