di Piero Soria
[da ttL]
Ogni tanto, per fortuna, si incontra un grande: scrittura, storia, emozioni, paesaggi, umori e odori. E si rimane stupiti di quanto la rabbia e la violenza possano essere delicate, quasi poetiche; e di quanto i luoghi, il colore della pelle, il fondo di un bicchiere possano trasformarsi in anima vera, in sentimento, in destino. James Sallis aveva già cosparso di una profonda, cupa malia i suoi Cypress Grove e Vite difficili. Ora, con La mosca dalle gambe lunghe (notevole la traduzione di Luca Conti, Giano editore, 15 euro) va oltre: è come se avesse improvvisamente imparato a suonare blues sulla sua macchina per scrivere: assoli sincopati, tristi, disperati, sostenuti dalla malinconica melodia umana della negritudine.
La sua «mosca» è una black story spezzata in quattro tempi. Quattro pezzi di vita: 1964, 1970, 1984 e 1990. Quattro ritmi diversi, altrettanti stumenti narrativi ma, alla fine, la storia profonda di un uomo nero fuori, più nero ancora dentro: Lew Griffin. Lew è un investigatore privato che vendica torti e ritrova persone in una New Orleans che pare il buco senza fondo di una pattumiera che tutto ingoia nel suo ventre avido e corrotto cibandosi con indifferenza di uomini e di donne. Soprattutto, di queste ultime: la prima, Corene Davis, è un’attivista newyorkese per i diritti civili, già immortalata sulla copertina da Times, atterrata in aeroporto per infiammare gli studenti della Tulane University e della Loiola, e inaspettatamente persa da tutti i radar della città. La seconda è Cordelia Clayson, una ragazzina acqua e sapone fuggita da un villaggio disperato e sconosciuto del Mississippi («dove Bessie Smith c’era rimasta secca») ammaliata dalle luci e dai sogni che il Big Easy evoca in tutte le sterminate pianure agricole che sanno di letame e di sudore. Terza, Cherie, sorella di un compagno di viaggio dello stesso Lew, amico di stanza in un centro di recupero nel quale entrambi cercano di riagganciare con le unghie la loro esistenze bruciate dall’alcol e dallo stordimento dei sentimenti. Infine David. David è il figlio del suo matrimonio infelice con Janie. («Il passato mi saltò al viso come un rospo»). Sparito anche lui: una vacanza in Europa, un corso alla Columbia University da riprendere, più nessuna notizia pervenuta. La certezza dolorosa che ogni ricerca non riuscirà a riportarlo indietro. L’angoscia, il terrore, la disperazione. E, infine, l’ineluttabilità della perdita.
Quattro storie, quattro epoche. E, dentro, il divenire di un uomo: la sua distruzione e la sua ricostruzione nel dolore. Intorno a lui una New Orleans terribile: quella degli sciocchi vacanzieri che annegano il loro bisogno di futile, cieca allegria nel Vieux Carre, tra la Bourbon, Canal street e Jackson Square, nelle bettole del dixiland tanto facile quanto per sprovveduti. Sciocchi incapaci di vedere e sentire la violenza quasi inaccettabile che pulsa ovunque, lasciando segni e lutti su ciascuna coscienza, soprattutto se nera. Lew, con i suoi piccoli immensi amori (bellissima la figura della puttana LaVerne, amante, madre e sorella), con le sue sbronze inarrivabili, con i suoi soliloqui interiori, la passione per i libri e le reminescenze di una Louisiana antica e francese, è una sorta di coloured Virgilio che, prendendoti per mano e mente, sa affascinarti tanto con l’inferno che con il paradiso. E a cui ci si può, finalmente, abbandonare con sincero entusiasmo.