di Domenico Gallo
[da Liberazione]
Non vi è nulla di più fuorviante che pensare alla scienza in termini di genialità, quasi che la responsabilità del progresso sia da limitarsi ad alcuni individui che, per insondabili ragioni, possiedono qualcosa di speciale. Il fascino che l’immaginario popolare ha rivolto a uno scienziato come Albert Einstein, alle stravaganti vicissitudini del suo cervello dopo la morte (che vanno dal gossip alle riflessioni sul mito contemporaneo espresse da Roland Barthes), a tutta la storia della scienza tedesca sotto il dominio nazista, portano a comprendere che esiste una netta divisione tra il procedere della scienza, con le sue indubbie relazioni interne, e il modo in cui questa scienza viene vissuta all’esterno, in un mondo in cui tesse rapporti complessi con le categorie politiche e sociali. Un tema non nuovo e che ha visto in epistemologi come Thomas Kuhn e Paul Feyerabend, negli anni inconsulti del rinnovamento rivoluzionario mondiale, impegnati a comprendere e denunciare la fragilità dell’evolversi della conoscenza umana.
La pubblicazione dell’ultimo numero di Psiche, antica e prestigiosa rivista che si pone l’obiettivo di fare da ponte tra la psicoanalisi e le altre discipline, è occasione per riprendere queste riflessioni. Con il titolo “Figure della mente”, il fascicolo monografico si muove alla ricerca dell’indefinibile, si concentra sul momento di rottura in cui l’atto creativo consente il transito da una teoria scientifica a un’altra, da un’immagine indistinta della mente alla realizzazione di un’opera architettonica o alla scrittura di una partitura musicale. Dunque indagine di quel che non c’è ancora, ma che, a posteriori, vediamo inequivocabilmente realizzato e di cui è indubbio il valore innovativo, ricerca disperata (e simpaticamente irrazionale) di comprendere i fattori interiori e quelli estranei al ricercatore che hanno portato alla scoperta, nella segreta speranza di riuscire a riprodurli. Se la cultura popolare ci richiama a “genio e sregolatezza”, un bel libro di David J. Skal ancora inedito in Italia, Screams of Reason — Mad Science and Modern Culture, ci consente di seguire il percorso storico che, nell’immaginario popolare, ha associato genialità a comportamenti asociali, spesso contigui, e oltre, al limite della pazzia stessa. Si tratta di un confine sottile che a volte viene sorpassato quando la dedizione al comprendere è eccessiva, ma che nel progressivo allontanamento dalla concezione mitica o religiosa della natura viene costantemente letto come la pericolosa lacerazione della sfera del divino che deve restare inaccessibile all’uomo. Così il grande sviluppo della scienza dell’Ottocento e del Novecento è affiancato da una rigorosa produzione immaginaria che parte dal 1815, data in cui appare Frankenstein di Mary Shelley, e si evolve fino al manifestarsi di una fantascienza statunitense di impronta chimico-biologico-nucleare, che accompagna tutto il lungo periodo della Guerra Fredda. Ma non sono solo la credenza popolare, e poi la cultura di massa, a scambiare per maniacalità dello scienziato il suo sforzo di liberarsi del pensiero dominante per smascherare quei fenomeni e quelle leggi che le teorie correnti occultano, ma è la stessa comunità scientifica che, a volte con ottusità e violenza, ha protetto se stessa e le sue teorie tradizionali, ritardando la proclamazione di nuovi paradigmi.
