Nostalgia e bisogno di normalità nell’America nemmeno “troppo profonda” del cinema anni ’90
di Gioacchino Toni
Un giorno di ordinaria follia
Dopo la riconferma di George W. Bush alla guida degli Stati Uniti d’America – e relativa indigestione di sondaggi, exit pool e percentuali varie -, come sempre avviene dopo una tornata elettorale, si assiste al proliferare di analisi del voto più o meno approfondite. Ecco allora che ricompare lo spettro (dimenticato fino al giorno precedente l’evento inspiegabile) dell’America profonda, vera e propria spina dorsale della società statunitense. Quando nel Vecchio Continente si hanno difficoltà nel comprendere avvenimenti concernenti la società nordamericana — realtà assai più sconosciuta agli europei di quanto questi siano disposti ad ammettere — ecco che rispunta lo spettro dell’America profonda.
Entità misteriosa, attraversata dai peggiori istinti, ove pullulano bigotti e reazionari di ogni tipo che solitamente vivono nell’ombra salvo poi rifarsi vivi in particolari occasioni. Da parte nostra, in queste brevi note, intendiamo semplicemente segnalare come, senza arrivare al bigottismo d’assalto dei settori più reazionari, il recupero di alcuni “vecchi valori” riguardi una fetta di popolazione nordamericana decisamente più ampia e di come tali valori siano al centro, più o meno in maniera critica, di diversi film di cassetta degli anni ’90.
Alla ricerca della famiglia perduta
Sabato 4 ottobre 1997 una folla impressionante di uomini, in prevalenza bianchi, si è data appuntamento a Washington per pronunciare collettivamente una serie di promesse volte a “salvare dalla deriva contemporanea” i sacri valori della famiglia. Gli organizzatori parlano di circa un milione di partecipanti, comunque, indipendentemente dall’attendibilità delle stime fornite, è innegabile che quella mattina, nella spianata che collega Capitol Hill al Lincoln Memorial, si è radunata una massa enorme.
Sette le solenni promesse che questa moltitudine di uomini, accomunati dalla fede cristiana, ha pronunciato solennemente: onorare Cristo nelle parole e nelle opere; mostrarsi solidali col prossimo; perseguire la purezza spirituale, morale, etica e sessuale; crescere la famiglia secondo i valori cristiani; sostenere la propria Chiesa di appartenenza; superare le barriere sociali e razziali; rispettare i Comandamenti (1).
Questa manifestazione oceanica può essere interpretata da vari punti di vista: diversi sono, infatti, gli elementi che meriterebbero di essere analizzati con attenzione. Tale evento ha sicuramente a che fare con il senso di crisi profonda, di perdita del ruolo tradizionale, vissuto dal maschio americano. Crisi evidenziata dal disfacimento di quel modello di istituzione famigliare che aveva a lungo accompagnato l’immaginario maschile. Il leader spirituale di questi Promise Keepers, Bill McCartney, ex allenatore di football, ha più volte sostenuto che il suo movimento d’opinione ha la convinzione che il “risveglio della nazione” si otterrà solamente attraverso il miglioramento degli uomini come mariti, padri e lavoratori.
Divorzi a ripetizione, aumento del numero dei single, ragazze madri, legami omosessuali… della vecchia istituzione famigliare, delle sue regole e dei suoi valori, agli occhi di molti americani sembrerebbe non restare granché. Secondo quanti provano nostalgia per un’epoca idilliaca che sembra essersi eclissata, il riscatto della nazione, gravemente ammalata, si potrà avere solamente grazie alla riconquista, da parte maschile, di quello smarrito senso di responsabilità nei confronti della sua cellula base: la famiglia. È emblematico che il riscatto, il ritorno alla retta via, passi attraverso il ristabilimento del tradizionale ruolo maschile.
