di Giuseppe Genna
Presso il M.I.T, il 13 settembre 2003, si è svolto un incontro che probabilmente verrà percepito in futuro come una svolta fondamentale nella storia della psicologia occidentale. Il Massachussetts Institute of Technology è la fabbrica americana dei Nobel (non solo Nobel americani), il tempio dello scetticismo illuminista, il vaticano scientista per eccellenza. Se il M.I.T ospita, presso il Kresge Auditorium, un incontro tra i massimi psicologi mondiali e il Dalai Lama, la cosa fa già un certo effetto. Se, nel corso dell’incontro, il Dalai Lama e lo stato maggiore della psicologia occidentale trovano definitivi punti di contatto e prospettive sostanzialmente comuni tra meditazione tradizionale e discipline psicoterapeutiche di nuovo tipo — allora ci troviamo davanti a una rivoluzione autentica e, peraltro, da lungo tempo annunciata.
Il convegno, che si è rapidamente trasformato in un happening rilassato e frizzante, era intitolato “Investigare la mente”. Cinque ore di dibattito era il tempo previsto. L’incontro è durato invece tutto il giorno. La metafora centrale della discussione l’ha enunciata B. Alan Wallace, psicologo buddhista, dicendo che lo studio della mente è identico a quello delle costellazioni e dei pianeti, attraverso telescopio e viaggi spaziali.
Non voglio dilungarmi sugli importi deflagranti che le conclusioni tirate dall’élite della psicologia occidentale e dal Dalai avranno sulle nostre vite nei prossimi anni. Desidero, piuttosto, soffermarmi sulla metafora psicospaziale di Wallace. Poiché Wallace è uno studioso avvertito, saprà che la metafora sottende differenti livelli. Se esiste un punto in cui l’investigazione della mente e quella dell’universo sono accostabili, è un punto in cui queste due indagini sono coincidenti. Questo punto è un genere letterario, si chiami esso fantascienza o fantastico.
La ricerca del funzionamento dell’universo fisico, secondo la vulgata fantascientifica, che è l’unica residua scrittura sacra in epoca laica, coincide totalmente con l’indagine dell’universo mentale. Gli eventi a cui partecipano i protagonisti del fantasy o dell’epopea fantascientifica sono a tutti gli effetti eventi mentali: cioè esperienze di zone dello spaziotempo in cui e spazio e tempo si distorcono o si annullano, mentre visioni improbabili (al punto da confliggere con la nostra realtà di veglia ordinaria) si manifestano con sconcerto, inquietudine o beanza. Si tratta quasi sempre di visioni allegoriche. Il Male e il Bene, il Caos e l’Ordine, la Vita e la Morte, l’Odio e l’Amore: entità metafisiche, che fanno della fantascienza l’ultimo dei generi letterari massimalisti, si scontrano ed entrano in relazione secondo modalità che stanno tra l’onirico e il reale, in una festa sciamanica della visione interiore e immaginifica di cui l’uomo è capace. Un terzo occhio, in pratica.
La letteratura cura? Dipende dall’atteggiamento con cui si esercita la facoltà di lettura e scrittura. Certo è che nessuno di noi può essere scientificamente sicuro degli esiti farmacologici della lettura di Salgari, ma è anche vero che nessuno di noi è in grado di negare che quelle ore trascorse in infanzia nell’incantarsi non avessero un carisma di magia.
La letteratura muore fossilizzandosi, laicizzandosi: non credere più all’incredibile è il principio funebre che determina l’emivita della narrazione. Allora spuntano, come sempre, i figli, più o meno illegittimi. Il fumetto, nel caso della letteratura. Chi crede che Thomas Pynchon non funzioni (è in corsivo perché si tratta dell’orrido verbo usato dagli editor) perché è tutto eccessivamente improbabile e in tre righe di un suo romanzo accade troppo, non ha però problemi ad accettare che in un fumetto di Superman il buon Clark Kent stia a New York in una vignetta e al Cairo in quella successiva.
