Tutti i nomi di chi, da anni, cerca di “convincere” il Parlamento ad abolire la legge 185/90. E non sono solo industriali
di Gabriella Meroni
[da VITA]
La lobby delle armi? Non è un fantasma, esiste. Non è un’invenzione dei soliti pacifisti new global, sempre un po’ dietrologi, che attaccano i soliti grandi vecchi, rispolverando tutta la retorica delle buone utopie. No. Questa volta non è retorica, è realtà: perché la lobby delle armi esiste veramente, ha una sede (a Roma), attività precise (resoconti e pubblicazioni), un portavoce (Carlo Festucci), perfino una relazione annuale, consultabile da chiunque.
Il Gruppo Poles
Non ci credete? Un po’ di pazienza. Questa storia inizia qualche anno fa, precisamente nel 1999, quando all’interno dell’Associazione industrie per l’aerospazio, i sistemi e la difesa (la sigla è Aiad), organizzazione di categoria cui aderiscono 80 imprese, nasce un gruppo di lavoro sulle “politiche per l’esportazione”.
Si chiama Poles e ha un preciso incarico: fare pressione su politici, industriali e opinion leader affinché “passi” l’idea che la legge 185/90 è sbagliata e inadeguata e, soprattutto, fa perdere un sacco di quattrini all’industria della difesa italiana. Per questo il gruppo, che si ritrova presso la sede di Aiad, in via Nazionale 200 a Roma, produce documenti e incontra parlamentari. Ma soprattutto non perde di vista il disegno di legge che deve ratificare gli accordi commerciali europei, perché è proprio in questo disegno di legge (oggi denominato 1927, e approvato già da due commissioni della Camera) che il gruppo ripone le proprie speranze di affossare definitivamente la tanto odiata 185/90.
Si legge infatti nella Relazione annuale 2000 di Aiad, pubblicata il 4 luglio scorso: «L’attività del gruppo di lavoro Poles è ferma da quando si è arenato in Parlamento il disegno di legge di modifica della legge 185/90 (…) L’attenzione del gruppo è per il momento limitata al monitoraggio di azioni di ratifica, da parte dell’Italia, di accordi plurinazionali a livello europeo (…); ratificato Occar a fine 2000, il secondo (l’accordo quadro che si tenta di ratificare in questi giorni, ndr) ha visto fallire il tentativo di portare in Consiglio dei ministri il disegno di legge di approvazione».
Sempre nel 2000, tra ottobre e novembre, alcuni esponenti di Aiad incontrano il presidente Ciampi e l’onorevole Marco Minniti, allora sottosegretario alla Difesa, per esporre loro una serie di “aspettative”. Dulcis in fundo, il Segretariato generale della Difesa (cioè il ministero retto oggi da Antonio Martino) chiede al gruppo Poles di «collaborare a una verifica delle leggi e norme nazionali in vigore eventualmente da modificare» in seguito alla ratifica degli accordi commerciali europei. Se non è attività di lobby questa…
“C’è troppa 185”
Da parte sua, il direttore di Aiad, che è anche il coordinatore di Poles, Carlo Festucci, non si tira indietro. «Vogliamo modificare la 185, perché è inaccettabile che i nostri concorrenti europei abbiano norme più praticabili delle nostre sulle esportazioni di armi», dice a Vita. Inutile chiedergli se trova necessarie le regole che impediscono all’Italia di fare affari con Paesi in guerra, che violano i diritti umani, o sono governati da dittatori.
«Queste sono sciocchezze», ribatte. «La verità è che se un Paese si trova sotto embargo delle Nazioni Unite nessuno può vendergli niente, mentre nel caso italiano ci sono Paesi proibiti solo perché lo decide il ministero degli Esteri». Ma è proprio per questo che la nostra legislazione è considerata più avanzata di altre… «Più avanzata? Più retrograda, semmai, perché ci espone alla concorrenza sleale di Paesi che hanno le mani libere». Quindi il vostro sogno è vedere approvato il disegno di legge 1927? «Sì, anche se a me quel testo non piace per niente». Mi lasci indovinare: è troppo restrittivo? «Esatto. C’è ancora troppa 185/90, lì dentro».