Soprattutto lo storico della scienza Gerald Holton, noto anche in Italia per opere fondamentali quali L’immaginazione scientifica (Einaudi), Einstein e la cultura scientifica del XX secolo (Il Mulino) e La lezione di Einstein (Feltrinelli), con il suo intervento su Psiche a proposito dell’intuizione scientifica, presenta un’esauriente raccolta di ricostruzioni storiche di quei momenti importanti in cui lo scienziato elabora un concetto, o esegue un esperimento, in mancanza di una qualche base empirica significativa o addirittura in disaccordo con la propria concezione del mondo e con la metodologia che ritiene esatta. Da un lato la storiografia ufficiale abroga ogni indulgenza verso argomentazioni che non siano gli oggettivi programmi di ricerca dei vari scienziati, accantonando ogni spunto che abbia a che fare con la fortuna (la serendipity di Röntgen, per esempio), le concezioni religiose (che hanno inevitabilmente condotto anche alla definizione di scienza ariana e giudaica, tipica del nazismo), le ideologie (che portarono a rigorose “concezioni materialiste della meccanica quantistica” sviluppate da alcuni importanti fisici sovietici anni or sono). Dall’altro è indubbio che alcuni scienziati siano stati in grado, rispetto alla loro generazione, di visualizzare le problematiche scientifiche in maniera innovativa. Gerald Holton, grande e rigoroso studioso della scoperta dell’elettrone e dell’introduzione della relatività einsteiniana, non può fare a meno di riportare episodi indulgenti che riguardano la carriera degli scienziati, che descrivono la vita quotidiana negli attimi immediatamente precedenti alla grande scoperta. Così fu durante una notte insonne, a causa di un caffè troppo forte, che il grande matematico Henri Poincaré giunse a formalizzare la teoria delle funzioni e dei gruppi fuchsiani. Si trattò quasi di illuminazioni improvvise, che Poincaré ritiene “segni evidenti di un lungo lavoro inconscio precedente”. Paul Dirac, che riguardo della sua teoria che portò all’introduzione teorica della prima antiparticella utilizzò termini sconcertanti come “bellezza matematica”, nel 1939, scrisse “si tratta di una qualità che non può essere definita, non più di quanto la bellezza possa essere definita per l’arte, ma che chi studia matematica, di solito, non ha difficoltà ad apprezzare”. Einstein, famoso per i suoi coloriti slogan che tiravano in ballo addirittura dio a difesa del suo disegno dell’universo, parla della sensazione di avere l’idea sulla punta delle dita. Max Planck, nel 1900, rincorre una dimostrazione rivoluzionaria di cui, per anni, non sarà convinto delle impreviste potenzialità.
Leggendo i contributi di Psiche, che sull’argomento di questa precisa figura della mente ha raccolto l’opinione di scienziati, storici, analisti, architetti e artisti, sembra richiamarsi, ma non è mai un’opinione chiaramente espressa, un’icona storicamente forte come quella dell’antistorico Galileo Galilei di Bertolt Brecht, dove l’indagine necessita dell’astrazione dall’esistente capace di consentire la visione della nuova regola del non conosciuto, l’uso “dell’occhio estraneo”. Un’estraneità interiore, capace di risalire all’improvviso e di interagire (come in una reazione chimica) con gli elementi più coscienti della cultura scientifica e artistica, con le capacità manuali, con le necessità. Una reazione chimica che, oggi, è sconosciuta e assolutamente irriproducibile, e che lo stesso Albert Einstein, dopo che nel 1916 si conclusero gli anni delle sue grandi intuizioni, cercò ancora lungo tutta la sua vita alla ricerca di una teoria che comprendesse i fenomeni quantistici in un’altra maniera.
Se leggiamo La stella nuova (Einaudi, pp. 164, 17,00 euro), l’ultimo libro di Enrico Bellone, direttore della rivista Le Scienze e importantissimo storico della fisica, troviamo una domanda molto simile. Le scoperte scientifiche sono conformi ai programmi degli scienziati oppure si manifestano e si sviluppano secondo logiche simili a quelle dell’evoluzione darwiniana, e siamo poi noi, i posteri, a rendere lineare la strada percorsa dalle scienze? L’esempio scelto da Bellone per illustrare la sua teoria della conoscenza, che deve molto a Karl Popper (che scrisse “il mondo fisico non è deterministico”), ma che sa essere più furbescamente legata a un’affascinante base empirica, è l’apparire di una “stella nova” nei cieli del 1604. Un evento inatteso e inspiegabile, che metteva in collisione l’osservazione sperimentale (che collocava il mostruoso evento cosmico nel settore dei cieli perfetti e immutabili) con la teoria astronomica, e che comportava una radicale ristrutturazione della teoria esistente. Ma “la natura non ha desideri e non ha letto manuali di logica”, e semplicemente manifesta se stessa senza chiedere il consenso degli scienziati e dei filosofi. Gli scienziati elaborano teorie mutanti, a volte casuali e bizzarre, che vengono selezionate dalla comunità umana come i girini all’interno di uno stagno. Tra queste robuste rane gracidanti c’è il disegno del cosmo galileiano…