Eventi come quello sopra descritto, non sono altro che l’esplicitazione collettiva di una crisi d’identità che sembrerebbe aver investito gli uomini americani, crisi che il cinema degli ultimi tempi ha rappresentato in vario modo; sono infatti molti i film che, in un modo o nell’altro, segnalano questa problematica. Ad esempio, in Nella società degli uomini (In The Company of Men, 1997) di Neil Labute si narra di due yuppie rampanti che, dieci anni dopo aver finito l’università, lavorano insieme in una ditta informatica. Il film inizia con una chiacchierata tra i protagonisti ambientata nella sala d’attesa di un aeroporto. I due sono ormai inseriti nel mondo del lavoro, ma si rendono conto della precarietà della loro posizione: basta un minimo errore e decine di giovani neo laureati, con qualche master appena conseguito, sono pronti a fare loro le scarpe. Il mondo del lavoro per i white collar è ormai una giungla: nessuno è più al sicuro. Chi si ferma è perduto. Il senso di sconsolata e nervosa attesa all’aeroporto segnala in qualche modo un preoccupante “tempo morto” e, nella società contemporanea, un tempo morto, può significare la fine.
Sebbene l’ambientazione della sala d’attesa sia ultramoderna, sullo sfondo si intravede un vecchio aereo ad elica esposto come cimelio. In queste immagini si ha una metafora dell’inesorabile mutamento dei tempi: la modernità – dell’ambientazione – e la nostalgia romantica per l’epoca dei pionieri – del volo, in questo caso – si incontrano in questa sala d’attesa. La contemporaneità ha in sé un elemento nostalgico, così come l’aeroporto ultramoderno contiene un aereo ad elica, quasi a suggerire che la contemporaneità necessita dell’elemento nostalgico, a testimonianza di una volontà di ricordare le proprie radici, umanizzando così un’epoca fredda come l’attuale che tende ad essere sempre più asettica e disumana.
I due, a parole, stanno disprezzando l’epoca in cui vivono, indicandola come una società di pescicani, di arrampicatori senza scrupoli e senza valori, ma saranno ben presto le donne a divenire il loro bersaglio preferito: queste infatti, secondo i due, continuano a maltrattare gli uomini e questi ultimi hanno perso su di esse ogni autorità, tanto che finiscono semplicemente per pagare il conto al ristorante, per poi essere piantati improvvisamente senza alcuna spiegazione. Il film si dipanerà poi in una, a dire il vero alquanto improbabile, storia di vendetta nei confronti del genere femminile: si vorrebbe far provare loro quel che si prova ad essere sedotti ed abbandonati improvvisamente, così, per gioco. L’uomo americano qui messo in scena ha perso ogni capacità di incidere sulla realtà, di determinarla a proprio piacimento, e si sente sempre più in balia di eventi che non è in grado di decidere, ai quali si deve semplicemente assoggettare.
In alcuni film l’incapacità, non solo da parte maschile, di far fronte ai problemi che vengono alla luce all’interno della cellula base della società occidentale, la famiglia, porta a veri e propri deragliamenti mentali e comportamentali fino a raggiungere manifestazioni maniacali. Molti di questi film, oltre la narrazione più superficiale, intendono, in un modo o nell’altro, sottolineare l’imprescindibilità della famiglia nell’ottenimento della felicità.
Ad esempio, Attrazione fatale (Fatal Attraction, 1987) di Adrian Lyne, è un film che mette in scena, a suo modo, come i valori della famiglia finiscano per trionfare contro quelle forze esterne che vengono a turbarne l’equilibrio. Nel film di Lyne si narra di una famiglia modello americana – un avvocato di successo sposato ad una bella moglie, con una figlioletta adorabile e l’immancabile cagnone – di cui viene messo a repentaglio l’equilibrio dall’entrata in scena di una donna esterna tentatrice, che si porta a letto il bravo padre di famiglia. Una volta accaduto ciò, il problema sarà difendere la famiglia da questa presenza esterna che, ora, pretende in qualche modo di entrare a far parte della vita dell’uomo.
