di Daniela Bandini
AA.VV., Le ragazze con la pistola, introd. di Marcello Fois, Dario Flaccovio editore, Palermo 2004, pp. 242, € 13,00.
La casa editrice Dario Flaccovio, nella sua collana Gialloteca, e la sua curatrice Raffaella Catalano ci presentano Le ragazze con la pistola, la versione al femminile di quell’antologia sorprendente che era stata Duri a morire, composta da soli scrittori uomini e da noi recensita. I romanzi, gli autori proposti dalla Dario Flaccovio non sono più eccezionalità, promesse: sono invece una realtà consolidata del nostro panorama editoriale. Basti pensare agli autori che Flaccovio propone: per citarne uno solo, Danilo Arona con il suo impedibile Palo Mayombe. Flaccovio, insieme alla Fanucci, a Meridiano Zero e ad alcuni altri, ci dà la sensazione di non essere più un’alternativa, bensì la certezza di un’apertura strutturale e liberatoria del “contenitore intellettuale” italiano.
Il giudizio complessivo su Le ragazze con la pistola è più che positivo. La domanda sorge spontanea: ma esistono una scrittura “di genere” femminile e una di “genere” maschile? A mio avviso no. La maternità e la paternità, come predisposizione psicologica, come indice di sensibilità, non svelano il sesso di chi scrive. Ci sono scrittrici che riescono a esprimersi con un Io maschile e il contrario. Non volutamente. L’Io quella mattina o quella sera ha semplicemente la tendenza a essere un Io indifferenziato, nel pensiero teorico come nell’azione.
Nella fase della razionalizzazione dell’esperienza traumatica, che avviene nell’elaborato scritto, l’identificazione “di genere” è quasi annullata. In quella orale, comportamentale, no. E’ un’opinione personale, ma sicuramente il fatto vissuto, anche il più banale, è “fondamentalmente” diverso se a viverlo è un uomo o una donna. Anzi, è in quella particolare percezione del dato “insignificante”, mancante o aggiuntivo, che si giocano i ruoli dialettici. Sono questi semmai a essere strutturalmente difformi, molto più dello stile letterario, nella mimica e nello sforzo di seguire la linea di un elaborato, dalla prefazione alla postfazione.
In alcune pagine di questa antologia percepiamo l’annosa ingiustizia dell’indifferenza e dell’insensibilità maschili, la trascuratezza dopo la venerazione, ma essa sembra, come dire, voluta, da superare come stereotipo. Qui le pagine non ritraggono la mimica facciale delle loro autrici, possiamo solo immaginarle al lavoro, o fugurarcele dalle descrizioni che fanno di se stesse, e queste sono molto, molto, molto femminili.
Un breve cenno per ogni racconto, rigorosamente in ordine di apparizione: L’Anello di giada, Anna Pavani. La detective Mannino si imbatte in un’inchiesta fastidiosa, come la giornata di pioggia che le inzuppa il tailleur. Uno scheletro, con la sua mano ancora protesa verso l’alto, sembra ancora implorare aiuto o pietà a distanza di secoli. E’ in quella mano, che ancora disperatamente cerca di aggrapparsi a qualcosa, la potenza della maledizione che si ripeterà. La mano che indossa un anello, che ipnoticamente ci attrae, una piccola vera, un vincolo matrimoniale infinito che non possiamo più sfilarci dal dito, che altre, forse, indosseranno. Archetipi a cui nulla può sfuggire, neanche la più sconsacrante e disincantata modernità.
Il delitto non paga, Danila Comastri Montanari. Anna, la moglie, un nome. Le mogli, quando di mezzo c’è il tradimento, sembrano “indossare” immediatamente nomi che paiono usciti o dalla banalità o dalla pretestuosità. Anna, infatti, è figlia di un nome anonimo, e come tale appare: sciupata dalle fatiche contingenti del lavoro e della casa da portare avanti, le mani sciupate, il viso poco curato, lo specchio come fastidioso riflettente che non svela nessuna anima. Hanno la stessa età, sulla quarantina, la moglie e l’amante, e si confrontano. La moglie con il peso di una vita “sprecata”, di sacrifici materiali subiti, l’ “altra” con la freschezza della novità e dei ricordi, tutti recenti, condivisi con “lui”. La moglie la affronta con una pistola, ma il finale è tutto un gioco al rialzo. Divertentissimo.
