di Roberto Barbolini
Due volte nero: per il colore della pelle e per le sue storie violente, una specie di hard-boiled etnico che, come sottolinea Manuel Vàzquez Montalbàn nella prefazione a Rabbia ad Harlem (edito da Marcos y Marcos, 224 pagine, ora 13.50 euro) hanno fatto parlare di lui come di un Balzac di colore. Ma Chester Himes non ha bisogno di nobilitazioni che sono sempre un modo per ridurre il sorprendente a categorie rassicuranti;
così come — pur non sfigurando accanto ai grandi nomi di Raymond Chandler e Dashiell Hammett — non deve essere incasellato, neanche con le migliori intenzioni, nell’ambito della narrativa poliziesca.
Adesso anche il cinema lo scopre: da Rabbia ad Harlem è stata tratta una pellicola di Bill Duke presentata all’ultimo Festival di Cannes. Ma per troppo tempo Himes ha vissuto da esiliato negli inferi d’ogni biblioteca dabbene.
Durante gli anni ’50 e ’60, in Italia, usciva nella collana di Longanesi “I gialli proibiti”, che dietro le sollecitanti copertine scollacciate non lesinava ghiotte scoperte interdette alla più nota ma pudibonda collana mondadoriana. Poi, da allora, più nulla. Ma anche in patria il destino di questo dropout di talento non è stato migliore. Rapinatore uscito di galera come autore di manoscritti convenzionali sulla negritudine, nell’alveo del realismo sociale alla Richard Wright o alla James Baldwin, Chester Himes (nato nel 1909 a Jefferson City nel Missouri) campò facendo i mestieri più svariati, dal barman all’impiegato nell’industria degli armamenti. Vissuto ad Harlem per quasi un decennio a partire dal ’45, Himes fu poi in Europa: dapprima in Francia, dove scrisse per la “Série Noire” di Gallimard, poi in Spagna, dove morì, semi-dimenticato, nell’84.Jackson, un negro molto pio e scombinato coinvolto in un bidone colossale dalla maliarda “fidanzata” Imabelle, si mette sulle sue tracce coadiuvato dal gemello Goldy, alias suor Gabriel, che campa raggirando i gonzi travestito da suora e facendo soffiate alla polizia. Il primo è spinto dall’amore, notoriamente cieco; il secondo dalla brama per il malloppo proditoriamente celato in un baule che Imabelle si porta appresso.
Partendo da queste premesse, Himes innesca l’atroce farsa di Rabbia ad Harlem (ben sottolineata nel suo arduo impasto linguistico dalla traduzione di Sandro Ossola). Ed è una comicità che confina con l’inferno. Quando una testa — non dirò quale — schizza via, l’urlo del malcapitato possessore fa tremare “i polmoni tubercolotici e i feti scomodi delle ragazze madri”, giù ad Harlem. Tremano gli scarafaggi e le mosche addormentate, le cimici grasse e piene di sangue, i gatti sornioni e i cani nelle loro cucce sporche. Il grido inumano fa sobbalzare persino “i cessi ingorgati, sgorgandoli”. Dalle fogne si giunge al sogno di un lieto fine. Ma come credere davvero alla falsa consolazione che Himes, implacabilmente etnologo del crimine, sembra gettare come offa al lettore ingenuo? Ha ragione Montalbàn: ormai “Harlem è dappertutto, anche se non dappertutto appare un Chester Himes in grado di decodificarlo”.
[Panorama, agosto 1991]