di Serge Latouche
In un bell’ articolo intitolato “Ivan Illich ou la bonne nouvelle”, uscito nel giornale francese “Le Monde” del 27/12/2002, Jean-Pierre Dupuy scriveva: “La buona novella è anzitutto che non dobbiamo rinunciare al nostro modo di vivere per evitare gli effetti secondari negativi di una cosa che in se stessa sarebbe buona – come se dovessimo decidere tra il piacere di un pasto squisito e gli eventuali rischi d’indigestione. Le cose non stanno così: in questo caso, il pasto è intrinsecamente dannoso e noi potremmo ottenere una maggiore salute non mangiandolo. Vivere in un altro modo per vivere meglio”. Illich non ha usato esplicitamente, secondo la mia conoscenza, la parola “decrescita”, parola inoltre quasi non traducibile in inglese. Tuttavia durante il convegno “Défaire le développement-Refaire le monde” tenuto a l’UNESCO a Parigi in marzo 2002 e che fu la sua ultima comparsa pubblica, mi pare che l’abbia implicitamente fatta sua.
Nel suo articolo, Jean-Pierre Dupuy ricorda che già negli anni 70, Illich aveva mostrato che la nostra crescita e il nostro sviluppo non sono sostenibili. Nel suo ultimo libro “Quand la misère chasse la pauvreté”, Majid Rahnema, lo richiama anche lui, evocando il testo di Ivan, “Liberer l’avenir”(1971).
Perché lo sviluppo e la crescita non sono sostenibili? O come dice Jean-Pierre Dupuy, perché “notre de mode de vie est à terme irrémédiablement condamné”? La risposta è semplice.
La nostra sovracrescita economica supera già largamente la capacità di carico della terra. Se tutti gli abitanti del mondo consumassero come l’americano medio, i limiti fisici del pianeta sarebbero largamente superati.
Se si prende come indice del “peso” ambientale del nostro stile di vita “l’impatto” ecologico di questo sulla superficie terrestre necessaria, si ottengono risultati insostenibili sia dal punto di vista dell’equità rispetto ai diritti di prelievo sulla natura, sia da quello della capacità di rigenerazione della biosfera.
Se si considerano i bisogni di materiali e di energia necessari per assorbire i rifiuti e gli scarti della produzione e dei consumi, e a ciò si aggiunge l’impatto ambientale e delle infrastrutture necessarie, i ricercatori che lavorano per il World Wild Fund (WWF) hanno calcolato che lo spazio bioproduttivo dell’umanità è di 1,8 ettari a testa, mentre un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un canadese 7,2, un europeo medio 4,5.
Siamo dunque molto lontani dall’uguaglianza planetaria è più ancora da uno stile di civilizzazione sostenibile che dovrebbe limitarsi a 1,4 ettari, ammesso che la popolazione attuale resti stabile.
Queste cifre si possono discutere, ma esse sono sfortunatamente confermate da un numero considerevole di indici. Come richiama ancora Jean-Pierre Dupuy, le risorse del pianeta sono in via di esaurimento e il clima in via di deregolamento a causa dell’effetto serra.
Ma se l’insostenibilità della crescita e dello sviluppo sono una buona notizia è sopratutto perchè non sono auspicabili e non lo sono per almeno tre ragioni:
1) generano una crescita delle diseguaglianze e delle ingiustizie mai vista;
2) Creano un benessere largamente illusorio;
3) Non generano, anche per i ricchi stessi, una società conviviale, ma un’anti-società ammalata della sua ricchezza (con stress, malattie di ogni sorta: insonnia, obesità, ecc, e in fine la solitudine e il suicidio).
Allora, parlare di dopo-sviluppo e di decrescita non è soltanto lasciar correre l’immaginazione su quello che potrebbe accadere in caso di implosione del sistema, fare della fanta-politica o esaminare un problema accademico. E’ parlare della situazione di quelli che attualmente al nord ed al sud sono gli esclusi o sono in procinto di diventarlo, per tutti quelli dunque, per cui il progresso, la crescita e lo sviluppo sono un’ingiuria e un’ingiustizia e che sono indubbiamente i più numerosi sulla faccia della terra, il post-sviluppo si delinea tra noi e si annuncia nella diversità.