Di fronte all’invadenza dell’estranea, l’eroe maschile – inevitabilmente Michael Douglas -, si troverà a dover confidare alla moglie di averla tradita e di essersi pentito di ciò. Dopo una fase di crisi all’interno della famiglia, quest’ultima saprà comunque ricompattarsi per ristabilire la serenità iniziale (2). In Attrazione fatale, però, abbiamo qualche elemento in più su cui soffermarci: la personalità dell’estranea – interpretata da Glenn Close – che viene a mettere in crisi il matrimonio. Al contrario di tante altre donne fatali, conturbanti e tentatrici, che fanno momentaneamente perdere la testa all’eroe maschile, qui il maligno – l’estranea – è mosso dal desiderio incontrollabile di costruirsi una “normalità” simile a quella dei personaggi con cui viene a contatto. Dall’eroe maschile vuole semplicemente lo stesso amore che egli ha nei confronti della moglie: vuole da lui un figlio, costruire una famiglia ecc. Sarà di fronte a tale impossibilità, una volta restata incinta, che darà sfogo a tutte le sue frustrazioni di donna che non è riuscita, e non sta riuscendo, a costruirsi una famiglia: «Ho già trentasei anni, forse per me questa sarà l’ultima occasione che mi capiterà per trovare un uomo che amo con cui avere un figlio e costruire una famiglia»: questo, a grandi linee, il ragionamento che spinge la donna a tentare di non lasciarsi sfuggire l’occasione della sua vita.
Altro film che narra di un’attrazione travolgente che finirà per oltrepassare la soglia della normalità è Attrazione pericolosa (A Dangerous Affairs, 1994) di Alan Metzger. Il film narra di una donna in carriera sulla trentina – sfiduciata dagli uomini che ha incontrato, incapaci di rassegnarsi a stare con una partner impiegata a livelli dirigenziali nel mondo del lavoro – speranzosa che l’uomo incontrato ad un party possa, finalmente, essere quello della sua vita. Purtroppo, dopo una prima fase idilliaca – a base di rose ed inviti a cena in limousine -, scoprirà che costui le nasconde un precedente matrimonio ed un figlio, oltre che una crisi economica fino a quel momento celata ad arte. Sfiduciata dalla falsità dell’uomo, lo lascerà. A partire da quel momento, però, finirà la sua tranquillità: l’uomo si farà via via sempre più ossessivo fino a giungere ad una vera e propria persecuzione. Al di là della qualità del film – davvero assai modesta – interessa notare come tutti i personaggi della vicenda siano alla disperata ricerca di affetto e di costruirsi una famiglia: l’amica del cuore, che spera di aver trovato l’uomo giusto con cui vivere, la stessa protagonista, che spera di aver trovato l’uomo col quale costruirsi una famiglia.
Alla ricerca della “famiglia perduta” è anche il protagonista di Un giorno di ordinaria follia (Falling Down, 1993) di Joel Shumacher: un uomo – ancora Michael Douglas – che sin dalle prime immagini ci viene presentato in maniche di camicia – rigorosamente bianca e linda -, pantaloni scuri, cravatta classica, occhiali e capelli corti con sfumatura alta, ma senza esagerare. Insomma un tipo perbene che sembra uscito dagli anni ’60, prima che questi fossero turbati, se non sconvolti, da inquietudini di vario tipo.
Il film inizia con il nostro uomo incolonnato con la sua automobile in un tremendo ingorgo che procede a passo di lumaca. Ad un certo punto, improvvisamente, scende dall’auto, l’abbandona e se ne va a piedi, tra lo sconcerto dei vicini. Le immagini iniziali sono claustrofobiche: uomini ammassati come sardine sotto al sole, in una coda interminabile; dopo una panoramica all’interno di questo labirinto di lamiere, la macchina da presa indugia brevemente su di una bandiera a stelle e strisce collocata sulla fiancata di un pullman, come a dirci che, oggi, l’America è questo: un ingorgo incomunicante di individui atomizzati che si guardano con ostilità.
Il protagonista raggiunge il negozio di un coreano e prende una Coca cola, ma in un attimo si trova a discutere animatamente con il proprietario. Improvvisamente si accende una lite ed il nostro uomo in maniche di camicia mette mano ad una mazza da baseball ed inizia a devastare il locale, reo, a suo dire, di avere prezzi sproporzionati: «Riporto il prezzo al ’65»; con questa frase giustificherà la propria collera. Insomma, vorrebbe riportare il tempo al 1965, all’epoca in cui le cose erano più giuste e l’America era un Paese unito, solidale e civile. Perlomeno, questo è il mito su cui ama cullarsi la middle class americana rappresentata dal protagonista.