La “congiura” di Istrid
Se gli industriali si muovono, i politici non stanno fermi. Sentite cosa dicevano, con toni da congiurati, nella primavera del 1999 (quindi all’inizio dell’iter del ddl 1927) alcuni autorevoli parlamentari, imprenditori e generali.
Siamo a un seminario organizzato dall’Istrid-Istituto ricerche e informazioni difesa, a dieci anni dalla legge 185. Intervengono, tra gli altri, l’onorevole Giuseppe Zamberletti, allora alla commissione Esteri della Camera; il generale Renzo Romano, direttore dell’Istituto superiore di Stato maggiore interforze; Enzo Benigni, presidente di Elettronica; Alfonso Sparola, dirigente di Alenia. Attacca Zamberletti: «Nella legge (la 185, ndr) vi sono contraddizioni e norme, introdotte dall’area parlamentare più utopistica e massimalista, realmente assurde, come quelle relative a Paesi in via di sviluppo».
Sottolinea Romano: «Se si vuole sopravvivere la prima cosa da mutare, ancor prima dell’inconsulto regolamento, è l’atteggiamento politico nei confronti dell’intera materia». Benigni fa due conti: «Gli spazi (dell’industria italiana, ndr) si sono troppo erosi. Siamo passati dai 4mila miliardi l’anno dei primi anni 80 ai 2mila del ’97. Le cause sono molte: normativa infelice, bilanci scarsi specie della Difesa, scarsa propensione al rischio e lentezza industriale nelle innovazioni, carenza di sostegno governativo costante e lungimirante, aree pacifiste essenzialmente ostili». Conclude Sparola: «Per troppo tempo abbiamo vissuto nell’assurdo. Se vogliamo creare un’industria europea, le merci devono muoversi liberalmente (…) Esistono già legislazioni valide da 25 anni, come in Germania e in Francia. Non si vede poi perché ogni Paese non possa adottare liberamente e come iniziativa nazionale la normativa più intelligente». è l’inizio della santa alleanza tra industria, Parlamento e forze armate che oggi sta per portare a termine il suo attacco finale alla 185/90. A meno che la società civile non riesca a fermarli.
Chi sono i nemici
Un settore notevole, composto da oltre 80 imprese che fatturano 7 miliardi di euro, impiegano 48mila addetti e concorrono, pur costituendo solo l’1% della produzione industriale, per il 18% alla determinazione del saldo commerciale italiano. Questi i numeri dell’industria italiana per l’aerospazio e la difesa.
L’universo Finmeccanica
La parte del leone la fa Finmeccanica, grande società in cui lo Stato è azionista di riferimento con il 32% delle azioni (un altro 4% è dell’Iri). La compongono società molto note come Alenia, Agusta, Meteor, Otobreda, Elsag. Secondo l’ultimo bilancio, relativo al 2000 (quello del 2001 è atteso per la fine di marzo), Finmeccanica ha fatto segnare ricavi per 12mila miliardi di lire, di cui il 60% all’estero. I dipendenti sono 40mila. Da tempo si parla del cambio della guardia nella dirigenza di Finmeccanica: il mandato del presidente Alberto Lina, nominato dal governo D’Alema, e della sua squadra è infatti in scadenza. Composito il consiglio di amministrazione uscente, in cui figurano top manager come Vittorio Colao di Omnitel, Corrado Passera di Poste Italiane, Maurizio Prato di Alitalia, Achille Colombo di Falck; dirigenti pubblici come Antonio Lirosi (ministero Industria), Lorenzo Bini Smaghi e Carlo Tamburi (Tesoro); c’è Alberto Clò, presidente dell’aeroporto di Bologna e intimo di Romano Prodi; Vittorio Ripa di Meana del gruppo L’Espresso; Sergio Maria Carbone, ordinario di Diritto internazionale a Genova e autore di un documento, pubblicato durante il G8 e realizzato con l’associazione Punto di fraternità, a favore della cancellazione del debito dei Paesi poveri.