di Gaspare De Caro e Roberto De Caro
Abbiamo ripetutamente avuto modo di segnalare il trimestrale Hortus Musicus come una delle più belle riviste politico-culturali italiane, per non dire la più bella in assoluto, per eleganza della confezione e ricchezza dei contenuti. E’ appena giunto in libreria il n. 21 (gennaio-marzo 2005), che ancora una volta sorprende per il tasso di intelligenza che ogni sua pagina sprigiona. Ne riproduciamo l’editoriale. L’illustrazione è di El Pisto. (V.E.)
Nein, er gefällt mir nicht, der neue Burgemeister!
Nun, da ers ist, wird er nur täglich dreister…
(Goethe, Faust)
All’angolo della strada la Fanciulla cieca vende un fiore al Vagabondo. Da più di settant’anni non c’è durezza di cuore che resista al gesto. Eppure ci sono eccezioni: rivestite un cuore di sindaco della dura scorza della Legge e non ci sarà scampo né per la Fanciulla né per il Vagabondo e nemmeno per il fiore. Un cuore di sindaco foderato di Legge è impermeabile a commozione e solidarietà, specialmente se nelle vene della sua città scorre il sangue di Irnerio e dei glossatori.
Il sindaco di una tale città che ruolo potrebbe interpretare in City Lights se non quello del policeman con il suo grande sfollagente? E in The Kid quale, se non l’uomo della Legge che strappa crudelmente il Monello dalle braccia del Vagabondo? Non sono domande così inverosimili come può sembrare: la scena di Modern Times con gli spari della polizia sui dimostranti, non escluso il morto, è stata davvero recitata sotto le due Torri da un sindaco d’altri tempi. Dura lex, sed lex. In verità la dotta cappa di Balanzone copre il cuore legalitario di una tigre. Né fa differenza il colore del podestà: la Legge è Legge, vuole la sua libbra di carne e le istituzioni vogliono continuità.
Macelleria comunale
Facciamo un esempio, anzi due. Prendete un sindaco con trascorsi di Pcher (beccaio, nel complesso idioma dei nativi: si legge come si scrive nei quartieri gotici — con il rilassamento neogotico dei costumi si attesta anche la forma Bcher —, Pcer in quelli longobardi; ma nei quartieri franchi, al di qua del Reno, è in uso Mazzler) e uno, venuto di lontano per esaurimento dei giacimenti locali, con passato di Cronometrista: benemerito il primo di succhi gastrici, di produttività aziendale il secondo, di sinistra questo e di destra quello. Quale diverso grado di umanità credete che esibirà ciascuno di loro se gli capita nelle mani un migrante del Bangladesh, biecamente capace di approfittare dell’8 marzo per cercare, in agguato ad un semaforo, di vendere senza licenza — più o meno come la cieca di City Lights — sacrileghi rami di mimosa? Risparmiate gli sforzi d’immaginazione: vedrete che la realtà supera la fantasia.
L’8 marzo 2000, Festa come ognun sa della Donna, da celebrarsi con offerta gentile appunto di mimose e acquisti supplementari di piacevolezze muliebri ad espiazione di passate disparità di trattamento e a sollievo del Commercio, un eccedente Mohammad K. — lo chiameremo così — fu sorpreso dai bravi del sindaco Pcher mentre travestito da fioraio cercava subdolamente di trarre profitto dai buoni sentimenti della giornata alienando mazzetti di mimose ad automobilisti ignari. Non aveva, il protervo, il necessario consenso del borgomastro, come allibiti dovettero constatare i bravi. Ora, Bologna è città adusa ai miracoli, eredità inestinguibile del Patrimonio di San Pietro, adesso propiziati anche dal definitivo ritorno di san Petronio sotto le due Torri, per personale devozione del sindaco Pcher e per pio continuismo del successore, non incline ad inibizioni estetiche. Si sono visti miracoli come quello della banda di rapinatori e assassini che si infiltrò al completo nei ranghi della polizia, adempiendo con così giusto zelo alla tutela dell’ordine che per molto tempo nessuno si accorse della differenza. E viceversa: si sono visti terroristi musulmani aggirarsi terroristicamente in San Petronio e subito convertirsi, per miracolosa intercessione del santo patrono, in turisti desiderosi di istruzione e ligi all’ordine costituito. Ma neanche l’arcivescovo dell’epoca, cardinale Biffi, così caritatevole con gli alieni, avrebbe creduto nel miracolo della trasformazione in fioraio di un migrante bangladese, magari di dubbia affidabilità religiosa. Sicché la simoniaca pretesa dell’infido fu subito punita con meritata severità.
