di Valerio Evangelisti
Tagliate la testa ai vostri nemici. Non per avere dei nemici senza testa, ma per dimostrare quanto essa fosse vuota.
Lev Trockij
Sarebbe buona norma che uno scrittore non replicasse mai ai suoi critici. Se però il critico in questione, nella sua lunghissima carriera, ha sfornato una sfilza di romanzi al ritmo di due o tre all’anno, inclusa una sorta di manuale di astrologia in forma epistolare, e nessuno di essi ha avuto fortuna, per caso o per necessità, il discorso cambia completamente. Perché, se costui si diverte a stroncare il lavoro dei propri colleghi (visto che sono tali), i casi sono due: 1) o ciò che scrive ha qualità preclare, che giustificano la posizione di superiorità che assume; 2) o non le ha, e allora il suo è un caso di malcostume editoriale.
Dico subito che Giuseppe Bonura, il critico / scrittore di cui parlo, rientra decisamente nella prima categoria: quella di chi è giustificato, per statura intellettuale indiscutibile e per straordinarie capacità stilistiche, a gettare fango su chi fa il suo stesso mestiere. Confesso che inizialmente non lo credevo, poi ho dovuto arrendermi alla verità, per me molto amara.
Il Maestro e i debosciati
Per i pochissimi che non lo conoscono, dirò che Bonura è il principale critico letterario del quotidiano Avvenire, con regolari incursioni su Il Giorno e altre testate. Che la sua già cospicua opera narrativa si è arricchita, nell’anno appena trascorso, di due romanzi (I barboni della regina, ed. Aragno; L’impurità, ed. Passigli) e di una di raccolta di poesie (Fammi nsunnari, ed. Passigli); che detesta la paraletteratura di “Lucarelli & Compagni”, come li chiama (e dunque, in teoria, sarebbe un nemico naturale di Carmilla e mio, visto che sono autore di due volumi di saggi proprio in difesa della “paraletteratura”); che giudica chi mi legge incapace di distinguere un libro da un elenco telefonico; che analoghi giudizi ama sparare a destra e a manca, contro “minimalisti, splatter, cannibali coi denti o senza denti, stephenkinghiani, liberostilisti, americanofili rimbambiti, fernandopivaneschi con la mania del cocktail party e delle tre mogli divorziate da mantenere (per cui si è, ipso facto, grandi scrittori), giallisti lividi, neristi indefessi, criminalisti sadici ecc.” (G. Bonura, Attenzione, stanno prendendo sul serio la paraletteratura, in Stilos / La Sicilia, 26 agosto 2003). Né, ovviamente, si salvano dalle bordate i suoi colleghi critici, definiti di volta in volta incapaci, ebbri, incompetenti e così via.
C’è tanto di vero, nelle parole che ho citato (che, si badi, Bonura riferisce agli autori italiani di narrativa di genere, in cui include la “sadica” Simona Vinci e persino Umberto Eco). Io ho sempre criticato l’abitudine di Loriano Macchiavelli di passare da un coktail party all’altro, e sospetto ancora che Marcello Fois, apparentemente fedele a una sola moglie, ne nasconda altre due o tre da qualche parte, cui passa segretamente gli alimenti. Per non dire della palese americanofilia di Massimo Carlotto, giramondo fernandopivanesco se mai ve ne furono. Non confesso le mie colpe personali perché sono notoriamente un viveur, e passo con indifferenza dal salotto bene all’orgia nella villa aristocratica.
Bologna 1975
La giusta reprimenda del critico di punta di Avvenire mi ricorda un’animata assemblea nella facoltà di Scienze Politiche di Bologna, verso la metà degli anni Settanta. Un esponente di Comunione e Liberazione, rimasto a corto di argomenti, additò noi dei collettivi universitari e gridò, con voce strozzata, queste esatte parole: «E poi lo sappiamo bene che passate la notte nei night club, a sputtanarvi i milioni con le puttane!» La cosa suonò tanto assurda, alle nostre orecchie, che sulle prime non sapemmo nemmeno cosa replicare, prima di scoppiare in una risata colossale. Pochi anni dopo gli avremmo scandito il noto ritornello “Scemo! Scemo!». Eppure il tizio magari aveva ragione. Non per il presente, ma in riferimento al futuro tetro e immorale di quanti di noi sarebbero divenuti scrittori.
