di Giuseppe Genna
E’ il centro del mondo, secondo le direttive geopolitiche americane, e per questo motivo ci si scanna, non soltanto a parole. Non stiamo facendo riferimento ai roboanti crocicchi meneghini della Lega. La Turchia [nella foto il premier Erdogan] è un problema fondamentale negli equilibri del pianeta in disequilibrio. La ‘Sublime Porta’ tra est e ovest, alla luce del conflitto in Iraq e del rischio di risucchio della regione verso l’Iran teologale, assume i connotati dell’òmfalos di ellenistica memoria. Partner privilegiato di Israele, sostenitrice del GAP, passaggio obbligato di importantissimi progetti di oleodotti (si spiegherà qui di seguito perché e percome di tutto ciò), la Turchia ha alle proprie spalle una consolidata tradizione novecentesca di asse geopolitica fondamentale, che spartì con l’Italia, come del resto emerge dagli studi di Nico Perrone, segretario di Enrico Mattei, che ha lavorato su documenti recentemente desegretati dal Congresso USA [vedi il suo Obiettivo Mattei – Gamberetti]. Altroché bufala dell’Islam laicista: questa è semplicemente una copertura culturale rispetto alle viscere di una realtà su cui il Fondo Monetario Internazionale ha messo gli occhi e le mani.
Eufemistiche “relazioni dinamiche tra FMI, UE e Turchia”
Cominciamo proprio da qui: dal Fondo Monetario Internazionale. Esso nutre certe ambizioni, immediatamente tradottesi in propositi e disegni, riguardo allo Stato di Ataturk. Nei Policy Briefs dell’ISPI (l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, nato nel ’34, sotto il fascismo, ispirandosi al modello del Royal Institute of International Affairs di Londra e della Foreign Policy Association di New York, e ora presieduto dall’ambasciatore Boris Biancheri), c’è un interessante intervento di Giovanni Colombo [“L’economia turca, il Fmi e la Ue: un triangolo virtuoso?”], dall’incipit folgorante:
Dopo la crisi finanziaria e valutaria del 2000-2001, i rapporti con il Fmi hanno influenzato profondamente la politica turca, attraverso il principio di condizionalità, attuato con le frequenti missioni di review in vista del rilascio delle tranche del prestito da 19 miliardi di dollari. I funzionari del Fondo hanno seguito i singoli atti legislativi e la loro implementazione per promuovere le riforme previste dal programma di stabilizzazione, i cui capisaldi sono la riduzione del debito pubblico, il rigore fiscale, la lotta all’inflazione, una fitta serie di riforme strutturali per il rafforzamento del settore privato, del sistema bancario e il miglioramento dell’investment climate.
E’ la solita politica del FMI, che ha avuto esiti disastrosi in Argentina e, prima, in Polonia, e che va sotto il delicato eufemismo di principio di condizionalità, del quale vi lasciamo immaginare tutte le virtuose declinazioni, unito alla politica economica iperliberista che, in tempo di glaciazione deflatoria, cercherebbero di applicare anche qui in Italia e, più in generale, alla BCE.
Non è che i crediti somministrati dal FMI durino in eterno e, come sempre accade, il problema per i governanti che decidono di applicare le politiche ispirate dal FMI, a medio termine, entrano nel panico, perché si trovano di fronte alla medesima situazione: impongono restrizioni pazzesche alla vita economica del paese, attendono un aumento degli indici di occupazione, questo tarda ad arrivare, la gente si incazza, poi si scopre che le politche finanziarie hanno creato un buco enorme, da cui prima esplode un’inflazione mostruosa e poi una deflazione altrettanto mostruosa.