Secondo il verbale di accertamento della polizia municipale, il giovane Mohammad K. — nativo di Shariatpur, permesso di soggiorno rilasciato dalla questura di Bologna nell’autunno del 1998 — a fine mattina dell’8 marzo 2000, appostato ad un incrocio stradale nei pressi della stazione «esercitava il commercio su area pubblica senza autorizzazione». Di conseguenza «le merci vengono sequestrate ai sensi della 689/81 art. 13-20» e si dà facoltà all’esercente di estinguere l’illecito «eseguendo il pagamento di Lire 10.000.000 (Euro 5164,57) + Lire 2.500 (Euro 1,29) imposta bollo entro gg. 60». Chi ci avesse seguito distrattamente sin qui e deducesse dall’entità dell’ammenda che l’illecito fosse di spaccio di oreficeria o altri beni preziosi sarebbe assai lontano dalla realtà, trattandosi invece, come si è accennato, di mazzetti di mimose. È comprensibile pertanto che Mohammad K. abbia rinunziato a condurre pratiche per ottenere la restituzione dalla Pubblica Amministrazione di «tale merce di modesto valore economico, deprezzata e deperibile» e, ahimè, ormai «non commerciabile», come si legge nel successivo verbale di «confisca-distruzione» della primavera del 2001, dopo un soggiorno più che annuale dell’immortale mimosa nei magazzini comunali. È altresì comprensibile che Mohammad K. si sia rigorosamente astenuto dal pagamento di alcunché.
Comprensibile, ma non giustificabile. Maternamente infatti la Legge gli dava ampia possibilità di provvedere a suo bell’agio a riabilitarsi con la Comunità, assolvendo al suo debito civico. Avrebbe potuto richiedere il consiglio di un giureconsulto, di cui certamente il foro cittadino non difetta né per numero né per dottrina né per modicità di onorario, onorabile non solo in oro ma anche in cartamoneta, o in capponi. Con tale consiglio, come ebbero a lamentarsi poi gli Uffici all’uopo preposti dall’Amministrazione, avrebbe potuto sottoporre all’attenzione degli Uffici stessi adeguata memoria difensiva, adducendo e illustrando, nonché il proprio incondizionato pentimento e la propria appassionata dedizione alla Legge, eventuali ragioni giustificative della trasgressione, tali da temperare il rigore della sanzione amministrativa. Solo una inestinguibile diffidenza orientale può spiegare il comportamento di Mohammad K., che non ha usufruito di così generose possibilità. D’altra parte gli Uffici preposti non spiegavano — e del resto notoriamente non è loro compito né del sindaco — come il nullatenente nonché eccedente Mohammad K. avrebbe potuto provvedere alla sanzione, quandanche eventualmente temperata, nonché ai capponi, non essendo per personale natura e prudenza incline ad assaltare banche e/o vecchiette pensionarie ed essendo altresì sconsigliabile nelle successive ricorrenze ripresentarsi ai semafori dotato di mimose.
