Una testimonianza sulla Sindrome da Deficit dell’Attenzione
di F. V.
Nemmeno dieci anni fa, mio figlio sarebbe stato un “discolo”, uno di quei bambini che fanno disperare le maestre perché non stanno seduti al banco per quattro ore di seguito, perché chiacchierano, si distraggono e fanno confusione. Oggi no: oggi è un bambino malato.
La malattia si chiama ADHD, oppure DDAI, è lo stesso. Parliamo in entrambi i casi di Sindrome da Deficit dell’Attenzione. La sigla cambia a seconda del paese nel quale ci troviamo: negli USA si chiama ADHD, da noi, in Italia, DDAI. E’ uno dei mali del nuovo millennio, recentemente riconosciuto ufficialmente dall’OMS come patologia neuropsichiatrica specifica. Ne vanno soggetti soprattutto i bambini (in particolare i maschietti); ma svariati studi di eminenti studiosi garantiscono che ci sia un’incidenza significativa anche fra gli adulti.
Fino a sei anni fa di tutto questo non avevo nemmeno una lontana cognizione.
Poi è nato il mio bimbo. E’ cresciuto, vivace e creativo. Poco incline a rispettare le regole, inarrestabile, loquacissimo, per certi versi precocissimo, per altri più lento e impacciato dei coetanei. Un bimbo che — come si dice in gergo — ha i suoi tempi. Tempi che, in quanto tali, andrebbero rispettati.
All’età di tre anni, iscrivo mio figlio alla scuola materna. Dopo pochi giorni, le maestre mi mandano a chiamare; senza troppo riguardo, fanno la seguente osservazione:
“Signora, il bambino è in ritardo rispetto agli altri”.
Che parole! Ancora oggi mi domando cosa volesse dire quella frase. E soprattutto mi domando perché le insegnanti non abbiano saputo spiegarmi in cosa si espletasse questo ipotetico “ritardo”, né come si fosse manifestato, o da cosa l’avessero dedotto, oppure in quali comportamenti specifici l’avessero individuato.
Ho avuto sempre e solo risposte vaghe:
“Il bambino non prende in mano la penna”.
Strano: a casa consumava intere risme di fogli bianchi per disegnare.
“Non riesce a stare entro i margini se colora una figura”
Quale bambino ci riesce a soli 3 anni?
“Non riesce a stare fermo: è sempre in movimento.”
Questo è vero, ma chi ha mai visto un bambino di tre anni starsene fermo su di una sedia?
“Parla in continuazione: interrompe maestre e compagni”
Anche questo è vero, ma — ribadisco — quale bambino aspetta in buon ordine il suo turno per parlare?
La chiacchierata con le maestre è come una lama che mi trafigge da parte a parte. Il mio bambino ha qualcosa che non va? Una misteriosa, oscura malattia della quale non so niente? Una patologia che compromette le sue funzioni mentali? Le più preziose? Le più delicate? Mio figlio non è come gli altri bambini? E’ “in ritardo”? E’ diverso? Avrà una vita “diversa”? Avrà meno chances degli altri? Meno opportunità? Più solitudine?
Non so più quanti terribili pensieri mi si siano affollati nella mente. Ma so che mi spinsero fin nello studio di un neuropsichiatra infantile. E’ lì che sentii per la prima volta pronunciare la misteriosa sigla: ADHD. Fu questa la diagnosi. Sindrome da Deficit dell’Attenzione. Era l’inizio di un periodo difficile, tutto in salita, oscuro e senza una via d’uscita visibile. Per me, era — lo dico in piena sincerità — la fine del mondo. Mi sentivo finita. Disarmata e incapace di far fronte al problema. Nel buio della notte ho pianto tutte (ma proprio tutte!) le mie lacrime; le più amare, le più segrete.
Il primo passo da fare, secondo il neuropsichiatra infantile, si chiamava psicomotricità. Due sedute a settimana, con questa figura professionale, la psicomotricista, che nemmeno sapevo esistesse, in una struttura pubblica: un centro di riabilitazione. Entriamo, il primo giorno. Ho il cuore a pezzi, ma cerco di tranquillizzare mio figlio; gli dico che andrà a giocare con una signorina buona. Entriamo: nella sala d’aspetto mi ritrovo a tu per tu con gli altri pazienti… sedie a rotelle, eccetera. Non voglio dire cosa ho visto, per rispetto di quelle persone che stavano lì. Non voglio dire cosa ho provato. Il bambino, accanto a me, è nervosissimo, mi chiede di andar via, con sempre maggiore fermezza. Quand’è il momento di entrare nell’ambulatorio di psicomotricità si butta a terra e comincia a strillare e tirare calci. Basta così, decido. Per me basta. Andiamo via. Andiamo al parco, come sempre a quell’ora, a dare da mangiare il pane alle paperette. All’ombra dei pini, il bambino gioca tranquillo; io sto seduta su una panchina, e lo guardo, il mio bimbo DDAI. Sullo schienale della panchina qualcuno ha scritto col pennarello una frase: “quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo la chiama farfalla”. Bella frase. Leggo, dapprima distrattamente; poi con più attenzione.