Scopriremo, poi, che il nostro uomo ha una bella moglie, un’adorabile figlioletta ed un – immancabile – cagnone a casa, ma che qualcosa non deve aver funzionato: sono separati. «Non ti è consentito venire», «Questa non è casa tua; non lo è più»: così risponderà la moglie al telefono. Insomma, il nostro eroe ha il mondo contro: un ingorgo spaventoso, un negoziante maleducato che applica prezzi esagerati, la moglie che non lo lascia nemmeno tornare a casa dalla figlia il giorno del suo compleanno. Quanto basta per mandare in bestia anche la persona più mite di questo mondo.
La sua giornata sarà poi funestata da incontri spiacevoli con teppisti portoricani – ai quali preleverà una borsa piena di potenti armi -, e da un’altra lite in un fast-food, ove i gestori sono molto solerti nell’applicare orari in cui servire la colazione e poco inclini, al di là delle frasi odiose – e false – di circostanza, ad accontentare le esigenze dei clienti. Anche qui il nostro uomo “darà di testa”: sarà l’hamburger ordinato a provocare il caos. Il nostro – a nome di tutti gli americani che quotidianamente mettono piede in un fast-food – chiederà perché questo non corrisponde mai a quello pubblicizzato dalle fotografie, dagli strati ben differenziati e colorati, soffice ed invitante. Insomma si sente raggirato da un America che promette – con le immagini – cose che – nella realtà – non mantiene. In un’altra occasione un mendicante gli si avvicina importunandolo nella richiesta insistente di qualche spiccio, inventandosi un mare di bugie sull’onda di «sono un veterano…». Anche in questo caso, sarà la sfacciata falsità dell’individuo a mandare in collera il protagonista.
La rivolta di questo uomo è la rivolta dell’americano medio, costantemente ingannato a partire dalle piccole cose quotidiane; è la rivolta contro le promesse non mantenute. Non è un giustiziere, ma dichiara di aver semplicemente superato il punto di non ritorno. Dopotutto la sua auto è targata D-FENS e tutta la follia dispiegata non è altro che una reazione di autodifesa nei confronti di una società alla deriva, sempre più minacciosa ed indifferente nei confronti dell’individuo. Un uomo ormai scartato perché ritenuto inutile: «sono obsoleto», «non sono economicamente affidabile», «non riesco a mantenere mia figlia». Superato, inaffidabile ed incapace: queste le accuse mossegli a cui intende, seppur sconsideratamente, reagire.
Anche in questo caso, come in molti altri film ove un individuo apparentemente “normale” adotta atteggiamenti maniacali, l’astio è mosso dal voler riconquistare quella “normalità”, la famiglia innanzitutto, andata perduta e da motivi economici determinati dall’ennesima ristrutturazione che ha investito direttamente (anche) la middle class bianca: «Io facevo tutto quello che mi dicevano», «mi hanno mentito», «mentono a tutti». Nella beffa finale il protagonista finge di essere armato e sfida il detective che lo ha individuato in un tragico duello che lo vedrà perdente: morirà sotto i colpi della Legge. La Legge dei “nuovi tempi”. Ha mentito, ha finto di essere armato; ha utilizzato il sistema che aveva subito: la menzogna, la falsità. Così finisce il sogno di riunire la famiglia, mentre il film termina mostrandoci il videoregistratore di casa che trasmette vecchie immagini di un compleanno della figlia, in una sorta di inno alla famiglia unita (3).
Accomuna molti film, il delirio di chi vorrebbe riottenere quella normalità americana andata perduta certo anche per colpa sua, ma, più spesso, per colpa di una società che, inspiegabilmente, sembrerebbe aver improvvisamente perso la bussola. È un’America malata, quella messa in scena, con individui che, più di altri, manifestano i sintomi della malattia: l’incapacità di costruirsi una “normalità”, l’incapacità di mettere in pratica quei valori, tramandati da generazioni, ai quali si credeva e, dopotutto, a cui si continua a credere. L’individuo, così, viene sopraffatto da una frustrazione insopportabile. All’incapacità personale si aggiunge una società totalmente ostile sempre pronta a rimproverargli i fallimenti. Ci si sente traditi, raggirati, da una società che in superficie si mostra perfetta, ma che, sotto le immagini, è in realtà malata, priva di sensibilità nei confronti di chi ha bisogno. Una società cinica e sfruttatrice: è con queste idee in testa che si sono avute ultimamente negli Stati Uniti quelle manifestazioni oceaniche di uomini frustrati di cui si accennava all’inizio del capitolo.