Bologna a cronometro
A questo punto il caso di Mohammad K. passa dalle mani podestarili dell’indigeno Pcher a quelle dell’allogeno Cronometrista e non guadagna nel cambio. Certamente il nuovo sindaco è l’uomo giusto al posto giusto, quello meglio capace di soddisfare la preminente passione dei cittadini bolognesi per l’Ordine. In proposito le sue precedenti attività sono garanzie sufficienti, tanto che scegliendolo i nativi gli abbonano la loro notoria diffidenza per i forestieri, anche quando non siano africani, asiatici, pugliesi e simile genìa. Da sindacalista supremo infatti non ha saputo mantenere l’Ordine tra i lavoratori, pur contribuendo a ridurli tra i meno pagati d’Europa? Ma non si capisce davvero la sua personalità di garante della Legge se non se ne ricordano gli esordi professionali, quando in senso proprio lavorava. Fu allora infatti, regolando cronometro alla mano il dispendio di fatica altrui, che dimostrò a Chi di dovere la sua vocazione e dedizione all’Ordine e alla Produttività, aprendosi così la strada del sindacato e del sindacame. Fu allora che forgiò i sentimenti, il duro cuore di tigre, con cui oggi tratta anche il caso di Mohammad K. Sentite con quanta nostalgia, con quanto pathos di temps perdu racconta adesso della fabbrica di allora e degli operai di cui misurava il tempo di lavoro e di vita. Noterete anche come nel cuore di tigre alberghi immancabile la compiaciuta estetica dello stachanovismo. Il Cronometrista viene davvero da lontano:
Il laminatoio era un luogo affascinante, le barre di rame venivano rese incandescenti e poi ridotte progressivamente di spessore fino a trasformarle in vergella, in un rude filo di grande diametro che veniva avvolto su appositi aspi nella parte terminale del reparto, fuori dal laminatoio. Nella piazza del laminatoio agivano i laminatori, operai di grande professionalità, con le loro lunghe tenaglie afferravano la testa del rosso serpente di rame incandescente che usciva dai cilindri riduttori e lo infilavano nel cilindro successivo perché lo assottigliasse ulteriormente. Nei loro movimenti c’era precisione, eleganza, sicurezza. Trasformavano una operazione difficile e pericolosa in una sorta di originale danza. Se non avessero afferrato in tempo quel serpente, domandolo e ricollocandolo nel rullo, lo stesso serpente infuocato li avrebbe colpiti e feriti. Ma loro con semplicità lo guardavano arrivare, ne cambiavano la direzione di marcia e lo accompagnavano con lo sguardo mentre ripartiva. (1)
Avete dubbi su chi potrebbe interpretare il ruolo del sorvegliante alla catena di montaggio di Modern Times? Ma mentre i laminatori danzavano, lui che faceva, oltre ad estasiarsi di quelle eleganze? Ad ovvia distanza di sicurezza dal serpente infuocato e senza la minima esigenza di partecipazione personale, lui studiava il modo di migliorare tutta la faccenda con opportune rotazioni dei danzatori nelle varie fasi della lavorazione, sia a vantaggio della loro professionalità e della resa tersicorea sia — poiché non vanno mai dimenticati gli incentivi morali — «per far imparare altri e liberando […] una parte del tempo e dello spazio per il lavoro “alto” […] renderli collettivamente più forti», permettendo «(solidarmente) ad alcuni loro giovani compagni di crescere». Ecco da che si riconosce il vero sindacalista: dalla passione pedagogica, dalla didattica della fornace! Era poi una fortunata coincidenza se, diciamolo francamente, «d’altra parte l’azienda incassava i vantaggi della ricostruzione del ciclo che riduceva tempi morti e conflittualità» (2). Quanto all’apprezzamento degli operai, bastava far finta di non capire «quando, al colmo dell’irritazione, si rivolgevano a me parlando solo nel loro dialetto, il bergamasco aspro delle valli» (3). Anche così si diventa sindacalisti e poi sindaci.
Certo, erano altri tempi. La recherche indugia volentieri sugli operai di una volta, quelli che parlavano della «loro fabbrica», della fabbrica «vissuta come luogo identitario», dove, prousteggia lui, «il conflitto, la sua gestione, creano sempre forti relazioni tra le persone, anche quando sono su versanti opposti» (4). Per esempio, pare di capire, tra sindacalisti e operai. Comunque gli operai di oggi non sono più così; «nessuno di loro, oggi, parlando del suo lavoro usa espressioni come “… la mia fabbrica…”»; anche quando incombe la disoccupazione «non sentono loro la fabbrica che difendono con tanta determinazione, lo si capisce facilmente dai loro comportamenti, dalle loro parole, addirittura dalle loro facce. Varrebbe la pena di cercare di capirne il perché» (5). Già, chissà perché? Qui la recherche non suggerisce risposte, ma dovrebbe. Ne varrebbe la pena.