Sarà pure banale, ma questa strana coincidenza mi scuote. Bruco o farfalla?
Il neuropsichiatra dice che, se non si ottengono risultati con la psicomotricità, si deve seguire la terapia farmacologica. Mi parla di un farmaco, che in America è già in uso da qualche tempo — a suo dire – con risultati soddisfacenti. Il farmaco si chiama Ritalin. Io non sapevo niente, allora, del Ritalin. Ma il mio istinto di mamma mi dice: no. Non somministrerei mai e poi mai uno psicofarmaco ad un bambino di quattro anni!
Prendo il coraggio a due mani (quello che non credevo di avere) e dico di no: mi oppongo con tutte le mie forze. Alle maestre, allo specialista, all’OMS anche, se necessario!
Da quel momento, ho visitato siti internet, ho comprato e letto libri, per conoscere, per capire. Su di un saggio che si intitola “Bambini disattenti e iperattivi” leggo l’elenco dei sintomi che caratterizzano la sindrome; in calce all’elenco trovo scritto: si deve parlare di DDAI solo se nel bambino osservato si riscontrano sei dei sintomi sopraelencati, e solo se questi sei sintomi si manifestano contemporaneamente.
I sintomi vanno dal correre allo spintonarsi con i compagni, dall’ aggressività verso i pari all’eccesso di loquacità, dal rompere giocattoli al manifestare difficoltà di concentrazione, dall’ incapacità di rispettare regole all’incapacità di relazionarsi. Ergo: tutto e il contrario di tutto.
Ma, e questo mi colpisce ancor di più, si tratta di caratteristiche che descrivono una percentuale elevatissima di bambini nella fascia di età di mio figlio. Corse e giocattoli rotti — mi chiedo — possono davvero trasformarsi in una malattia?
Fra i libri che compro e leggo ce n’è uno che si intitola: “Il Ritalin e altri veleni per il cervello”.
E poi c’è un meraviglioso saggio di Maria Montessori, che si intitola “Il bambino in famiglia”. In questi lunghi e bui anni, c’è anche qualcuno che mi fa notare che problemi di questo genere (iperattività, disordine nella concentrazione, aggressività) derivano da un cattivo rapporto del bambino con la madre. Altra lama che trafigge. E va così a fondo…
Cattivo rapporto con me? Perché? Dove, come, quando ho sbagliato? Cambio strategia: mi convinco del fatto che sono io che non funziono. Mi presento nell’ambulatorio di psicologia del consultorio. Sento parlare di Fiori di Bach: servono ad attenuare la mia apprensione, ad avere un rapporto più sereno con il bambino. Fra me penso: più sereno di così? Ma poi mi scuoto: ho di fronte un medico — mi dico (io che medico non sono)— ne saprà più di me. E vada per i Fiori di Bach. Sono decisa ad andare a fondo al problema; voglio trovare una soluzione radicale e definitiva. Mi viene un solo dubbio: in questo periodo sto allattando il mio secondogenito, sicchè domando alla psicologa se questo prodotto non possa in qualche modo creare problemi al piccolo.
E qui mi fermo. Perché la storia finisce qui.
Qui inizia la farfalla.
Quando mi rivolgo al neuropsichiatra infantile numero 2, è tutto un grande scambio di sorrisi; tono rassicurante; un senso incredibile di serenità. La frase di commiato del nuovo specialista che visita mio figlio è:
– E lei avrebbe dato il Ritalin a suo figlio per curarlo dalla gelosia?
Io no. Ma certi suoi colleghi medici sì. Verrebbe voglia di dirglielo sul serio.
Esco da questa storia un po’ a pezzi, ma comunque esco. Il distacco dalla mamma aveva causato il patatrac: prima la scuola materna, le maestre un po’ severe, le molte ore passate lontano da me, poi la gravidanza, l’arrivo del nuovo fratellino… macigni che avevano accumulato nel cuore di mio figlio tanta sofferenza, alla quale lui non riusciva a dare sfogo, se non facendo il “monello” a scuola. Una forma di protesta tutto sommato legittima, secondo me.
Un’amica mi ha portato un libro strano; interessante, dovrei dire. Parla di “bambini indaco”. Dice che ci sono diverse tipologie di bambini, e ognuna è contraddistinta da uno dei colori dell’arcobaleno. Gli indaco sono la punta di diamante della categoria: vivaci e inarrestabili, arrivati sulla terra con uno scopo ben preciso. Uno scopo che dovranno riuscire a perseguire: non vanno in alcun modo ostacolati. Bisogna lasciarli correre e gridare. Il mio razionalismo occidentale mi impedisce di crederci sul serio. Peccato.
Ultima cosa: oggi è stato il primo giorno di prima elementare. Ho accompagnato mio figlio; ho fatto le foto con i nuovi compagni, mi sono commossa, sono andata a riprenderlo alle 12 e mezza, puntualissima. Alla maestra ho chiesto:
– Com’è andata?
– E’ un bambino molto creativo ed estroverso — mi ha risposto — sono sicura che non avrà problemi.
Allora ho pianto sul serio.