La Turchia si trova attualmente su questo crinale. Scaduto l’accordo con l’FMI, c’è da rinnovarlo. Il rinnovo, negli intenti dei vertici tecnocratici, sarebbe imposto: non si può lasciare l’opera a metà. Però le condizioni interne incominciano a rendere la situazione rovente. Ecco come descrive tale congiuntura l’estensore dell’ISPI:
Sul piano internazionale, la amministrazione americana era evidentemente favorevole a prolungare l’assistenza del Fondo alla Turchia, che tra l’altro ha preso parte alla riunione del G8 di giugno 2004, in cui gli Stati Uniti hanno promosso l’iniziativa per il Broader Middle East, in cui Ankara potrebbe rivestire un ruolo di primo piano. La posizione del governo turco non era però scontata: dopo alcune controversie nel 2002-2003, anche quest’anno il primo ministro Erdoğan — commentando il programma di riforme — ha insistito sul bisogno urgente di una ripresa occupazionale, mentre i funzionari del Fondo sottolineavano gli obiettivi di efficienza economica, a cui sarebbe seguita la creazione di nuovi posti di lavoro. In questo contesto si inserisce il dibattito sull’aumento del salario minimo al di sopra del tasso di inflazione programmata, introdotto dal governo prima della settima missione di review del Fondo (gennaio-febbraio 2004). Queste schermaglie, sebbene non abbiano incrinato il rapporto di sostanziale collaborazione con il Fondo, hanno consentito all’Akp (il partito di governo di ispirazione islamica) di esternare la propria apprensione per i costi sociali delle riforme promosse dal Fmi (nel primo trimestre del 2004 il tasso di disoccupazione è passato dal 10,5% al 12,4%, a fronte del 6,6% del 2000), di cui teme evidentemente le conseguenze elettorali. Non va infatti dimenticato che la vittoria alle urne nel novembre 2002 è stata determinata anche dalle pressioni per una redistribuzione della ricchezza invocata dai ceti meno abbienti della società. D’altra parte, l’Akp punta a presentarsi come una forza di governo credibile, capace di risanare l’economia turca, mantenendo la fiducia degli investitori internazionali. La liberalizzazione dei movimenti in conto capitale (introdotta nel 1989), la consistenza dei flussi di denaro a breve termine e la struttura stessa del debito pubblico, che ha scadenze brevi ed è in parte denominato in valuta estera, fanno della Turchia un “sorvegliato speciale” sotto l’occhio vigile dei mercati, estremamente sensibili a tutto quanto possa incrinare l’affidabilità del governo.
Di fronte a questo importante test, il governo ha risposto positivamente. Il 6 agosto ha annunciato l’intenzione di chiedere l’assistenza finanziaria del Fondo, attraverso un nuovo credito stand-by, che potrebbe ammontare a 5 miliardi di dollari.
Fin qui, il Fondo Monetario, la cui politica per ora ha sortito questo risultato: in quattro anni la disoccupazione in Turchia è più che raddoppiata e il debito del Paese è cresciuto di ben 23 miliardi di dollari (fate un debito in dollari: secondo voi, alla fine della trafila o della filiera che dir si voglia, chi incassa i dollari e gli interessi?).
Ora, però, è il turno dell’Unione Europea. Non basta il FMI, in coda fuori dalla porta turca c’è nientemeno che il Vecchio Continente.
Una relazione dinamica tra Turchia, Fmi e Ue: le ragioni di questo nesso possono essere individuate a differenti livelli, sia nella sfera politica che in quella economica. Innanzitutto le riforme concordate con il Fmi si inscrivono perfettamente nel processo di adesione turca all’Ue: grazie al lavoro svolto dal governo in campo economico, in coordinamento con il Fondo, oggi la Turchia è un candidato più preparato a sostenere le sfide dell’economia europea, in termini sia di competitività sia di convergenza macroeconomica, grazie al rigore della politica fiscale che ha permesso il calo dell’inflazione. Per il futuro, una volta conclusi gli accordi con il Fmi, di fronte al rischio di politiche populiste di spesa che potrebbero indebolire la capacità di raggiungere l’avanzo primario per la riduzione del debito, l’ancoraggio all’Ue potrebbe dispiegare i suoi effetti benefici nel lungo termine, sostituendo alla condizionalità finanziaria del Fondo quella “politica” dell’Unione: l’ingresso nella fase finale dell’adesione (quella negozia-e) incentiverebbe le autorità a perseverare nel controllo della spesa pubblica e nel proseguimento degli interventi strutturali sull’economia.
In pratica: la politica di unione europea equivale al principio di condizionabilità del FMI. E’ un passaggio importante, questo: viene enunciata un’identità tra Europa Unita e Fondo Monetario Internazionale.