Un tale autoritratto del personaggio autorizza a continuare l’ipotesi cinefila, trasferendola dalla sequenza della catena di montaggio di Modern Times alla scena iniziale di City Lights. Non ricorda l’enfasi celebrativa di quella scena, a statue della Pace e della Prosperità ancora coperte, il festoso delirio del Popolo petroniano quando le due Torri furono riconquistate al Progresso e alla Libertà? e quando il sindaco Cronometrista tolse il lenzuolo della retorica civica, non ci trovò sotto anche lui il suo Vagabondo?
O meglio non ce lo trovò.
Il safari
Con l’avvento del sindaco sindacalista una ventata nostalgica di socialismo reale soffia tra le due Torri. Non che si temano brusche svolte a sinistra, del resto vietate dal vigente codice della circolazione, ché anzi la continuità ideologica con la precedente macelleria comunale viene assiduamente ribadita. Nessun timore, dunque, di velleitarie infrazioni dirigiste agli equilibri di mercato o di ipotesi sovietiste di democrazia dal basso, dalle quali e dai gulag ci protegge comunque la NATO, come già si rassicurava Berlinguer. Possono stare tranquilli anche gli intellettuali che pascolano nei prati del Comune: garantiscono contro ogni tentazione zdanoviana i gusti letterari del sindaco, dichiarato frequentatore di fumetti, e le estrose trasgressioni teoriche e soprattutto doviziosamente pratiche del suo assessore alla Cultura, studioso eponimo dell’Effimero. Ma insomma è innegabile una ripresa del vecchio spirito tra giacobino e fordista dell’evo A.C. (Avanti Crollo, non Avanti Cristo, trattandosi di laici), di una inclinazione a trasferire nella gestione del Comune la disciplina di fabbrica, come del resto c’era da aspettarsi da un sindaco esperto di catena di montaggio. Non saranno più tollerati dunque gli evidenti strascichi di lassismo democristiano imputabili alla gestione uscente, indulgenze e ritardi specialmente nell’ambito che è il vero banco di prova di ogni illuminata amministrazione comunale, e quasi la sua ragion d’essere: l’imposizione e riscossione di multe e tributi e il perseguimento dei renitenti. Il sindaco, cronometro alla mano, ha dato il segnale: ha dichiarato guerra a Mohammad K.
Il quale nel frattempo, con moglie e figli al seguito, dopo un avventuroso viaggio attraverso le marche padane ha cercato rifugio nella Canaan subalpina, celebre per i servizi riservati agli immigrati. La distanza però non ammorbidisce la passione venatoria del sindaco, resa più impaziente del resto da un certo raffreddamento dell’entusiasmo popolare. La personalità politica di un’amministrazione novella infatti si misura innanzitutto sull’arte della comunicazione, sulla capacità di soddisfare secondo modalità adeguatamente spettacolari, come insegna Debord, le sacrosante aspettative della cittadinanza. Ora, effettivamente, in fatto di circenses c’è un innegabile ritardo dell’attuale amministrazione: a parte la festa cittadina programmata in Comune per l’elezione di Kerry, abortita non per colpa del sindaco, non si può dire che ci sia fervore di iniziative ludiche quali la moltitudine richiede (la Forca e la Farina non sono più up-to-date, ma la Festa sì). Dopo un semestre in bianco, il malcontento comincia a serpeggiare. A torto. Il sindaco infatti ha una sua severa strategia: prima pagare poi godere. La caccia bengalese rientra in questo quadro di priorità e di urgenze. L’orwelliano giro di vite impresso dal nuovo corso ha messo alla frusta l’Ufficio Legale, a lungo mortificato dalle rinvianti procedure del Pcher, rischiose di scadenza dei termini contro i trasgressori. Che la caccia cominci!