Una cura improbabile: una taumaturgia, cioè. Il potere della narrazione è taumaturgico, più che terapeutico; aspira a una guarigione, più che a una cura.
Che tipo di guarigione? E da cosa?
Il mondo non è una malattia. La percezione non è patologica. Questa ovvia verità sfugge alla prospettiva con cui i reazionari guardano al mondo e, con implicito lapsus, a se stessi. Il mondo è uno spalancamento di compossibili, e non sempre il momento sociale è cogente, essendo invece una condensazione dell’immaginario collettivo e, qualche volta, individuale, a patto che venga accolto da quello della comunità in cui la sua vicenda è inscritta. Il mito, tuttavia, esplode nel mondo secondo termini che tutte le tradizioni, da quelle sapienziali d’oriente a quelle scientifiche d’occidente, considerano come invarianti superstoriche.
Così sembra pensarla, per esempio, uno dei massimi antropologi del Novecento, Joseph Campbell, il più geniale studioso ed ermeneuta di mitologia del secolo scorso (in L’eroe dai mille volti, Guanda): “Il primo compito dell’eroe è quello di abbandonare il mondo degli effetti secondari e ritirarsi nelle zone causali della psiche dove risiedono le difficoltà e qui risolvere queste difficoltà, sradicarle (cioè dar battaglia ai demoni infantili della sua civiltà) e passare trionfante alla diretta assimilazione delle (…) immagini archetipe”. Sembra la perfetta descrizione di qualunque opera letteraria (intendo: grande opera letteraria), dall’Odissea alla Divina Commedia al Riccardo III a L’uomo che ride. Invece Campbell intende descrivere qualcos’altro. Il passo infatti si conclude così: “E’ questo il processo che la filosofia indù e buddista chiama viveka, ‘discriminazione’”.
Dire a un occidentale che discriminare significa compiere la parabola dell’eroe significa, al momento, restare inascoltati. Non sempre, però. Lo psicoanalista winnicottiano Mark Epstein scrive in La continuità d’essere (Ubaldini): “Sempre rispettoso verso la duplice capacità della mente (il conscio e l’inconscio), Freud aveva concepito una serie di strategie tese a eludere l’Io difensivo e spaventato, a ingannare la mente razionale allentandone il controllo. (…) A me sembra che Freud ricercasse sempre, inconsciamente, la meditazione”.
Per essere più precisi: chi sa che un eroe è un eroe? Quale meditazione cercava Freud? Queste due interrogazioni si equivalgono. Bisognerà domandarsi, in entrambi i casi, chi è che vede quello che si cerca.
Prendiamo il caso di Freud. Chi è quello che, anche supportato dalla relazione con l’analista, elude la mente razionale e penetra nei recessi della mente inconscia? E’ questo strano e terzo “io”, silenzioso e testimoniale, che, secondo le tradizioni meditative, medita. Chi ha conosciuto realmente tutta la parabola eroica, come un occhio che l’ha osservata da prima che iniziasse, mentre si compiva e dopo che è finita? E’ uno strano “io” quello che canta le gesta epiche.
Quale lingua parla questo “io” muto che, pur essendo silenzioso, produce un’esperienza di verità come quella che permette il lavoro analitico? Di più: qual è il linguaggio di questo “io” zittissimo che produce tutta la storia della letteratura? E’ l’estrema prova che l’uomo fatica ad affrontare: e cioè che tutto non sta nel linguaggio. La narrazione è un fluire di silenzio e linguaggi infiniti. E cosa è nello specifico il moto che ne determina il flusso (un flusso per nulla lineare, a gorghi, a rizomi, a reflussi)?
Nella risposta a questa domanda risiede la potenza del mito come narrazione, cioè il tocco supremo del divenire eterno che, stando al Dalai Lama e ai taumaturghi, è la verità-nonverità in cui consiste l’universo e la mente che ne ha notizia. E non soltanto secondo il Dalai Lama. E’ dal suo apparire, in forma di scrittura sacra o poesia epica o tragedia o romanzo, che la letteratura ripete instancabilmente, attraverso forme radiose e cangianti, questa medesima verità-nonverità.