Il post-sviluppo, in effetti, è necessariamente plurale. Si tratta della ricerca delle modalità di rigoglio collettiva nelle quali non sarebbero privilegiati un benessere materiale distruttore dell’ambiente e dei legami sociali. L’obiettivo della buona strada/vita si declina nei molteplici aspetti secondo i contesti. In altre parole, si tratta di ricostruire delle nuove culture. Questo obiettivo può essere chiamato l’umran (rigoglio) come in Ibn Kaldûn, swadeshi-sarvodaya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, o bamtaare (stare bene assieme) come dicono i Toucouleurs, o “fidnaa/gabbina”, “le rayonnement d’une personne bien nourrie et libérée de tout souci” cher les Borana d’Ethiopie, o in tutti i modi possibili l’importante e di designare la rottura con l’impresa di distruzione che si perpetua sotto il nome di sviluppo oppure, come oggi diciamo, di globalizzazione.
Per gli esclusi, per i naufraghi dello sviluppo, non si tratta che di una sorta di sintesi tra la tradizione perduta e la modernità inaccessibile. Queste creazioni originali di cui possiamo trovare un po’ qui e un po’ là degli inizi di realizzazione aprono la speranza di un post-sviluppo. Bisogna di volta in volta pensare e agire globalmente e localmente. Non è altro che nella mutua fecondazione dei due approcci che si può tentare di sormontare l’ostacolo della mancanza di prospettive immediate.
Il post-sviluppo e la costruzione di una società alternativa non si declinano necessariamente nello stesso modo al nord e al sud. Proporre la decrescita serena e conviviale come uno degli obiettivi globali urgenti e identificabile attualmente e mettere in opera delle alternative concrete localmente sono complementari.
La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l’ambiente ma anche per ripristinare il minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è condannato all’esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano così strettamente legate.
I limiti del “capitale” (patrimonio) natura non propongono soltanto un problema di equità intergenerazionale nel condividere le disponibilità, ma anche un problema di equità tra gli esseri viventi dell’umanità.
La decrescita non significa un immobilismo conservatore. La gran parte dei saperi considerava che la felicità si realizzasse nel soddisfare un numero ragionevolmente limitato di bisogni. L’evoluzione e la crescita lenta delle società antiche si integravano in una riproduzione allargata ben temperata, sempre adattata alle costrizioni naturali.
Preparare la decrescita significa, in altre parole rinunciare all’immaginario economico, vale a dire alla credenza che più è uguale a meglio o per dirla con Majid Rahnema “rinunciare all’egemonismo del principio della crescita a tutti i costi”. Il bene e la felicità possono compiersi con costi minori.
Riscoprire la vera ricchezza nel fiorire delle relazioni sociali conviviali in un mondo sano può realizzarsi con serenità nella frugalità, la sobrietà, una certa austerità nel consumo materiale.
La parola d’ordine decrescita ha soprattutto come fine il segnare con fermezza l’abbandono dell’obiettivo insensato della crescita per la crescita, il cui motore è la ricerca esasperata del profitto da parte dei detentori di capitale.
Evidentemente, non si prefigge un rovesciamento caricaturale che consisterebbe nel raccomandare la decrescita per la decrescita.
In particolare la decrescita non va intesa come crescita negativa[5]. Si sa che persino il rallentamento della crescita getta le nostre società nel caos a causa della disoccupazione e del taglio dei programmi sociali, culturali e ambientali, dai quali dipende un livello minimo di qualità della vita.
Immaginiamo quale catastrofe produrrebbe la crescita negativa, espressione antinomica e assurda che ben traduce il dominio dell’immaginario della crescita! Come non c’è niente di peggio che una società laborista/occupazionista senza lavoro/occupazione (Arendt), cosi come non c’è niente di peggio che una società di crescita senza crescita! La decrescita non è del resto immaginabile se non in una società di “decrescita”.
Una tale società suppone un’organizzazione totalmente diversa, dove sia valorizzato l’ozio al posto del lavoro, e dove i rapporti sociali siano più importanti della produzione e del consumo di prodotti usa-e-getta, inutili e spesso nocivi. Una riduzione drastica del tempo di lavoro per assicurare a tutti un posto di lavoro ne è la condizione di partenza.
Ispirandosi alla carta “consumi e stili di vita” proposta dal forum delle ong a Rio de Janeiro nel 1992, si può riassumere il significato della decrescita nel programma delle 6 R : rivalutare, ricostruire, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare. Sono sei obiettivi interdipendenti, che insieme generano la cancellazione delle esternalità negative della crescita e innescano il circuito virtuoso della decrescita serena, conviviale e sostenibile.