Ma c’è trasgressore e trasgressore. L’abilità di un solerte avvocato comunale sta tutta nello scovare, come un cane da tartufo, quelli in grado di ottemperare, perché il gioco deve valere la candela. È il caso di Mohammad K., che nel 2003 ha rinnovato il permesso di soggiorno, svelando dunque ai segugi non solo di essere vivo, nonostante il gelo subalpino, ma anche di usufruire di grasso salario: per il Comune senza cuore di Bologna una pacchia, una risorsa assicurata in forza di legge, cui attingere nell’eventualità che il renitente non disponga di case, terreni, titoli, azioni o mobilio pregiato. Alla fine del safari, notificata alla preda l’Ordinanza-Ingiunzione di pagamento, la sanzione risulta incrementata per il ritardo sino alla somma di Euro 6.719,54, a motivo della trasfigurazione dello ius in money, come d’uso nella Civiltà del Mercato. Per un po’ Mohammad K. e la sua famiglia avranno di che odiare le mimose. Però, se la caccia è finita, il target oppone ancora resistenza. La trasfigurazione dello ius in money infatti richiede la collaborazione civica del soggetto, deplorevolmente mancata nella fattispecie. Di conseguenza è in corso il procedimento giudiziario intrapreso dal sindaco di Bologna contro Mohammad K. Proprio non si può dire che il sindaco non faccia niente e i bolognesi devono avere ancora un po’ di pazienza: il tempo della Festa verrà. Comunque, qualunque sia l’esito, la feroce vicenda conserva tutto il profumo delle mimose morte.
Transfert a la bulgneisa
Charlot è di casa a Bologna. La benemerita Cineteca Comunale cura con amore filologico il restauro delle sue vecchie pellicole. A scadenze regolari, nella piazza dove una volta si assisteva alle pubbliche Esecuzioni e si celebrava la Festa della Porchetta (6), al Popolo viene liturgicamente impartita la proiezione delle grandi opere di Chaplin, accolte con il medesimo entusiasmo civico riservato un tempo a quelle esibizioni: è la bolognesità. C’è qualcosa di peculiare infatti negli entusiasmi petroniani: nello specifico, unico caso al mondo, il Popolo non si identifica nel Vagabondo, ma nel Poliziotto. La preminente passione cittadina, l’abbiamo detto, è l’Ordine. Anche nelle comiche. C’è stata qualche eccezione, si capisce, qualche lustro fa, ma è stata adeguatamente punita e definitivamente rimossa. Non è rimasto nulla che inibisca la passione civica per ogni cosa al suo posto e un posto per ogni cosa. Ogni tanto si decide chi rassetterà: è questo che si chiede ai beccai e ai cronometristi. Niente mimose.
1) Sergio Cofferati, Dignità di laminatore, in Linus, XXXX, n. 4 (469), aprile 2004.
2) Ibid.
3) Ibid.
4) Id., La mia fabbrica e la loro, ivi, XXXX, n. 3 (468), marzo 2004.
5) Ibid.
6) All’inventiva e dotta attenzione dell’Assessorato competente si segnala che l’allusione non è gratuita e che la Cultura dell’Effimero non è nuova su questa piazza: «A metà del Seicento, e sino alla fine del Settecento, la Festa della Porchetta coinvolgeva tutta la città: dai Senatori e magistrati che la organizzavano, alla nobiltà, al popolo che ne era spettatore e interprete. Si svolgeva ogni anno il 24 agosto, giorno di San Bartolomeo e anniversario di una vittoria delle truppe cittadine nel 1281 sulla fazione dei Lambertazzi, nella Piazza Maggiore che si trasformava in un grandioso teatro allestito con apparati effimeri di grande impatto scenografico, ideati dai più importanti artisti locali dell’epoca» (cfr. Lo sai che… in www2.comune.bologna.it)
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