John Waters ha invece affrontato la famiglia media americana mettendo in scena le criminali e folli gesta di una distinta signora – interpretata da una Kathleen Turner che sembra uscita dalla pubblicità anni ’50 di un detersivo o di un frigorifero -, gesta messe in opera con l’intento di difendere, seppure a modo suo, la famiglia dai pericoli sempre in agguato. Tali gesta, anziché provocare un benché minimo “risentimento morale”, risultano alla fin fine accettabili all’interno della società americana. Stiamo parlando di La signora ammazzatutti (Serial Mom, 1994), film – tratto dall’ennesima storia-vera -, che narra di una serie di omicidi compiuti da una madre-moglie-modello ossessionata dal timore di perdere l’atmosfera da soap opera domestica. Siamo di fronte ad una serial-killer che, nelle sue ordinate quanto ripetitive giornate da casalinga middle-class, si preoccupa di fare la raccolta differenziata della spazzatura, di allacciarsi per bene la cintura di sicurezza in auto, di soddisfare marito e figli “come tradizione vuole”, e che darà sfogo a tutti i suoi peggiori istinti, repressi sotto le bonarie apparenze, proprio per difendere tutti questi valori che vede costantemente minacciati da qualche estraneo, in un crescendo che da lettere e anonime telefonate oscene alle vicine, passerà poi a ben altre vie, uccidendo personaggi rei di aver turbato, in qualche modo, la tranquillità dell’istituzione famigliare. La comunità le si stringerà attorno perché, sotto sotto, si riconosce nei principi che hanno guidato le sue folli gesta e si mostrerà disposta a darle credito, stando al gioco; difatti, nonostante la mole di prove che la incolpano, il tribunale – l’istituzione giudicante “nel nome del popolo americano”- la assolverà. Condannarla significherebbe condannare le fondamenta stesse della società: la famiglia, e questa deve essere difesa, costi quel che costi, con ogni mezzo necessario.
Il film, costruito su tonalità grottesco-brillanti, finisce per denunciare in realtà anche lo stesso pubblico che lo visiona divertito, partecipando ai crimini ed all’evento mediatico, con tanto di gadget vari che marito e figli hanno messo in piedi sfruttandone la notorietà improvvisa. È una storia vera? Pazienza, dopotutto si tratta di una mamma perbene della classe media (e bianca) americana; come non parteggiare per lei?
In altri casi la perdita di identità di un membro della famiglia, perlopiù la figura maschile, è dovuta all’improvviso successo sul lavoro. La vanità della scalata gerarchica nella società per cui lavora porta spesso l’individuo a perdere i vecchi valori sui quali si fondava il rapporto di coppia. La carriera, sembrerebbero suggerire molti film, se posta al primo posto nella vita di un individuo, finisce per cancellare la sua vera identità, che si esprimeva nel rapporto col partner. Anche in questi casi abbiamo una semplificazione di comodo: la colpa è spesso data ad una supposta deriva contemporanea di valori altrimenti non disprezzabili. La carriera ed il duro lavoro ventiquattrore al giorno, con tanto di moglie a casa in perenne attesa del ritorno di “chi porta a casa il denaro” non sono mai stati disprezzati nella storia di Hollywood (4). Ora, però, le mogli si sono fatte poco disponibili all’attesa, meno inclini ad astenersi da quel minimo di vitalità, oltre che di presenza, del proprio uomo. Insomma, molti film sembrerebbero suggerirci che assistiamo anche ad un poco di ingratitudine femminile.