E quali sarebbero i risvolti interni? Eccoli:
Sul fronte della politica interna, un esito positivo del Consiglio europeo di dicembre [e c’è stato esito positivo, ndr] potrebbe aiutare il governo a consolidare la propria leadership a livello nazionale, verso la base elettorale che patisce le difficoltà del risanamento economico e vedrebbe nell’ingresso in Europa un contrappeso positivo o una sorta di ricompensa. La certezza delle prospettive europee fornirebbe al governo una potente giustificazione per l’adozione di politiche onerose dal punto di vista sociale o comunque con effetti redistributivi pesanti. In pratica, il rapporto con l’Ue potrebbe contribuire a mantenere l’appoggio degli elettori al governo in carica. La leadership del governo uscirebbe rafforzata anche rispetto alle forze politiche e sociali che ancora diffidano dell’Akp e delle sue promesse per uno stato laico e temono la realizzazione di una “agenda islamica segreta”. In questo caso l’adesione europea funzionerebbe come una sorta di garanzia contro possibili derive islamiste. Troverebbero meno credito i sospetti sul fondamentalismo religioso del governo e verrebbero ad attenuarsi le tensioni con gli alti gradi militari, per tradizione custodi dello stato secolare voluto da Atatürk. Anzi, l’ingresso nell’Ue non farebbe che sostenere la lenta erosione dei poteri dell’esercito, promovendo la normalizzazione dei rapporti tra istituzioni politiche democratiche e apparato militare.
Questi sillogismi dati per naturali, queste conclusioni apparentemente scontate sono filiazioni di una logica che ha condotto al disastro praticamente ovunque sia stata applicata. E’ tutta da provare la ricetta del FMI e, questa volta, la si prova in uno Stato dell’area islamica. Non so se sia chiaro: in Argentina puoi distruggere una nazione senza rischiare che “l’agenda segreta islamica” comporti un’accelerazione di processi dissolutivi e cruenti; ma in Turchia? E poi: tra i benefici della Turchia normalizzata dal FMI e dalla UE viene sottolineata una sorta di demilitarizzazione della Turchia. A che pro una Turchia con militarizzazione a bassa intensità? Teniamo presente che, soprattutto, in un frangente simile paga l’intelligence, non l’esercito: l’intelligence è tra i primi rami secchi da tagliare, come già accaduto nell’America pre-11/9, con la sostituzione del modello HUMINT (intelligence umana) a vantaggio dei supposti pregi del SIGINT e del DIGINT (intercettazioni e intelligence ad alta tecnologia). Il disastro Usa in Iraq, a detta di molti, è dovuto anche alla scarsa presenza sul territorio di intelligence umana.
Però, forse, una Turchia in questo tipo di caos, all’interno dell’Unione Europea, dove costituirebbe peraltro lo Stato più popoloso, a qualcuno farebbe comodo.
Lo scenario si complica: il GAP
Ben prima dell’ultima guerra Usa contro l’Iraq, la Turchia aveva le sue gatte da pelare col regime di Baghdad. Non nel senso che doveva ottenere qualcosa da Saddam, bensì nel senso opposto: non voleva dare qualcosa al dittatore iraqeno. Questo qualcosa era, è e sarà estremamente prezioso. Non è petrolio: è acqua.
Ecco cosa significava l’acronimo citato a inizio articolo, il GAP (Guneydogu Anadolu Projesi, cioè Progetto per il sudest dell’Anatolia), secondo le parole della giornalista Teresa Palam:
Il Gap è il mastodontico progetto di sviluppo idroelettrico del sud-est della Turchia, iniziato nei primi anni ’80. Il suo valore complessivo è stimato intorno ai 32 miliardi di dollari. Una volta terminato, si prevede nel 2005, il Gap comprenderà 22 dighe [nella foto, la diga Ataturk]; 19 impianti idroelettrici sul Tigri, sull’Eufrate e sui suoi affluenti. Il bacino del Gap, che si trova ai confini con la Siria, ha una capacità d’invaso di circa 84 miliardi di metri cubi. Sviluppato in tre laghi artificiali, coinvolge un territorio lungo oltre 500 km, con una superficie di 1770 kmq.
Il GAP è causa di conflitto tra la Turchia, l’Iraq e la Siria che sfruttano le acque a valle e che hanno avuto periodi di siccità legati alla costruzione delle dighe. Ogni tentativo di stipulare un trattato che regolamenti il flusso delle acque è sempre fallito per la volontà del governo turco di egemonizzare le sorgenti.