Ma, a parte gli insegnamenti di vita, sempre preziosi, avevo promesso di soffermarmi sul magistero di Giuseppe Bonura quale campione di prosa, che di continuo invoca i suoi numi tutelari Pirandello, Calvino, Gadda e Sciascia, come se, in forma ectoplasmatica o per invasamento, guidassero la sua penna. Prenderò quale esempio uno scritto breve che mi ha sedotto fin dal titolo: Il mio viaggio alla ricerca della tragedia. Il viaggio cui Bonura fa riferimento ebbe per meta la Sicilia; e non a caso il pezzo è apparso su un fascicolo speciale di Stilos, supplemento letterario del quotidiano La Sicilia, intitolato Visti da lontano (29 dicembre 2004).
Tra il pimpar delle sirene
Una “ricerca della tragedia” in contesto siciliano fa pensare alle rovine di antichi anfiteatri e alla cultura greca impiantata nell’isola. Bonura, però, non ci rivela subito se sia quella la meta della sua trasferta, azzardata nel 1952 (quando, ci spiega, giocava da mezzo sinistro nella Vis Pesaro). Intrapresa del resto controvoglia:
“Non volevo andare, recalcitravo, mi immusonivo. La mia pigrizia si rifiutava di intraprendere un lungo viaggio. E poi era agosto e Numana, dove allora abitavo, mi offriva tutto il suo mare e le sue pimpanti villeggianti, che mi chiamavano dagli scogli con le loro fresche braccia.»
Da notare queste “villeggianti pimpanti” che, assise sugli scogli, allettano Bonura come le sirene facevano con Ulisse. [Questa è una costante della prosa del critico di Avvenire, presente in quasi tutta la sua narrativa. C’è una dovizia di donne più o meno “pimpanti” che assediano di continuo la mente, e forse anche il corpo, di Bonura e dei suoi personaggi, come una rosea nube.] Scopriamo così il primo dei segreti narrativi del Maestro. Non dice di essere eccitato dalle belle turiste seminude sulla spiaggia, come farebbe uno scrittore volgare. No. Ricorre a una metafora dagli echi omerici. Magari lo scribacchino di genere confesserebbe di essere attratto da altre parti anatomiche delle ragazze sugli scogli. Bonura no: lui si dice attratto solo dalle “fresche braccia”.
A parte Bonura, nella narrativa italiana moderna troviamo, su questa via stilistica, un precedente, Luigi Capuana (dunque Pirandello, Calvino, Gadda e Sciascia sono richiamati strumentalmente, per non parlare di Pasolini o Moravia, evocati di tanto in tanto) e un solo epigono: Melissa P., anche lei generosa di metafore classiciste. Un incontro tra Giuseppe Bonura e la siciliana Melissa P., se l’età dei due non fosse così distante, sarebbe esplosivo. Resta il lascito intellettuale del primo alla seconda, e un consiglio all’aspirante scrittore: in campo erotico, la metafora alla Pierre Louys paga più del realismo (i mancati incassi di Bonura sono andati alla sua inconsapevole discepola).
Chiusa la digressione, è tempo di tornare alla spedizione del Nostro in Sicilia, alla ricerca della tragedia. Il primo impatto con l’isola pare essere positivo, tra affetto dei consanguinei e numero e qualità di pimpanti ragazze locali. Ma…
Il nespolo a cui tendevi la pargoletta mano…
“Ma io che avevo letto Pirandello e già pianto sulle pagine di Verga, non mi fidavo. In qualche luogo doveva esserci la tragedia, la cava di Rosso Malpelo, il coltello di compare Turiddu, i cavalli che ridono con il carro funebre a traino, il treno che fischia nella notte desolata, il palazzaccio di mastro don Gesualdo, un nespolo amaro, un pozzo nero, una giara crepata.»
Righe pregne, queste. Non solo di contenuto informativo (Bonura ci fa sapere di avere letto molto, e persino ascoltato Mascagni), ma anche di aggettivazione. La notte “desolata”, il nespolo “amaro”, la giara “crepata”. Stona solo un poco quel “pozzo nero”, che oggi ha un significato ben preciso, non equivalente all’imboccatura della miniera di Rosso Malpelo. Viene da chiedersi se, tra i profumi di Sicilia che ancora sollecitano l’olfatto di Bonura, non si mescolino anche odori tutt’altro che gradevoli.
