Bush-Kerry. Il fascino dell’empatia in una democrazia che declina
di Francesco Dragosei (da il manifesto del 5 novembre 2004)
Se Bill Clinton qualche tempo fa sintetizzò un certo momento politico del paese con la battuta «it’s the economy, stupid», l’odierna sconfitta delle ragioni di Kerry e dei democratici potrebbe essere sintetizzata con la frase «it’s fear, stupid» (è colpa della paura, stupido). Magari ripetuto tre volte. Infatti, anche in queste particolari elezioni così legate alla guerra, al terrorismo, a immagini ed icone terrorizzanti (vedi la riapparizione del fantasma di Bin Laden), gli americani hanno confermato di non essere – come troppo spesso amano pensare di loro gli europei – un paese regolarmente influenzato, nelle sue scelte politiche, da biechi calcoli di opportunismo politico o economico, quanto invece, sovente, da pulsioni emotive, simboliche, morali, idealistiche (anche se di un idealismo spesso spurio).
Hanno anzi rafforzato la sensazione che in fondo la politica e la polis siano categorie deboli e poco sentite per un gran numero di cittadini medi americani, assai spesso portati ad accendersi, più che di fiammate per la politica e i ragionamenti politici, di periodiche vampe emotive, fobiche, patriottiche (che non vuol dire politiche) ribellistiche, individualistiche, messianiche , religiose. Prova ne sia che il Sessantotto americano da movimento politico si è presto risolto in ribellismo esistenzialistico: hippies, libertà sessuale, droga e musica psichedelica, spiritualismi vari.
Ancora una questione di fear (ma stavolta «interna», non esterna), è stato un altro elemento determinante per la vittoria di Bush: quello del fattore Moore (Moore fear?). Quasi sicuramente infatti la aggressività e l’eccessiva spregiudicatezza della campagna anti Bush dell’appassionato regista ha avuto un disastroso effetto boomerang, galvanizzando sì le fila democratiche, ma anche (soprattutto?) spaventando e sferzando i molti repubblicani «in pectore» ma non «in urna» (quelli cioè che di solito non vanno a votare). Al punto di indurre milioni di essi a scomodarsi per l’occasione, vista la terrificante atmosfera di scontro di civiltà e culture di cui era stato circonfuso l’evento (esempio: di qua la famiglia «normale» e i valori tradizionali dell’America, di là la sconvolgente prospettiva del matrimonio omosessuale: prospettiva respinta in tutti gli undici stati in cui è stata materia di referendum).
Una terza paura che molto deve aver pesato è stata generata da quell’antico complesso (così diffuso nell’americano medio) di inferiorità e nello stesso tempo disprezzo verso tutto ciò che ricorda la raffinatezza, la sofisticazione, l’aristocrazia non solo di sangue ma anche di spirito e di ragionamenti di quell’Europa dalla cui soggezione ci si era liberati con la gloriosa American Revolution. Complesso che si è nel corso dei secoli cristallizzato e ramificato in una serie di antitesi, idiosincrasie, fobie americane. Quali la continua contrapposizione (ben esemplificata dalla letteratura nazionale) tra la town, la piccola città, vista come modesta, genuina, portatrice di autentiche energie e virtù americane, e la city, la grande città, considerata quale verminoso ricettacolo di sofisticazione, cosmopolitismo, intellettualismo, raffinatezza quasi europea. Quali la diffidenza verso tutto ciò che sa di intellettuale (vedi l’invenzione, avvenuta proprio in terra d’America, del dileggiante termine egghead, testa d’uovo, per definire l’intellettuale). Quali la retorica della Frontiera, con tutta una annessa genealogia di eroi rudi e determinati nel menare le mani: da Davy Crockett a Theodore Roosevelt a John Wayne, eccetera.
Una formidabile carta vincente di Bush è stata appunto quella di non attenuare o coprire ma viceversa astutamente esibire la propria inappartenenza alla cittadella dell’intellighenzia e alle sue molte parole: ora con l’uso di un linguaggio umilmente demotico, ora con l’accessibilità dei propri codici corporei e di un approccio alla gente che lo facevano continuamente percepire come collocato dalla parte giusta (quella dell’uomo della strada) di tali dicotomie americane: town-city; intellettualismo-rudezza della Frontiera; eloquenza dei politici – inarticolazione della gente; politica – odio per la politica. Tanto che la sua vittoria finale era già presagibile dai tre faccia a faccia di ottobre con Kerry. Risoltisi tutti in una evidente sconfitta di Bush quanto a capacità dialettiche, ma in una sotterranea vittoria sul piano dell’empatia e della possibilità di identificazione con lui da parte dell’ (ugualmente inarticolato) uomo della strada.
All’inizio del Novecento l’intellettualissimo Theodore Roosevelt (dunque mille miglia lontano dalla rozzezza intellettuale di Bush) seppe a tal punto camuffare la propria appartenenza all’inviso mondo degli intellettuali da apparire come esempio paradigmatico di rude «presidente della Frontiera», nonché da riuscire ad ottenere il mandato di capo della nazione per due volte. Cent’anni dopo, Kerry ha tentato anche lui di camuffare il proprio scomodo intellettualismo con delle maldestre interpretazioni dell’immarcescibile ruolo del presidente-uomo-della-strada (vedi il goffo aggiornamento, con completo mimetico e fucile da caccia, della famosa immagine di Theodore Roosevelt con piede sull’orso ammazzato e fucile fumante in mano). Essendo però un attore incomparabilmente inferiore a Roosevelt, ha miseramente fallito.
E proprio le goffe messe in scena del Kerry cacciatore o del Bush amicone di tutti (gli americani) ci portano a un’ultima considerazione sui risultati del due novembre. Oltre che dell’emotività e delle fobie dell’America, l’esito delle presidenziali ci parla del deterioramento e scadimento della pratica e dell’idea di democrazia in ogni parte del mondo. Qualcuno ha osservato che queste presidenziali, con quelle lunghe file di cittadini in attesa di votare, hanno registrato comunque per l’America una vittoria della democrazia, un ritorno della polis, un risveglio della partecipazione civica da parte di un paese da lungo tempo sonnacchioso ed apatico. E’ però anche vero che con questa vittoria di Bush viene alla luce la crisi profonda della democrazia (non solo americana), la spirale degenerativa di un qualcosa che sempre più deve scendere al livello più basso se vuole ottenere il consenso più alto. Un qualcosa che non deve (a costo di perdere) cercare i ragionamenti o parlare di programmi politici, ma viceversa mirare continuamente allo slogan, la battuta, l’empatia e la simpatia. In tale contesto, anche un politico ragionante come Kerry ha dovuto continuamente scendere a compromessi, a piaggerie da stadio, a circenses televisivi e altro. Presentarsi in sconcertanti pose «popolari». Ora camuffato da cacciatore, ora con una incongrua palla ovale in mano, ora mentre, impeccabilmente vestito di giacca e cravatta, finge di colpire una finta palla con una finta mazza da baseball.
La continua banalizzazione, lo svuotamento, lo svilimento della politica e dell’idea di democrazia, l’espulsione di programmi e ragionamenti da parte dello slogan, la penalizzazione dell’articolazione della parola politica. Questo è uno dei più tristi risultati di queste tristi elezioni. Oggi in America, domani anche nel nostro paese. O, forse, già oggi.