La Turchia ha ultimamente avanzato un progetto per la costruzione del cosiddetto “acquedotto della pace” che, diviso in due rami, porterebbe l’acqua da un lato a Kuwait, Emirati Arabi e Arabia Saudita, dall’altro a Siria, Giordania ed Israele. Il progetto è già stato approvato da un’ impresa statunitense e prevede la partecipazione commerciale della Fiat e di altre industrie italiane. La Turchia ha in mano una leva strategica fondamentale e può ricattare i paesi confinanti con la minaccia della “chiusura dei rubinetti”.
Alle porte dell’Europa, una guerra d’acqua di dimensioni esorbitanti: una guerra già vinta – dalla Turchia. E chi finanzia questa guerra? Qui intravvediamo ciò che l’estensore dell’ISPI, Giovanni Colombo, definiva “relazione dinamica tra Turchia, Fmi e Ue”:
La Banca Mondiale si è rifiutata, sin dal 1984, di finanziare qualsiasi progetto legato al Gap perché considerato causa di possibili conflitti per l’acqua del Tigri e dell’Eufrate. Nel 1999 la Banca mondiale ha risposto di no anche alla richiesta del governo turco di una consulenza per il Rehabilitation Action Plan in seguito alla realizzazione della diga di Ilisu. Il progetto è invece finanziato dalla Union Bank of Switzerland e garantito da agenzie di credito austriache, tedesche, italiane, giapponesi, portoghesi, svedesi, svizzere, britanniche e americane.
Manca totalmente, in questo elenco, qualunque riferimento a finanziatori israeliani, il che è strano. Un’importantissima sottoasse geopolitica, che consente di guardare contemporaneamente a influenze determinanti in direzione di tutti i quattro punti cardinali, è infatti quella che corre tra Israele e Turchia. Questa alleanza ottiene dimensioni devastanti se si considera proprio il possesso di acqua nell’area mediorientale. Secondo la rivista di geopolitica Limes, nel numero dal titolo “Turchia-Israele: la nuova alleanza”, dal 1997 la Turchia avrebbe stabilito accordi con Israele. Insieme i due paesi controllano il 90% dell’acqua dei paesi del Medio Oriente.
L’asse Israele-Turchia ha già prodotto esiti politici che, nel contesto attuale, risultano angoscianti. Mentre Rabin tentava una sponda con la Siria, con la sua morte nel ’95 si interruppero i cosiddetti “accordi del Golan”, e nel febbraio ’96 il successore di Rabin, Benjamin Netanyahu, ratificò un accordo militare stabile tra Israele e Turchia, che la Siria interpretò come un tentativo di accerchiamento. Ora la situazione è fluida, ma è proprio questa fluidità ad avere sempre centro in Ankara. Mentre si riteneva possibile una ripresa dei colloqui di pace fra Siria e Israele, l’UE apre la porta del negoziato alla Turchia, proprio nel momento in cui a est sia la Comunità Economica del Mar Nero (SMWR: Schwarzmeer Wirtshafstregion, dove attualmente vivono circa 330 milioni di abitanti, cioè una popolazione equivalente a quella dell’Unione Europea) sia l’Organizzazione di Cooperazione Economica (ECO, riunisce le repubbliche dell’Asia Centrale oltre ai soci fondatori, cioè Turchia, Iran, e Pakistan) stanno rinnovando e maturando antichi e nuovi progetti.
Un luogo di possibile influenza al crocevia di tre macroregioni: il sud del mondo, l’Europa e l’Asia. L’interessamento, in forma di condizionabilità, da parte del FMI. Il passaggio di oleodotti fondamentali (recentemente BancaIntesa ha rinunciato alle proprie quote in un progetto enorme che transita proprio su suolo turco: l’oleodotto BTC, cioè Baku-Tbilisi-Ceyhan, raffigurato nella mappa qui a fianco). Il controllo dell’acqua nel Medio Oriente. Un bilanciamento rispetto alla forza di gravitazione esercitata dall’Iran su tutta l’area.
Ce n’è abbastanza perché le politiche mondiali si muovano per appropriarsi di una casella centrale in questo cruciale scacchiere.
E’ quanto sta accadendo.