Penso di no. Con abile allusione, quasi di tipo subliminale, Bonura ha voluto aggiungere all’elenco delle proprie letture anche l’intero catalogo delle raffinate edizioni Neri Pozza. Un espediente sottile. Insomma, ormai lo sappiamo: tra cavalli ridenti e treni che fischiano, pur non essendo più gli stessi del tempo del Fu Mattia Pascal (e cos’altro potrebbero mai fare i treni, se non fischiare? Perché ci portiamo in stazione i tappi per le orecchie?), il Nostro ci fa sapere che leggeva un casino (come direbbero i famigerati cannibali), magari piangendo per intere notti “desolate”. Con ciò raddoppia il rispetto che portiamo nei suoi riguardi.
Piovono vasi da notte
Ma ecco che, col prosieguo del viaggio di Bonura, ci avviciniamo vieppiù alla Sicilia tragica (sto tentando di imitare, come si noterà, il vocabolario del Maestro). Siamo in un villaggio chiamato Mirabella Imbeccari. Pieno di insidie impreviste, che però non turbano il viaggiatore, ma anzi gli ispirano acute riflessioni:
“E anche quando rischiai di prendermi un vaso da notte in testa, debitamente pieno di liquami, non mi scandalizzai. Anche nella mia regione di papi e cardinali [le Marche, n.d.r.], gli orinali svuotati dalla finestra non erano rari, come del resto gli scherzi da prete. Doveva ancora arrivare il famoso miracolo economico, che riempì le case degli italiani di bagni e di deodoranti, illudendoli di essere usciti dalla secolare civiltà agricola. Ci vuole ben altro che uno sciacquone per incivilire i costumi.”
Qui si nota la vena moralistica (in senso buono) del Bonura, che non perde occasione per impartire lezioni opportune a chi lo legge. Gli italiani che si ritrovano, dopo il cosiddetto boom degli anni Sessanta, la casa piena di deodoranti e di bagni (personalmente ricordo piuttosto una corsa agli elettrodomestici, ma forse Emilia-Romagna, Marche e Sicilia hanno conosciuto storie diverse), restano contadini nell’anima, malgrado la sorprendente introduzione dello “sciacquone”. Oggi lo si è scordato, ma è notorio che, come ci conferma Bonura, la cesura tecnologica tra anni Cinquanta e anni Sessanta, tra crisi post-bellica e miracolo economico, fu prodotta dall’avvento del wc. Prima ci si sbarazzava delle feci con l’ausilio di secchi d’acqua, mentre fuori delle finestre fischiavano le locomotive. E tuttavia, negli italiani deodorati, l’inciviltà contadina rimase impressa.
Abbiamo di fronte un Bonura smagliante, direi pasoliniano, che schiva i vasi da notte “debitamente pieni di liquami”, però nel frattempo si interroga sulla valenza sociologica del fenomeno, alla ricerca dei “tempi lunghi” di braudeliana memoria. E simultaneamente — qui sta la grandezza — pone una seconda costante della sua narrativa. La prima erano le bagnanti pimpanti dalle fresche braccia. La seconda è la cacca. Già adombrata nel criptico riferimento ai pozzi neri, la troviamo spiattellata nell’episodio che anticipa la scoperta del lato tragico della Sicilia. Conviene riferirlo per intero.
E adesso, pover’uomo?
“Una mattina appunto che ero tra i radi alberi con la famigliona a ranghi serrati, sudato e felice, mi prese la nostalgia di una nuotata. Forse anche la vanità di mostrare il mio talento di tuffatore. Detto e fatto, mi spoglio e in mutande mi butto. Fu come se mi fossi immerso a un pelo da un iceberg. Un freddo glaciale mi frustò il corpo, reagii dibattendomi con le braccia, scompostamente, volevo resistere, la mia esibizione stava andando a pallino. Resistetti poco e uscii tremante e livido, cercando subito i pantaloni e la camicia per asciugarmi. Conclusione, mi presi una febbricola che mi accompagnò dappertutto fino alla fine del nostro soggiorno. E insieme alla febbricola, una dissenteria che mi impedì di gustare la cucina siciliana.»
Si può notare come la narrazione, sin qui pacata, assuma d’improvviso tinte drammatiche e ritmi sincopati. Trepidiamo tutti per il tuffatore che, tra i radi alberi (gli “alberi radi” appartengono alla paraletteratura), si esibisce in mutande a beneficio della “famigliona” e, appena in acqua, prende a mulinare scompostamente le braccia. Ci verrebbe voglia di gridargli di non fare ciò che farà subito dopo, vale a dire di infilarsi pantaloni e camicia per asciugarsi con quelli. Ma non facciamo in tempo, e Bonura si ritrova addosso i vestiti già inzuppati di sudore, bagnandoli del tutto. Diciamocelo, la febbricola se l’è andata a cercare. Come anche la diarrea che lo perseguiterà per il resto del tempo. Ma, mentre i parenti si abbuffano sotto i suoi occhi di prelibati piatti siciliani, lui soffrirà in silenzio, meditando, tra una corsa in bagno e l’altra, su quanto si sia trovato vicino al pozzo più nero di tutti: “Capii che non ero morto sul colpo perché non era ancora la mia ora”. Constatazione indubbia: era infatti l’ora della diarrea.