Nel film Il socio (The Firm, 1993) di Sidney Pollack abbiamo una famiglia di giovani sposi – ancora con cagnone — che, pur vivendo in un’abitazione spartana e mangiando economico cibo da asporto, appare felice. Lei lavora in una scuola materna, lui si è laureato in Legge presso una delle più prestigiose università specializzandosi in campo finanziario, ed è in attesa dell’esame di abilitazione all’Ordine (5). Il protagonista – Tom Cruise – riceve una lettera per un colloquio di lavoro presso uno studio prestigioso in una lontana città del Sud. L’offerta economica è al di sopra di ogni previsione; l’unico problema è che deve trasferirsi. La moglie mostra qualche perplessità circa il dover cambiare città, ma per amore del marito finisce per accettare. Durante un party, i nostri giovani sposi conoscono meglio l’ambiente che si troveranno a dover frequentare nella nuova città e si trovano di fronte ai futuri colleghi di lavoro. «Lo studio incoraggia ad avere figli» perché «i figli vogliono dire stabilità», si sente dire la giovane donna, che confida al marito di non avere nulla contro la tradizione, «ma questi sono pazzi». In altri termini, questa società che si troveranno a dover frequentare non fa altro che applicare, e far applicare, quei comportamenti che la consuetudine perbenista ritiene doverosi per il corretto funzionamento della società; soltanto lo fa dichiaratamente con intenti volti all’ottimizzazione. Società qui intesa tanto dal punto di vista dello studio legale, quanto a livello più ampio. In altre parole, la pianificazione funzionale della famiglia comporta il corretto funzionamento sociale.
Al giovane vengono offerti tutti gli status symbol che competono al rango che si troverà a ricoprire, ossia quello di promettente avvocato di uno degli studi legali più prestigiosi. Durante un colloquio con un collega più anziano, il giovane avvocato si troverà a dover motivare le ragioni che lo hanno spinto ad intraprendere la carriera forense e, nel corso di questo colloquio, il protagonista si guarderà bene dal dare l’impressione di avere fatto questa scelta perché spinto da ideali non in linea con lo studio legale per il quale si trova a lavorare; dichiarerà di aver scelto la specializzazione in campo finanziario «perché il governo può colpire chiunque»: «insomma, non siamo due idealisti», «ci mancherebbe!».
Ben presto il nostro eroe si troverà all’interno di un perverso meccanismo malavitoso, gestito e pianificato proprio dal prestigioso studio per cui lavora, dal quale non sembra più in grado di uscire. Pian piano il protagonista scopre che lo studio per il quale lavora si adopera per il riciclaggio di denaro sporco di una nota famiglia malavitosa. Gli avvocati che entrano a far parte dello studio vengono, poco alla volta, coinvolti nell’operazione e messi in condizione di non potersi tirare indietro. Chi ha provato a farlo ha pagato con la vita.
La polizia, entrata in scena contattandolo direttamente, lo mette al corrente che dal momento stesso in cui ha deciso di lavorare per quello studio legale le cose sono cambiate definitivamente: «La sua vita di una volta è finita!». L’entrare a far parte di questo mondo patinato, rivestito di tradizione, significa, in qualche modo, vendersi l’anima e, con essa, l’identità: «non pretendo chissà quale vita, ma deve essere la mia!». È l’identità che questo diabolico studio legale richiede in cambio: è l’adeguamento ad un modello di vita, di comportamento, e ad una complicità che riplasmerà completamente l’individuo. Una volta smarrita la personalità, una volta resosi conto di dover dare in cambio dello stipendio faraonico molto di più che una prestazione forense, il giovane si rende conto che con questo lavoro sta perdendo se stesso, la propria autenticità. Questo lavoro lo induce infatti a negare di avere un fratello in carcere ed una madre che vive in miseria; questa nuova attività lo porterà al tradimento nei confronti della moglie ecc. Insomma, poco a poco sarà assorbito nell’omologazione richiesta.
La polizia quindi spiega la situazione al giovane avvocato chiedendo, in cambio di protezione, pericolosi servigi di denuncia di quanto accade nello studio; tra questi vi è anche la deposizione in tribunale, deposizione che comporta il venir meno all’etica professionale, la quale al contrario richiede la massima discrezione nei confronti dei propri assistiti. Da una parte, la complicità con lo studio lo rende perseguibile per legge, dall’altra la denuncia dei traffici con i clienti malavitosi lo porterebbe all’espulsione dall’ordine degli avvocati, dunque alla rinuncia di quel lavoro per il quale aveva tanto lottato.
Il tradimento nei confronti della moglie sancirà il tradimento dei propri valori e dei propri principi; sarà la scintilla che darà il via alla presa di coscienza della necessità di trovare una via d’uscita dalla situazione in cui si è messo. Il nostro eroe cercherà, e riuscirà a trovare, il modo di salvare la sua futura carriera d’avvocato, salvaguardando così i sacrifici fatti, ed allo stesso tempo di incastrare lo studio legale. In altre parole riuscirà, senza venir meno alla riservatezza nei confronti dei clienti, dunque senza violare la deontologia professionale, a trovare un cavillo giuridico in grado di incriminare i vertici dello studio. Sarà, dunque, da una parte la sostanziale integerrimità dell’uomo che non si lascia comprare dai soldi e dal potere, e dall’altra la stessa legge appresa nel corso degli studi, a ristabilire la giustizia violata nei propri confronti e, dunque, nei confronti dell’intera società americana.