Lei, lui l’amante, Alda Teodorani. I pensieri di una coppia in crisi, il fastidio che ci suscita il comportamento ripetitivo, il gesto quotidiano che diventa intollerabile, seccante. Le piccole manie che tali non sono, ma lo diventano ai nostri occhi, dal momento che diventano prevedibili. “Ma non ti accorgi di quanto sei ridicolo o ridicola quando fai così?” Eppure non era forse quella la caratteristica così “unica”che rendeva deliziosa e peculiare la nostra passione? Tanto tempo fa… L’abbandono, poi nuovamente quello che ci infastidiva diventa un ricordo tenero, il più caro, e sopraggiunge implacabile il rimpianto. In questo racconto c’è tutto, descritto alla perfezione, ma il finale non è altrettanto scontato, e si gioca tutto sulla linea del tempo.
Sala d’attesa, di Filly Ciavanni. Eccolo, il dolore e lo sgomento, feroce e disperato, quello vissuto da un uomo. Fin dalle prime pagine ci attanaglia, ci appare disarmante e incomprensibile, in quelle finali vi ci abbandoniamo rinunciando a lottare: lo seguiamo semplicemente lungo i corridoi che hanno segnato la nostra vita, impotenti, come faremmo con un malato terminale il cui destino è ormai scritto. E’ questo atteggiamento di rinuncia e accettazione quello che fa più male… Un gran bel racconto, che potrebbe diventare di denuncia.
La sindrome di Bonnet, Claudia Salvatori. Racconto complesso, come una matrioska. Una realtà che ne contiene un’altra, che ne contiene un’altra, che ne contiene un’altra… La sindrome di Bonnet è la percezione visiva di realtà inesistenti, nel nostro caso disperatamente ricercate da un ex-consumatore di lsd, al quale le “visioni” si presenteranno molti anni dopo l’astinenza completa dalla sostanza allucinogena. Come se tutte le immagini e le sovrapposizioni distorte avessero deciso all’unisono di uscire solo ora, e nei momenti e nelle modalità meno appropriati. Il serial-killer, la tesi massmediatica ormai accettata, metabolizzata, del vicino di casa “insospettabile”, e il dubbio sull’identità. Temi su cui riflettere.
Tubino rubino, Rossella Martina. Un piccolo gioiellino, questo racconto, che riguarda da vicino moltissime di noi. E’ la lucida percezione del nostro corpo, di come la trasposizione psichica lo interpreta. Una donna, con problemi di peso non indifferenti, che vive accanto a un uomo, suo marito, senza interrogarsi su nulla, senza indagare sul passato di lui e sull’ancora più strano vissuto quotidiano. All’improvviso una dieta fra tante di quelle cominciate e miserevolmente abbandonate funziona. Funziona, e come premio regala alla protagonista una taglia 42, un tubino rosso, un capo probabilmente visto indossare dall’ennesima ultima barbie del reparto giocattoli, un sogno. Un sogno che finalmente può mettere, abbandonando gli abiti informi che semplicemente “coprivano” il più possibile il corpo. E un nuovo corpo ha aspettative diverse, e questo nuovo corpo indaga. Indaga e scopre ciò che di più ovvio si possa immaginare, e indagando scopre che i rapporti sinceri, contrariamente a quanto la donna pensasse, non passano attraverso i pannicoli adiposi, non sono elaborati dal corpo per poi raggiungere l’anima, ma il contrario. L’obeso come un solipsita, un interprete “al contrario” di se stesso.
Bi, Paola Barbato. E’ un inseguimento, una fuga, una minaccia incombente, quella che perseguita il povero Signor Bi? Ne ha tutte le caratteristiche. Come nel più classico scenario cinematografico, ci ritroviamo immediatamente sul luogo dell’azione, senza preamboli. Quest’uomo è braccato, sappiamo solo questo. Unicamente nel finale scopriremo quanto zelante possa essere un datore di lavoro e come la sua pignoleria raggiunga l’estremo rigore. Ogni settore imprenditoriale, in primis quello criminale, ha le sue regole ben precise e il suo codice sindacale. Scritto.