Knock, o il trionfo della medicina
Siamo dunque ormai in prossimità della tragedia che Bonura era sceso a cercare in Sicilia? Non ancora. L’evento è temporaneamente scongiurato da un incontro che il Nostro insaporisce abbondando in utili dettagli:
“Solo a Catania, in visita da altri miei zii, un mio cugino medico, guardandomi con occhio clinico, mi costrinse ad ascellare il termometro, lo controllò, quasi impallidì, mi somministrò delle medicine per disinfettare l’intestino, un antipiretico, e mi costrinse a letto per un giorno almeno.»
Be’, diciamo che per chi è stato a un passo dalla morte poteva andare peggio, come testimonia il pallore improvviso di chi lo cura. Ma non soffermiamoci su questo. Alla ricerca di insegnamenti stilistici, ci siamo appena imbattuti in uno dei più preziosi che Bonura ci regali, in questo suo scritto.
Naturalmente non mi riferisco alla metrica imperfetta, eppure degna di un limerick, della frase “un mio cugino medico, guardandomi con occhio clinico” (Un mio cugino medico / con il suo occhio clinico / mi dà un antipiretico / perché non caghi più). No, quel che felicemente stupisce è l’espressione “ascellare il termometro”. Ecco che finalmente la devozione di Bonura a Gadda, e magari a Mastronardi, ad Auguste Le Breton e ad altri innovatori della lingua, balza allo scoperto. “Ascellare”, nell’accezione bonuriana, vuole chiaramente dire “mettere sotto l’ascella”. Geniale, e degno di reverente imitazione. Così diremo “ginocchiare” nel senso di mettere sotto il ginocchio, o “sederare” nel significato di mettere sotto il sedere. Un uomo colto ma molto basso, che per raggiungere dalla poltrona il piano del tavolo vi collochi a mo’ di cuscino alcuni libri di qualità che ha in biblioteca, “si sedererà” gli ultimi romanzi di Giuseppe Bonura. Beato lui. Cos’altro troverebbe, di più degno a “sederarsi”?
Il giorno della cunetta
E, finalmente, arriva la tragedia tanto attesa:
“Al ritorno da Catania, in corriera, accadde qualcosa che mi indusse a ricredermi sull’idillio della Sicilia. La corriera prese improvvisamente fuoco. Io ero seduto agli ultimi posti, vidi le fiamme salire dal pavimento e venirmi incontro dal corridoio. Spalancai la portiera e mi gettai a terra, allontanandomi rapidamente, mentre altra gente mi seguiva sbracciandosi e inviando improperi contro i fantasmi.”
L’episodio è in effetti tragicissimo, considerato che chi lo racconta soffriva ancora di diarrea, ma la dinamica è incerta. Spalancata la portiera, Bonura si “getta a terra”, e già ce lo vediamo sdraiato a pancia in giù sul suolo (magari temeva che la corriera scoppiasse). Solo che subito dopo, senza soluzione di continuità, si allontana rapidamente. I casi sono due: 1) o striscia rapidissimo sul suolo a mo’ di ramarro; 2) o la portiera era talmente alta, rispetto al terreno, da costringerlo a gettarsi invece di scendere normalmente; 3) o la descrizione è terribilmente goffa. Elimino la terza ipotesi, ma resto incerto su quale scegliere tra le prime due.
Sta di fatto che viene seguito, sul suo cammino, da una folla che si sbraccia inveendo contro i fantasmi — dove per “fantasmi” credo che non si debbano intendere gli spettri in senso proprio, bensì gli ignoti incendiari della corriera. Che, peraltro, Bonura individua subito: “E intanto, tra una parola e l’altra, emergeva per me una verità inaudita. Qualcuno aveva tentato di ammazzare un suo nemico, arrostendolo. E già che c’era, non potendo isolare la vittima, aveva pensato di allestire una bella grigliata di carne umana”.