Il recupero dei vecchi valori, il ristabilimento della propria dignità etica e morale, ricongiungono la famiglia entrata in crisi, contribuendo, inoltre, all’eliminazione del marcio che si è fatto strada nella società americana. Il ristabilimento dei valori si ha, però, anche grazie al sacrificio a cui è pronta a sottoporsi la moglie, seppur tradita, per soccorrere il suo uomo. Insomma, la solidarietà disinteressata della famiglia si scontra, e vince, sulla solidarietà di facciata – in realtà per solo interesse economico – della “grande famiglia”, rappresentata dallo studio legale. È la famiglia vecchio stampo che deve sorreggere la nazione americana, non la famiglia d’affari, che dietro alla facciata non ha alcuna morale. L’amore ed il rispetto delle regole possono, e devono, battere l’affarismo senza scrupoli che aggira le regole che la società si è data. Questo, in sostanza, il messaggio del film.
Film citati
Nella società degli uomini (In The Company of Men, 1997) di Neil Labute
Attrazione fatale (Fatal Attraction, 1987) di Adrian Lyne
Attrazione pericolosa (A Dangerous Affairs, 1994) di Alan Metzger.
Un giorno di ordinaria follia (Falling Down, 1993) di Joel Shumacher
La signora ammazzatutti (Serial Mom, 1994) di John Waters
Il socio (The Firm, 1993) di Sidney Pollack
Nel centro del mirino (In the Line of Fire, 1993) di Wolfgang Petersen
Note
1 Gli Stati Uniti sono un paese a forte adesione religiosa e secondo Roger Finke e Rodney Stark, studiosi di sociologia della religione, la tendenza più evidente nella storia religiosa americana è il churching (Finke, Stark 1992). Si stima che, attorno ai primi anni ’80, l’adesione religiosa toccasse il 62% della popolazione e mentre alcuni dei principali raggruppamenti Protestanti (Congregazionalisti, Episcopali e Presbiteriani) hanno subito una diminuzione, le sette emergenti – i Metodisti ed i Battisti in particolare, ma anche i Cattolici -, hanno visto un incremento notevole di adesioni.
2 È interessante segnalare che la versione originaria del film terminava con l’estranea che si suicidava facendo in modo che l’uomo fosse accusato di omicidio. Soltanto dopo aver riscontrato i gusti del pubblico nelle previews, la produzione ha deciso per un finale ad alta tensione in cui marito e moglie si difendono ed eliminano “il maligno” che aveva messo in crisi la loro unione.
3 Le ultime parole del film, saranno quelle del videoregistratore “tutta la famiglia unita”.
4 Il detective od il poliziotto abbandonato dalla moglie perché questi privilegia il duro, ma amato, lavoro sugli “obblighi coniugali”, è una figura che si incontra frequentemente nella tradizione cinematografica americana. Solitamente l’eroe di turno — barba di due giorni ed abbigliamento un po’ spiegazzato, seppure elegante – costruisce la sua maschera proprio sui valori dell’individualità sganciata dai normali obblighi: si tratta di sottrazioni alle buone maniere ammesse al fine di ristabilire nella società l’ordine infranto. Mentre nel cinema del passato l’abbandono del tetto coniugale è, in sostanza, una sorta di indispensabile tributo richiesto a pochi individui che devono poter avere le mani libere per agire senza vincoli di alcun genere, nei film presi in esame in questo scritto a nessuno sembra più concesso di sottrarsi, se non momentaneamente, all’ordine dell’istituzione matrimoniale. Anzi, è proprio per ristabilire questo ordine che i nostri eroi si trovano a lottare.
5 Nella maggior parte dei casi, la figura femminile ha una collocazione, all’interno della gerarchia lavorativa, assai inferiore a quella dell’uomo. Non mancano, però, film in cui il problema è dato dalla donna in carriera.