Brillant Plein d’Esprit 177, Roberta Mochi. E’ la marca di un rossetto Lancôme, un rosso vivido, un colore e una brillantezza che la signora P* si regala per dare luce a un’esistenza troppo grigia. In quel gesto, in quello stendersi il colore sulle labbra, c’è veramente tutta la creatività artistica del pittore che interpreta e cattura la luce per colloquiare col mondo. Ma nella solitudine di un’esistenza fragile c’è chi la osserva, il dirimpettaio. Quanto sembra facile scavalcare un davanzale o un balcone e ritrovarsi di là, tre, quattro metri, e precipitare in un’altra esistenza. Quanto, come i protagonisti di questo racconto, abbiamo fantasticato su questa possibilità…
Scandalo al sole, Dora Ruvolo. Bellissimo racconto, la descrizione dell’abusivismo edilizio, dell’affollamento, della coabitazione forzata con i vicini, dei loro ritmi che diventano i nostri o, al contrario, della nostra intimità che comincia quando la loro finisce. La sincronizzazione inevitabile coi nostri ritmi di vita. E l’amore. L’amore proibito, quello che ti viene negato, lì, a portata di mano, tra una ragazzina e un artista, un pittore che la ritrae dalla finestra, così contigua… La tragedia è l’accorgersi che la bellezza, quella che gli altri all’improvviso vedono in te, quella che fisicamente esprimi, è vulnerabile, fragilissima e si paga. Pagherà il prezzo della fine dell’infanzia, una rosa appena sbocciata che spande il suo profumo, inconsapevole e violentissimo.
Cicatrice, Caterina Spina. Duro, crudo, questo racconto rimanda a sprazzi di un passato per molti comune, quello della determinazione ideologica più coerente e lineare, della solidarietà incarnata nell’azione… Ma per la povera Cecilia quei momenti saranno marchiati, fermati: scelte definitive, un tatuaggio non desiderato, un marchio che sta lì a ricordarti l’istante eterno di una valutazione. Una svastica, la punizione: quel simbolo scolpitole sul viso, un’aggressione di quattro fascisti che probabilmente ora, passati gli anni, staranno scegliendo le bomboniere per la prima comunione del loro figlio, staranno imprecando per l’ennesima bolletta, ma non avranno quella cicatrice maledetta, quella ferita ideologica sul volto, che si presenterà sempre prima di te di fronte a chiunque.
Quello che i pesci non sanno, Sabrina Petyx. E’ un racconto che si presenta come il tentativo difficilissimo e per questo affascinante di raccontare l’esperienza culturale dello “straniero” con il linguaggio dello straniero. Difatti gli eventi maggiori e minori si confondono, la tragedia sfuma nel particolare, la valutazione soggettiva prende il sopravvento sul fatto, la descrizione è dentro la carne e i pensieri di chi li sta vivendo. L’ennesima, disperata, traversata in mare di clandestini e la sopravvivenza del singolo, quello considerato puro ammasso di carne indifferenziata sui barconi “della speranza”. Persone la cui identità è confusa, e nella confusione il tentativo di ripristinare i volti e i nomi per poi lasciarli al loro destino, nella morte per annegamento di un popolo intero, e il ricordo di un delitto per troppo promesse che avrebbero potuto avverarsi.
Rekhale, Valentina Gebbia. La chiamano “sindrome del missionario”, la tendenza di molte donne a innamorarsi della persona sbagliata, quella che ti farà inevitabilmente soffrire, ti tradirà, ti prosciugherà il conto in banca con investimenti fatti sul tavolo verde del gioco d’azzardo, ma che ti fa sentire, in certi momenti, ai vertici della considerazione. In questi “vertici di considerazione” tutto si spiana, l’anima dell’assistente sociale prende il sopravvento, dipana le matasse più intricate. Ma è un attimo. Ecco, la vendetta, neanche meditata, l’occasione da cogliere al volo, per vendicare tutti i torti subiti. Sarà il destino a risolvere tutto, sarà l’ironia finale a essere liberatoria, come il decollo di un aereo.
Deviazione, Patrizia Pesaresi. Bello, incantevole paesaggio rurale, le sue tinte accese, il colore che ravviva la tradizione contadina degli scorci del lavoro quotidiano, il tutto raffigurato su due bei piatti da appendere al muro, un dono per gli sposi. Sì, un bel regalo. In quei piatti sono rappresentate e immortalate le visioni di un’epoca passata, colte nello splendore della quotidianità, con donne che sgusciano legumi, un fabbro al lavoro, le cucine. Un regalo solare e rassicurante, un invito a preservare tradizione e valori. Purtroppo c’è chi di quelle due terrecotte ha fatto maleficio, c’è chi ha trasposto il suo animo malvagio nel tentativo di continuare la storia: l’immagine immutata che non è più, questo palco teatrale affollato di personaggi gioiosi che recitano sempre l’unico, eterno primo atto.