Rivalutare vuol dire rivedere i valori nei quali crediamo e sui quali organizziamo la nostra vita, cambiando quelli che vanno cambiati. Ristrutturare vuol dire adattare l’apparato produttive e i rapporti sociali in funzione del cambiamento dei valori. Ridistribuire si riferisce alla ridistribuzione della ricchezza e dell’accesso alle risorse o patrimonio naturale. Ridurre significa ridurre drasticamente gli orari di lavoro (meno di due ore a giorno secondo Jacques Ellul) e diminuire l’impatto sulla biosfera dei nostri modi di produrre e consumare. Infine, riutilizzare le apparecchiature e i beni d’uso, anziché gettarli in discarica e riciclare gli scarti indecomponibili derivanti dalle nostre attività.
Semplicemente, per il Nord, la diminuzione della pressione eccessiva del modo di funzionamento occidentale sulla biosfera è un’esigenza di buon senso e nello stesso tempo una condizione di giustizia sociale e ecologica. Aspiriamo ad un miglioramento della qualità della vita e non ad una crescita illimitata del PIL. Reclamiamo il progresso della bellezza delle città e dei paesaggi, il progresso della purezza delle falde freatiche che ci forniscono l’acqua potabile, della trasparenza dei corsi d’acqua e della salute degli oceani. Esigiamo un miglioramento dell’aria che respiriamo, del sapore degli alimenti che mangiamo. C’è ancora molta strada da fare per lottare contro l’invasione del rumore, per ampliare gli spazi verdi, per preservare la fauna e la flora selvatica, per salvare il patrimonio naturale e culturale dell’umanità, senza parlare dei progressi da fare per la democrazia.
La realizzazione di questo programma è parte integrante dell’ideologia del progresso e presuppone il ricorso a delle tecniche sofisticate di cui alcune sono ancora da ideare. Sarebbe ingiusto tacciarci come tecnofobi e come anti-progressisti sotto il solo pretesto che noi reclamiamo un “diritto di inventario” sul progresso e la tecnica. Questa rivendicazione è un minimo per l’esercizio della cittadinanza.
Per quanto riguarda i paesi del Sud, frustati dalle conseguenze negative della crescita del Nord, non si tratta tanto di decrescere (o di crescere, d’altra parte), quanto di riannodare il filo rotto dalla colonizzazione, l’imperialismo e il neo-imperialismo, militare, politico, economico e culturale, per riappropriarsi della loro storia e della loro identità. Questo è un preliminare per dare ai loro problemi le soluzioni appropriate. Può essere sensato ridurre la produzione di certe culture destinate all’esportazione (caffé, cacao, arachidi, cotone, ecc.) come invece può avverarsi la necessità di aumentare la produzione delle colture per uso alimentare. Si può pensare anche a rinunciare all’agricoltura produttivista come al Nord per ricostituire i suoli e le qualità nutrizionali, ma anche, senza dubbio, fare delle riforme agrarie, riabilitare l’artigianato che si è rifugiato nell’informale, ecc. Spetta ai nostri amici del Sud precisare quale direzione può prendere per loro la costruzione del post-sviluppo.
In nessun caso, la rimessa in causa dello sviluppo non può né deve apparire come un’impresa paternalista e universalista che la assimilerebbe a una nuova forma di colonizzazione (ecologista, umanitaria …). Il rischio più forte è che i colonizzati abbiano interiorizzato i valori del colonizzatore. L’immaginario economico, e particolarmente l’immaginario sviluppista, è ancora più pregnante al Sud che al Nord. Le vittime dello sviluppo hanno la tendenza a non vedere altro rimedio alle loro disgrazie che in un aggravarsi del male. Pensano che l’economia è il solo mezzo per risolvere la povertà quando è la stessa che la genera. Lo sviluppo e l’economia sono il problema e non la soluzione; continuare a pretendere e volere il contrario fa parte del problema.
Una decrescita accettata e ben meditata non impone alcuna limitazione nel dispendio di sentimenti e nella produzione di una vita festosa, (ossia, dionisiaca).
La decrescita dovrebbe essere organizzata non solo per preservare l’ambiente, ma anche per reinstaurare un minimo di giustizia sociale, senza la quale il pianeta è condannato all’esplosione. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano così strettamente legate. I limiti del “capitale” natura non pongono solo un problema di equità intergenerazionale nella divisione delle parti disponibili, ma un problema di equità tra i membri attualmente vivi dell’umanità.