di Valerio Evangelisti

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Wu Ming 1, New Thing, Einaudi Stile Libero, 2004, pp. 222, € 14,00.

Wu Ming 1 ha una convinzione che, in questi giorni successivi alla rielezione di George W. Bush, sembra appartenere a tutti: la storia degli Stati Uniti è, lo vogliamo o no, da oltre mezzo secolo a questa parte, la nostra stessa storia. Un’idea che tuttavia non basta enunciare, salvo appiattirsi sul presente, come fa una pletora di commentatori d’accatto, per spacciare il faustiano “attimo fuggente” quale specchio di un’anima eterna. Gli Stati Uniti odierni sono il prodotto di lotte feroci, di sopraffazioni, di rivolte, di violenze inaudite iniziate con la loro nascita e non ancora sopite. Chi voglia portarle alla luce deve scavare nel profondo e sporcarsi dita e unghie di terra. Certa saggistica lo fa, ma non riesce ad arrivare al grosso pubblico. Per fortuna esistono i narratori — certi narratori — capaci di disseppellire ciò che si è tentato di occultare.

New Thing riesce nell’impresa, ambiziosissima, di essere al tempo stesso saggio e romanzo. Non romanzo storico, si badi, e meno che mai saggio romanzato. Semplicemente, talune esistenze individuali, immaginarie e non, vi sono colte nel momento in cui una svolta importante investe la società americana e sembra aprire la strada a una sua trasformazione.
Siamo negli anni ’60, le forme di ribellione che avevano agitato gli Stati Uniti nei decenni precedenti si sono spente, soffocate dal maccartismo oppure logorate dalle loro stesse contraddizioni. Ed ecco che, tra la sorpresa di molti, sono i neri a sollevare la fiaccola di una ribellione che la sinistra bianca non è più in grado di reggere. Si parte con le istanze democratiche di Martin Luther King, si affinano le armi con il radicalismo di Malcolm X e di Stokely Carmichael, padre del Black Power; si sfocia nell’aperta rivolta antisistema del partito delle Pantere Nere. Piccoli eserciti di neri armati presidiano i ghetti, forniscono colazioni gratuite ai bambini, tentano la carta dell’autogoverno delle comunità. Peggio ancora, influenzano la rinascita della sinistra americana in atto nei campus, instaurano con essa un dialogo scontroso e diffidente, la incitano a scendere sul loro stesso terreno di scontro frontale col potere. E’ molto più di quanto l’establishment possa tollerare. Parte la repressione ed è ancora una volta selvaggia, sanguinosissima. La rivolta dei neri è ancora meno tollerabile delle altre. Violenza dispiegata, menzogne, infiltrazioni, omicidi individuali, manovre contorte di una sporcizia invereconda. Tutto viene messo in atto dal potere perché il ghetto torni sui binari consueti della delinquenza e della droga. E’ una lotta impari, che vinceranno i cattivi travestiti da buoni. Vittoria transitoria, forse, ma che trascina ancora nel nostro presente i suoi esiti nefasti.
Un movimento così ampio e dirompente non poteva non produrre una propria cultura. E’ qui che si colloca il romanzo di Wu Ming 1. La “cosa nuova” — New Thing, appunto — altro non è che il free jazz, quello di Archie Shepp e di tanti altri musicisti dell’epoca ispirati da John Coltrane. Confesso — come temo non faranno altri recensori — di non saperne quasi nulla, e di avere proprio nel romanzo di cui sto parlando la mia principale fonte di informazione. Ricordo però di avere a suo tempo letto uno studio intitolato Free jazz / Black Power (che Wu Ming 1 cita nella sua ampia e quanto mai opportuna bibliografia). Questa forma di espressione musicale vi veniva addirittura definita “marxista”. All’epoca giudicai l’affermazione bizzarra e avventata. Dopo la lettura (appassionata) di New Thing non ne sono più tanto certo. Non so se sia il caso di parlare di “marxismo”, però nel corso di tutto il libro di Wu Ming 1 i protagonisti — chiamiamoli così per comodità, visto che la storia è corale — non fanno alcuna distinzione tra la rivolta che li coinvolge e la musica che ascoltano o che eseguono. Tanto è vero che sarà la scomparsa di John Coltrane a mettere fine, simbolicamente, a entrambe le esperienze.