A chi scrive è capitato di trovarsi su un treno che prendeva fuoco, e su una macchina che minacciava di farlo, senza per questo congetturare che il KGB volesse eliminare un singolo passeggero. Ma è chiaro che al Bonura da viaggio il contesto siciliano suggerisce immediatamente l’ipotesi più ardita. Impotente a sorprendere da solo il bersaglio (che peraltro non si direbbe adotti troppe precauzioni, visto che usa i mezzi pubblici), la mafia ha collocato sotto la corriera un probabile ordigno a tempo, destinato a bruciare veicolo e passeggeri, oltre all’uomo da colpire. E’ infatti noto che la mafia, negli anni ’50, tentava di suscitare il maggiore clamore possibile, ansiosa di ottenere il massimo di pubblicità.
Ma la versione del Nostro ottiene l’assenso dei consanguinei: “Raccontando a casa il fattaccio, i miei parenti annuirono in silenzio, chinando il capo”. Nessuno che avanzi l’ipotesi di un radiatore difettoso o di un pneumatico consunto, arroventato dalle cattive condizioni del manto stradale.
E’ proprio tempo di lasciare la Sicilia.
La fontana malata
La parte finale del racconto di Bonura sorprende un poco, perché nessun filo logico la collega con quanto ci ha narrato in precedenza. Comincia così a parlarci, di punto in bianco, di tale zio Salvatore che rimpiangeva il servizio prestato, in veste di fattore, presso un conte toscano latifondista. Questo Salvatore, col suo lavoro, non si arricchì abbastanza. “E immagino il suo rimpianto e il suo muto pianto quando, negli anni Sessanta, fu costretto a emigrare con tutta la sua famiglia a Busto Arsizio”, dove peraltro fece fortuna.
Prevengo l’obiezione del lettore grossolano: e a noi cosa importa di zio Salvatore? In effetti meno di niente, se non fosse che Bonura lo ha preso a pretesto per introdurre nella sua prosa nuove rime (Immagino il suo rimpianto / e il suo muto pianto /…), che purtroppo non completa, anche per la difficoltà di declinare zio con Busto Arsizio (una rima molto difficile, salvo il banale inizio, l’ovvio solstizio, il troppo difficile trizio e pochi altri esempi; tanto che il grande Bruno Lauzi, in Garibaldi blues, dovette ricorrere malamente a Nino Bixio) Ma, soprattutto, Bonura si serve di un insignificante Salvatore per lasciarci intuire, ancora una volta, l’asse portante di tutto il suo pezzo: le lacrime, sparse a profusione.
Abbiamo visto il giovane Bonura piangere sulle pagine di Verga; poi non ce lo ha detto, ma certo piangeva un poco mentre tentava di resistere agli impulsi sempre più compulsivi della dissenteria; è quindi venuto lo zio Salvatore, in preda a pianto muto, anzi, a “muto pianto”, quando deve trasferirsi a Busto Arsizio (e chi non piangerebbe, davanti a una prospettiva del genere?). Manca solo il Grande Pianto Finale, per chiudere il ciclo idraulico.
Ma eccolo arrivare, nei panni di tale nonna Sara. Ci viene detto poco di questa adorabile vecchina, salvo un dettaglio di enorme significato: scoperto che il nipote non amava la granita al limone (sappiamo già che aveva problemi intestinali), ordinò che non gli fosse più servita. Un merito cospicuo.
Non che Giuseppe Bonura amasse troppo questa nonna Sara. Anzi, per niente. Gli era indifferente quanto a noi, e preferiva una non meglio identificata nonna Eleonora (noi no). Però, quando nonna Sara morì, il trauma fu grande: “…provai un così grande trasporto di nostalgia e di tenerezza verso nonna Sara che mi appartai dietro un capanno della spiaggia di Rimini, dove ci eravamo trasferiti, e diedi sfogo a tutte le mie lacrime”.
La commozione che ci coglie, di fronte a questa chiusa della narrazione, è almeno pari a quella delle pimpanti bagnanti riminesi che assistettero allo spettacolo. Cioè prossima allo zero. Non ci ammonisce forse Bonura, alludendo ai libri di Lucarelli & Co, che “una delle principali caratteristiche di questa società del capitalismo scristianizzato è l’indifferenza per le vittime”?
In attesa che il capitalismo si cristianizzi, sono tentato di dargli ragione, pur rimproverando timidamente a Bonura pari indifferenza verso le vittime sue: i lettori. I quali, poveretti, lo ricambiano come possono, cioè con altrettanta indifferenza, e avambracciano (portano sottobraccio dopo l’acquisto) i suoi libri molto di rado.
E qui la pianto, poi scoppio in pianto per il rimpianto.