Ecco un caso in cui “struttura” e “sovrastruttura”, per usare la terminologia marxiana, aderiscono perfettamente, anche al di là del nesso che Marx supponeva. Del resto, chi abbia in qualche modo assistito da vicino alla protesta giovanile (italiana ma non solo) della fine degli anni ’70 e dei primi anni ’80, ricorda bene come il punk ne rappresentasse la naturale colonna sonora. Un po’ come gli scioperi delle mondine, dai primi del ‘900 in avanti, avrebbero forse avuto altro sapore senza le loro canzoni, tra l’altro mezzo di comunicarsi contenuti che chi governava allora non avrebbe tollerato. Il free jazz, da ciò che Wu Ming 1 espone con tanto potere di convinzione, dovette svolgere un ruolo simile. Non è un caso che un grande storico marxista come Eric J. Hobsbawm abbia scritto un’imponente (e oggi introvabile) Storia sociale del jazz.
Chi abbia seguito fin qui i miei ragionamenti li avrà trovati divaganti, e ora reclamerà la trama di New Thing. Be’, la trama è proprio quella di cui sopra. Se proprio vogliamo entrare in dettaglio, diciamo che nel romanzo una serie di musicisti free jazz cadono vittime di un assassino seriale, e che c’è anche un poliziotto che conduce un’indagine. Tuttavia i delitti non conducono a un banale assassino schizofrenico, bensì a una macchina ideologica di morte di tutt’altro genere, mille volte più temibile. Quanto al poliziotto — onesto, va detto — è solo uno dei tanti polmoni che respirano l’aria, via via più mefitica, che si assorbe mentre il movimento perde terreno. Se si desidera un indizio circa la “soluzione”, si sappia che un colpevole c’è, ma che la chiave che l’autore fornisce (tanto geniale quanto fuorviante, dunque inservibile) sta nel racconto di Poe I delitti della rue Morgue.
Wu Ming 1 non dice di più, e io mi atterrò alla consegna del silenzio. La suspense del romanzo, che scatta implacabile non appena ci si adatti all’atmosfera, non nasce dall’intreccio. Nasce proprio dall’atmosfera.
Il clima del momento storico attraversa i protagonisti, condiziona il loro agire e la loro sorte. Il tutto narrato attraverso un’intervista ai personaggi del libro condotta oggi, in condizioni totalmente mutate, alternata a materiali di varia provenienza (articoli di giornale, confessioni, exergo significativi quanto il capitolo che introducono). Si penserebbe al Dos Passos di USA, ma qui l’operazione è condotta con maggiore sapienza e con esiti enormemente più felici. Quando degli Stati Uniti parla un europeo, e per di più un europeo di enorme cultura, è meglio che gli americani si facciano da parte.
Un’ultima annotazione circa lo “stile”, ammesso che il criterio abbia un senso. E’ colloquiale, fluido, aderente a quello della comunità rappresentata. Funzionale all’idea che si vuole comunicare e all’atmosfera che si intende ricreare. Si indovina che ogni riga, ogni parola, devono avere richiesto uno sforzo consistente, non tanto per essere espresse, quanto per celare il virtuosismo che le sottende.
Non so quanti lo comprenderanno. Dalle nostre parti capita che sia esaltata la maestria di chi sbatte in faccia al lettore il tormento stilistico da cui è stato rapito, mentre accumulava frasi su frasi indirizzate a épater le bourgeois. E’ il “manzonismo degli stenterelli”. Wu Ming 1 ne è immune, se Dio vuole, e della propria ricerca lascia trapelare il meno possibile. Il risultato è un romanzo da assaporare. Un romanzo bello e profondo. Un romanzo importante.